IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXV, 1993, Numero 2, Pagina 65

 

 

Cittadinanza europea
e nuovidiritti dei cittadini dell’Unione
 
FRANCESCO MAZZAFERRO
 
 
La cittadinanza europea, nuovo strumento politico per consolidare l’Unione dopo Maastricht.
 
Il Trattato di Maastricht inserisce nei testi istitutivi della Comunità europea (e della futura Unione) un nuovo corpo di articoli, raggruppati in una sezione intitolata «cittadinanza dell’Unione». Tale sezione si apre con l’articolo 8, in cui si proclama che è istituita la cittadinanza dell’Unione e che essa è attribuita a tutti coloro che abbiano la nazionalità di uno Stato membro.
Il testo sovrappone e confonde concettualmente cittadinanza e nazionalità, rivelando una concezione tradizionale e certamente non innovativa dell’attribuzione di diritti e doveri politici. Nel nuovo sistema giuridico dell’Unione la cittadinanza europea non ha mai un carattere «originario» e piuttosto deriva sempre — ed automaticamente — dalla nazionalità dell’individuo. La cittadinanza europea si può acquisire (o abbandonare) solamente con l’acquisizione o la perdita della nazionalità di uno degli Stati membri. L’ingresso di uno Stato nell’Unione conferisce a tutti i cittadini la cittadinanza europea; l’uscita di regioni dall’Unione (si pensi al precedente del referendum in Groenlandia) priva i cittadini della medesima cittadinanza europea, qualsiasi sia la loro intenzione personale.
Il Trattato dispone che il cittadino dell’Unione abbia diritto alla libera circolazione e alla libera residenza nel territorio degli Stati membri, sia pur nel rispetto di atti legislativi di applicazione che dovranno essere emanati dagli Stati membri. Il Trattato attribuisce il diritto di voto municipale ai cittadini europei residenti in un comune di uno Stato diverso da quello di cui abbiano la cittadinanza, ma dispone che gli Stati membri definiscano le condizioni di applicazione: una disciplina europea comune potrà essere definita, ma solamente all’unanimità, dagli Stati membri, previo avviso conforme del Parlamento europeo. A condizioni tutto sommato eccezionali la cittadinanza europea attribuisce il diritto alla protezione diplomatica da parte di uno qualsiasi degli Stati membri: il cittadino europeo potrà recarsi in un Consolato o Ambasciata di un altro paese dell’Unione, a patto che nella località in cui si trova non vi sia alcuna rappresentanza del proprio Stato membro. Il testo di Maastricht introduce inoltre nei Trattati di Roma il diritto di petizione al Parlamento europeo (già previsto nello Statuto del Parlamento stesso) e la figura dell’ombudsman, cioè il difensore civico (si tratta di una novità). Stabilisce infine che tutte le ulteriori norme dell’ordinamento giuridico dell’Unione che vengano in futuro ad arricchire le disposizioni del Trattato in materia di cittadinanza non possano essere decise se non con l’unanimità degli Stati ed abbiano il valore di direttive non direttamente applicabili. Si pone in tal modo un ostacolo significativo all’approfondimento del nuovo istituto giuridico.
Se ci si ferma dunque ad una interpretazione letterale del testo, e non si tenta invece una valutazione prospettica delle possibili evoluzioni al di fuori del quadro del Trattato, inserendo al tempo stesso le nuove norme nel complesso di atti giuridici comunitari già esistenti, gli articoli del Trattato potrebbero sembrare al più una novità sul piano delle proclamazioni, senza immediate conseguenze giuridiche e ricadute politiche. Il diritto comunitario attribuiva infatti già una serie di diritti «fondamentali» ai cittadini degli Stati membri — si pensi alle famose quattro libertà, cioè la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali — e le disposizioni del Trattato di Roma, così come quelle del diritto «derivato» della CEE, potevano essere fatte valere di fronte a qualsiasi giudice nazionale.
Ma anche i principi hanno un innegabile valore evocativo di più importanti sviluppi, ed è proprio la valenza potenziale della cittadinanza dell’Unione, come strumento per rafforzarne l’esistenza e per dotarla di nuovi contenuti politici, che spinge ad occuparsi, dal punto di vista dell’elaborazione del pensiero federalista, di questo tema, che potrebbe altrimenti essere relegato — per i propri aspetti tecnico-giuridici — nelle aule delle facoltà di giurisprudenza. D’altra parte, i nemici dell’Europa in Francia e in Gran Bretagna si sono subito scagliati contro le regole contenute nel nuovo Trattato, denunciando che, attraverso lo strumento della nuova cittadinanza, si verrà a ledere la natura originaria ed esclusiva della cittadinanza nazionale e si introdurrà un pericoloso grimaldello per chissà quali sopraffazioni nei confronti dei compatrioti. Da ultimo la Danimarca, per favorire la risposta favorevole dei propri cittadini al secondo referendum su Maastricht, ha addirittura concluso un accordo con gli altri Stati membri per sottrarsi all’obbligo di riconoscere ai propri cittadini e a quelli degli altri paesi i benefici della cittadinanza dell’Unione.
Che le conseguenze a medio termine dell’introduzione della cittadinanza europea siano ricche di sviluppi più importanti di quanto potrebbe risultare dalla lettera del Trattato è dimostrato infine dal fatto che alcuni degli Stati membri — ad esempio Francia e Germania — hanno dovuto modificare la Costituzione per rimuovere possibili contrasti fondamentali che sarebbero potuti insorgere tra la disciplina interna e il diritto dell’Unione.
 
La cittadinanza europea: un nuovo tipo di cittadinanza.
 
Se dalla lettera del Trattato si alza lo sguardo ai principi del pensiero federalista, è legittimo pensare che la cittadinanza comune non potrà limitarsi ad offrire un «cappello europeo» ad istituti giuridici nazionali già esistenti, ma dovrà avere una natura innovativa. La cittadinanza dell’Unione è infatti il primo modello di una cittadinanza democratica e cosmopolitica.
Vi sono stati, nel passato, numerosi esempi di cittadinanza tendenzialmente cosmopolitica (si pensi alla cittadinanza dell’Impero romano dopo l’editto di Caracalla, a quella dei grandi imperi multinazionali ottocenteschi e a quella dell’Unione Sovietica nel nostro secolo), ma ad essi non era mai collegata l’attribuzione di diritti politici democratici in senso pieno e moderno. D’altra parte, i più importanti esempi di cittadinanza democratica nella storia sono contrassegnati dalla loro natura esclusivamente nazionale, che esclude lo straniero dai diritti politici e anche da parte di quelli civili (si pensi alla citoyenneté della rivoluzione francese e a quella degli Stati risorgimentali dell’Ottocento, fino alle moderne cittadinanze costituzionali del dopoguerra in Europa occidentale).
Rispetto alle consuete forme di cittadinanza, quella europea è capace di adeguarsi più pienamente ai principi universalistici del pensiero democratico moderno, all’idea cioè che l’attribuzione dei diritti non trovi mai limite nella lingua, nella religione, nella razza ed in altre caratteristiche distintive delle persone. La cittadinanza europea ha infatti la naturale, intrinseca vocazione a non dipendere da caratteri nazionali — esclusivi e pregressi — della persona, cioè a caratteri che si legano al passato di una singola comunità distintiva (la comune eredità spirituale, il patrimonio linguistico, la permanenza nel medesimo territorio della popolazione).
La cittadinanza europea non può che venire a coincidere con l’esercizio libero di un atto di volontà proiettato verso il futuro, con la ferma intenzione di aderire ad un modello aperto di società civile, caratterizzato da valori comuni consacrati nella Costituzione europea.
E’ proprio questa caratteristica a rendere la nuova cittadinanza dell’Unione così simile a quella americana, che presenta — per il gran numero di diverse etnie e religioni di quel paese e per la condizione originaria di «immigrato» degli avi di qualsiasi cittadino — il contenuto più cosmopolitico fra le moderne cittadinanze democratiche. La cittadinanza americana è più un’adesione a principi costituzionali che un atto definitorio di caratteristiche pregresse; è una dichiarazione di volontà per il futuro più che una certificazione di conformità con il passato. Anche la cittadinanza europea deve configurarsi come una cittadinanza non solamente aperta, ma tendenzialmente universale. Essa deve già anticipare in alcuni contenuti una cittadinanza cosmopolitica. Sul piano dei principi, essa dovrebbe addirittura poter essere acquisita da qualsiasi individuo che intenda proclamare la propria adesione al sistema di doveri e diritti — un progetto civile di società aperta — definito dalla Costituzione.
La grande disponibilità di risorse e di spazi — e l’enorme carica morale dei pionieri — hanno consentito agli Stati Uniti, fino a qualche tempo fa, di concepire la propria cittadinanza in termini aperti. La chiusura delle frontiere americane negli ultimi decenni ha coinciso con la crisi del ruolo egemonico degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Le ragioni opposte — la ristrettezza di spazi e risorse e la grande forza del nazionalismo —hanno impedito agli Europei, con l’eccezione di quegli Stati che avevano grandi imperi coloniali come Francia e Gran Bretagna, di mantenere aperti i confini, cioè di concedere la cittadinanza con altrettanta liberalità.
Certo è difficile pensare che, in una situazione di grande pressione demografica nel mondo e di nette disuguaglianze tra Nord e Sud nella distribuzione della ricchezza, l’Europa possa assumere un’attitudine così liberale come gli Stati Uniti fino alla prima metà del Novecento. I più recenti sviluppi del dibattito sulla cittadinanza (si pensi alla nuova legge appena approvata dall’Assemblea nazionale francese) ed anche solo sul diritto alla residenza (basta ricordare il lunghissimo processo di elaborazione di una nuova disciplina sull’asilo politico in Germania) vanno, forse anche necessariamente, nel senso dell’introduzione di forme di controllo e di razionalizzazione dell’accesso a diritti prima garantiti con maggiore generosità. Ma evitare che l’Europa sia sommersa da flussi demografici dalle regioni più povere del mondo non significa bloccare ogni accesso ai diritti di cittadinanza: bisogna infatti controllare i flussi migratori, non bloccare il processo di integrazione.
Almeno quattro caratteristiche dovrebbero perciò essere proprie della nuova cittadinanza europea: 1) nel quadro di una politica europea dell’immigrazione, la cittadinanza dovrà poter essere acquisita anche da coloro che non abbiano la nazionalità di uno degli Stati membri. Divenendo cittadini europei, costoro avranno poi il diritto di acquisire la cittadinanza nazionale dello Stato membro in cui decideranno di risiedere (capovolgimento dell’attuale schema); 2) l’acquisizione della cittadinanza dovrà basarsi sull’adesione alla Costituzione, cioè ad un sistema di valori e di organizzazione della vita civile; 3) dovrà essere ripudiata qualsiasi discriminazione basata sull’ereditarietà della cittadinanza (e dunque abbandonato lo ius sanguinis, che esclude dalla cittadinanza i figli degli immigrati, benché siano nati nello Stato di immigrazione, vi abbiano ricevuto un’educazione e siano stabilmente inseriti nella società); 4) la cittadinanza acquisita dovrà essere compatibile nei fatti (e non solo in via di principio) con la conservazione di altre cittadinanze extracomunitarie (doppia cittadinanza).
 
Diritti acquisiti e nuovi diritti nell’Unione.
 
La cittadinanza europea prevista dal Trattato di Maastricht raccoglie l’eredità del diritto comunitario, che non conosce una «cittadinanza della Comunità», ma attribuisce in modo autonomo ai cittadini degli Stati membri una serie di prerogative che allargano la loro sfera di libertà. Senza la Comunità europea non si giustificherebbero infatti la grande facilità di spostamento di cui gli Europei occidentali godono nel loro continente, le pari opportunità che si offrono loro in molti settori professionali e le garanzie di non discriminazione che essi ottengono grazie all’articolo 7 del Trattato di Roma. La nuova cittadinanza rafforza e completa questo quadro, offrendo definitivamente ai cittadini confini più ampi entro cui le loro pari opportunità sono giuridicamente riconosciute.
Già oggi, sulla base delle conquiste giuridiche del diritto comunitario, la società europea si potrebbe configurare come una società aperta, ispirata ai principi di pari opportunità e di grande libertà per i suoi cittadini. La natura multiforme della società europea, caratterizzata da lingue, tradizioni, forme giuridiche, principi organizzativi tra loro diversi, offre al cittadino dell’Unione una maggiore possibilità di scelta, ponendolo — almeno in teoria e a patto che egli abbia piena coscienza delle opportunità che sono offerte — nella condizione di poter scegliere, insieme alla residenza, l’ordinamento di qualsiasi Stato membro o regione. La mobilità delle risorse umane, che aveva assunto nel passato i connotati drammatici di un’emigrazione povera e sradicata, può oggi divenire una risorsa per i cittadini europei, cui è offerta la possibilità di organizzare il curriculum degli studi, disegnare la propria carriera professionale, scegliere i luoghi di cura o di riposo, investire i propri risparmi, concludere contratti di qualsiasi genere all’interno di confini più vasti di quelli del proprio Stato membro.
A difesa del cittadino dell’Unione (e non a detrimento delle istituzioni comunitarie) si deve inoltre correttamente interpretare il nuovo principio fondamentale di sussidiarietà del diritto comunitario, inserito nel Trattato di Maastricht: l’obbligo di non intrusione dell’Unione là dove le decisioni più efficaci ed egualmente rispettose del divieto di discriminazione possono essere assunte al livello più vicino al cittadino stesso, e dunque secondo criteri di trasparenza.
Se al cittadino europeo sono attribuiti diritti e doveri che discendono dall’ordinamento giuridico comunitario, il Trattato di Maastricht non parla invece di «nuovi diritti e doveri», ed anzi richiama espressamente — con una formula assai vaga — la tradizione costituzionale degli Stati membri. Anche documenti politicamente più avanzati come il rapporto Oreja sulla Costituzione europea, in corso di elaborazione al Parlamento europeo (consultato nella versione dell’aprile 1993), pur elencando in modo esteso e sistematico i diritti fondamentali dell’Unione, non apportano alcuna novità nel contenuto dei diritti rispetto a quelli garantiti dagli Stati membri.
Se però ancora una volta si trascende la lettera del Trattato, si può affermare che l’Unione non potrà limitarsi a riconoscere ad un livello territoriale più ampio diritti già acquisiti negli Stati membri, ma dovrà — anche con successivi emendamenti, secondo la formula costituzionale americana — sancire «nuovi diritti e doveri». L’Unione costituisce infatti di per sé un fatto nuovo, una situazione differente rispetto al passato; si colloca inoltre nel quadro di un livello di sviluppo della vita civile più complesso e ricco di quello nazionale. Proprio per questo motivo è inevitabile che l’Unione debba riconoscere ai cittadini nuovi diritti e sottoporli al tempo stesso a nuovi obblighi.
 
L’Unione, società multiculturale e multietnica. Il diritto all’integrazione e quello alla diversità.
 
Uno degli elementi di maggiore novità di questi anni è costituito dalla trasformazione delle singole società nazionali da comunità tendenzialmente omogenee a comunità multietniche, in seguito a fenomeni di immigrazione o di differente dinamica demografica dei gruppi.
Questa trasformazione avviene, a differenza di quanto accadde in passato negli Stati Uniti o di quanto si è verificato con le migrazioni intraeuropee del primo dopoguerra, del tutto indipendentemente dalla volontà delle società che accolgono gli immigrati e spesso anche al di là della volontà degli immigrati stessi (è il caso dei profughi, siano essi politici o economici, o di quegli immigrati stagionali che finiscono per stabilirsi in Europa per assenza di alternative in patria o per i nuovi legami che essi si creano in Europa).
L’innesto nelle comunità storiche europee di nuove popolazioni, caratterizzate da estrema povertà, oltre che da abitudini private, credenze religiose, comportamenti sociali molto diversi ed a volte incompatibili, crea numerose tensioni. Esse non si verificano solamente al momento dell’arrivo degli immigrati (basta ricordare le navi degli Albanesi sulle coste dell’Adriatico) — concretizzandosi in sentimenti di paura, anche legittimi, da ambe le parti — ma tendono a conservarsi anche dopo che la prima o la seconda generazione si siano stabilite sul territorio, rischiando purtroppo di diventare la base permanente per discriminazioni ereditarie. Si pensi ai quartieri di Parigi o Berlino dove gli immigrati della terza generazione (spesso a parità di istruzione con moltissimi coetanei) si sentono ancora rifiutati e da cui la popolazione francese o tedesca, d’altro canto, fugge perché ha la sensazione di essere ormai relegata ai margini della vita del quartiere e di non poter più offrire ai propri figli un futuro sereno.
La compresenza, nelle città e nelle regioni dell’Unione, di gruppi eterogenei sarà accentuata dallo stesso obbligo di apertura «intra-comunitaria» della società, determinata dall’integrazione europea. Le medesime comunità storiche saranno sottoposte agli stimoli e alle tensioni derivanti dall’equiparazione dei cittadini europei a quelli nazionali e dalla presenza stabile di nuovi gruppi, esterni all’Unione, che pur debbono essere integrati. Di fronte alle tensioni che già emergono nella società sarebbe errato chiudere gli occhi o scegliere vie semplicistiche. Occorre respingere con grande forza ogni atteggiamento razzista. D’altra parte, un atteggiamento di generale accondiscendenza giuridica, cioè un’apertura indiscriminata a tutte le abitudini, tradizioni e comportamenti sociali che vengono a convivere nelle città, creerebbe nei cittadini una viva inquietudine. Sarebbe ingenuo, e per molti versi pericoloso, adottare l’atteggiamento «panteista» degli antichi Romani, che accettavano nel loro universo religioso tutte le divinità dei popoli conquistati (a patto che non fossero religioni monoteiste) per conservare la pace sociale. D’altra parte, occorre che una società aperta sia pronta ad accogliere tutti gli stimoli che derivano dal legittimo esercizio delle manifestazioni dello spirito o dall’originalità nella risoluzione dei problemi della vita quotidiana, quando in tali fenomeni vi sia un contenuto universale, cioè destinato all’intera umanità.
La soluzione proposta dal Trattato di Maastricht alle diverse esigenze dell’integrazione e della diversità è chiaramente insufficiente: il Trattato differenzia infatti nettamente lo status dei cittadini di altri Stati membri (che vengono equiparati ai soggetti nazionali) da quello delle persone fisiche di nazionalità non europea (non equiparati); ignora il problema dell’integrazione dei cittadini extraeuropei, nei cui confronti applica automaticamente il principio di sussidiarietà, lasciando intatte le disposizioni costituzionali e di legge degli Stati membri, che sono molto differenti da Stato a Stato e solamente in un numero limitato di paesi prevedono misure atte ad agevolare l’inserimento politico e l’integrazione civile effettiva degli immigrati. Al contrario il Trattato statuisce che l’Unione debba coordinare l’azione degli Stati per quel che riguarda l’erezione di barriere esterne all’ingresso nell’Unione (politica dei visti, regolazione del diritto di asilo politico), con il chiaro obiettivo di chiudere i confini e ridurre dunque l’afflusso esterno. La soluzione proposta dal Trattato fa trasparire l’imbarazzo dei governi, che temono di perdere consenso se il medesimo grado di integrazione è offerto agli Europei considerati più simili e dunque meglio assimilabili — ed agli extraeuropei.
Se dal punto di vista dell’azione politica nell’immediato queste riserve sono comprensibili, perché riflettono purtroppo l’atteggiamento di una parte importante della popolazione, nel medio termine rivelano la debolezza del disegno politico che le ispira. Se vorrà conservare la natura di società aperta, l’Unione dovrà infatti prevedere alcune norme europee che esprimano indirizzi e direttive comuni, la cui esecuzione potrà essere lasciata agli Stati. Dovrà codificare sia una disciplina giuridica dell’integrazione sia una serie di norme che tutelino la diversità e la molteplicità della società. Al diritto all’integrazione dovranno corrispondere dei doveri dei singoli immigrati, anche nella forma di divieti di determinati comportamenti. Al diritto alla diversità culturale dovrà corrispondere il dovere dell’Unione e degli Stati, ma anche di tutti i cittadini, a non intromettersi in determinate espressioni dell’individualità di ogni persona.
L’equilibrio tra integrazione e diversità segnerà il grado di apertura (omogeneità o natura multiforme) della società multiculturale e multietnica europea. L’alternanza delle maggioranze parlamentari europee e nazionali, così come la variazione di atteggiamento dell’opinione pubblica, determinerà le caratteristiche di questo equilibrio.
 
La democrazia economica e il grande mercato.
 
Con l’Atto Unico del 1985 il diritto comunitario ha recepito una serie di norme fondamentali volte ad allargare la sfera delle opportunità che si offrono al singolo cittadino. Come si è già detto, tale ampliamento delle aree di libertà è stato confermato dalla legislazione comunitaria di applicazione (si pensi, ad esempio, alla libertà valutaria) e dal Trattato di Maastricht (con la piena libertà di movimento e il diritto alla residenza).
Un ulteriore passo nella direzione della garanzia delle libertà di ogni cittadino europeo sarà acquisito con l’entrata in vigore, sia pure progressiva e sottoposta a condizioni di convergenza delle economie, della terza fase dell’Unione monetaria. In quel momento il potere d’acquisto dei cittadini sarà garantito in tutto il territorio dell’Unione stessa, senza pericolo che esso sia eroso dal tarlo dell’instabilità interna (inflazione) o esterna (svalutazione) della moneta. I cittadini avranno allora acquisito il diritto alla stabilità monetaria.
Dalla liberalizzazione non derivano però solamente maggiori libertà per gli individui ed occasioni per l’esercizio di diritti. La realtà della sempre maggiore integrazione internazionale delle economie — in cui il destino di aree produttive e di intere città e regioni viene a dipendere dalle strategie di élites industriali spesso molto lontane dai problemi delle zone di produzione — deve essere controbilanciata da forme nuove e più ricche di democrazia economica.
Molti problemi non sono nuovi per il diritto comunitario, che anzi spesso ha svolto un ruolo di avanguardia rispetto ad ordinamenti nazionali più tradizionalisti e meno innovativi. Si pensi, ad esempio, alla protezione del consumatore, alle politiche di salvaguardia del mercato, volte ad assicurare il suo corretto funzionamento (controllo di fusioni, concorrenza e aiuti pubblici) e a difenderlo da speculatori e raiders (sorveglianza consolidata dei gruppi finanziari, armonizzazione dei criteri di contabilità); alle politiche di redistribuzione regionale delle risorse, al diritto di codecisione sul posto di lavoro, introdotto nello Statuto della Società per azioni europea; ed infine alla Carta sociale europea che, pur non avendo pieno valore cogente, inizia a disegnare gli standards sociali minimi per evitare il cosiddetto dumping sociale.
Per l’opposizione ormai decennale di un singolo Stato membro, ovvero la Gran Bretagna, i progressi che sono stati compiuti in questo settore sono però ancora molto insoddisfacenti rispetto alla grande rivoluzione del quadro in cui si colloca l’economia europea. Il diritto di veto, più volte difeso dalla Gran Bretagna in nome di un malinteso concetto di democrazia, si rivela così in totale contraddizione con il consolidamento di nuovi diritti da parte dei cittadini.
L’impressione, da parte di molti operai, impiegati e dirigenti, che il proprio destino professionale, la sorte stessa del posto di lavoro e la possibilità di ottenere impieghi alternativi nella propria regione stiano ormai per sfuggire ad ogni possibilità di influenza da parte delle istituzioni democratiche è spesso una percezione esatta. Se tale percezione fosse definitiva, sarebbe quanto mai vano parlare di una piena cittadinanza europea. Viviamo d’altra parte in una fase dello sviluppo economico che è sempre più caratterizzata dalla necessità — e dall’urgenza — di continui aggiustamenti alle strategie della concorrenza mondiale e da sempre più sofisticate riconversioni della tecnologia. Basta pensare a quanto importanti siano state le conseguenze, sul mercato del lavoro europeo, del progresso industriale del Giappone e delle cosiddette tigri dell’Estremo Oriente per immaginare quali spettacolari effetti avrebbe il definitivo decollo industriale della Cina e dell’India, con un potenziale di miliardi di persone che lavorano a costi molto inferiori ai nostri. Fino ad oggi la risposta del sistema produttivo europeo si è basata più su necessità ineludibili che su un disegno complessivo della società europea: le industrie hanno licenziato parte del personale, hanno bloccato le assunzioni ed agevolato i prepensionamenti, hanno trasferito determinate attività verso aree esterne alla Comunità. Gli Stati e gli enti locali hanno assicurato il funzionamento di determinati ammortizzatori sociali. I lavoratori espulsi dall’industria si sono diretti verso il settore dei servizi, la cui capacità di assorbimento è direttamente proporzionale all’andamento della congiuntura economica.
In una situazione demografica che ancora non ha consentito di ridurre la pressione della domanda sul mercato del lavoro, gli effetti dell’espulsione del personale dall’industria si sono tradotti in uno stabile aumento della disoccupazione a livelli ormai molto lontani da quelli ottimali degli anni Cinquanta e Sessanta, fino a coinvolgere stabilmente settori molto ampi della popolazione, che non sono certamente posti nella condizione della piena cittadinanza.
Per questo motivo è compito primario della democrazia economica assicurare ai singoli cittadini il diritto di esercitare in modo democratico tutte le azioni necessarie per sottrarsi allo stato di «minorità» derivante dalla disoccupazione o dal solo pericolo che essa diventi una realtà. Non si intende qui solamente il diritto di sciopero e di azione sindacale a livello europeo, che sono già oggi garantiti e non hanno ancora assunto un significato importante nella vita europea a causa della debolezza delle centrali sindacali europee. E’ proprio della democrazia economica anche attuare, sia a livello di impresa, sia a quello di area economica regionale, fino al livello dell’Unione, politiche innovative che, basandosi sul libero concerto degli interessi delle parti sociali, conducano a ridurre l’area di disoccupazione. Si pensi ad una politica dell’istruzione permanente che, utilizzando tutte le risorse sul territorio e sottraendole al monopolio statale, stimoli il massimo di energie disponibili per far compiere un salto di qualità professionale alla forza lavoro, consentendo all’Europa di specializzarsi in aree tecnologiche di grande potenzialità per il futuro. Si ipotizzino inoltre accordi europei fra le parti sociali per la riduzione dell’orario di lavoro, abbinati a politiche dell’Unione, degli Stati e delle regioni per la qualità della vita, il recupero delle aree urbane, l’aumento dell’offerta di servizi culturali. Si immagini che per tali politiche si faccia ricorso a forme nuove di servizio civile, destinate ad utilizzare non solamente i giovani, ma anche le grandi energie degli impiegati e degli operai part-time, nonché quelle dei pensionati. Occorrerà trovare inoltre il modo per assicurare che forme di economia consociativa, basate sul consenso delle parti sociali, non escludano i settori meno rappresentati (i disoccupati, i giovani in cerca di prima occupazione).
In breve, l’esercizio della democrazia economica si dovrà esprimere in una diversa e più matura concezione del lavoro, non più visto come semplice obbligo o come fatica cui l’uomo è condannato, né come un diritto che cade dal cielo, ma come esercizio di un dovere pubblico nei confronti della collettività.
 
La questione ecologica e il diritto alla conservazione dell’ambiente.
 
E’ un assunto ormai sempre più condiviso dall’opinione pubblica che compito delle autorità pubbliche democratiche, siano esse locali, nazionali o europee, non sia solamente quello di tutelare i diritti civili tradizionali dei cittadini, ma anche di assicurare loro ed alle generazioni future il diritto ad un ambiente che consenta di vivere in modo sano, di procreare e di provvedere alla continuità del genere umano. La questione ecologica ha ormai abbandonato i limiti di un tema affidato alla contestazione giovanile per divenire una delle questioni globali della grande politica.
L’Unione dovrà garantire ai propri cittadini l’esercizio del diritto alla conservazione dell’ambiente, che permetta ai singoli, ma anche ai gruppi, a comunità locali, agli Stati membri ed all’Unione stessa di intervenire con tutti gli strumenti imperativi di cui dovranno disporre l’ordinamento giuridico comunitario e quelli degli Stati membri. Bisognerà d’altra parte riconoscere una nuova preminenza nel sistema giuridico al diritto alla conservazione dell’ambiente, che è ancora oggi considerato (anche quando è contemplato in una forma o nell’altra dagli ordinamenti nazionali) un diritto «accessorio», la cui tutela è cioè spesso subordinata alla soddisfazione di altri diritti.
La conservazione dell’ambiente dovrà dunque divenire uno degli obiettivi dell’Unione, un dovere istituzionale di tutti i suoi organi. E’ evidente che sarà compito della Costituzione europea e della legislazione applicativa, nonché di quella degli Stati membri — secondo il principio di sussidiarietà — coordinare la tutela di questo diritto (e l’esercizio del dovere) con altri interessi e diritti/doveri potenzialmente confliggenti: in primo luogo i diritti di libera iniziativa economica e di proprietà.
 
Gli interessi delle regioni esterne all’Unione e i doveri e diritti cosmopolitici dei cittadini europei.
 
In un mondo sempre più interdipendente, è impossibile parlare dell’Unione come di una società aperta a vocazione cosmopolitica se essa non si fa istituzionalmente carico anche dei problemi delle regioni extraeuropee. E’ evidente come, in questo caso, si ponga l’esigenza di soluzioni innovative.
Da un lato, infatti, una concezione tradizionale dei sistemi democratici vorrebbe che le istituzioni pubbliche rispondano esclusivamente alle maggioranze che si formano nell’opinione pubblica interna di uno Stato, sia esso nazionale o plurinazionale, piccolo o di dimensioni continentali. Se dunque vi fosse una vasta porzione dell’elettorato europeo che premiasse o richiedesse politiche protezionistiche, rivendicasse una chiusura nei confronti del mondo esterno o addirittura reclamasse un atteggiamento contestativo del governo europeo contro aspirazioni ed interessi di altri popoli, a queste richieste si dovrebbero piegare il governo dell’Unione e la politica europea.
Dall’altro lato, se la maggioranza potesse costringere l’Europa a svolgere una politica di «fortezza chiusa» contro il mondo intero o addirittura a perseguire mire egemoniche, le istituzioni europee non offrirebbero alcuna garanzia che la politica dell’Unione persegua i veri interessi di medio periodo degli Europei, che devono essere stabilmente collocati all’interno di un quadro di interdipendenze globali. Qualsiasi politica l’Europa conducesse a danno degli equilibri internazionali, essa si tradurrebbe molto presto in una sciagura per gli Europei stessi, che non sarebbero certo in grado di difendere né il loro livello di benessere né la loro libertà contro la volontà del resto del mondo o anche solo di vaste parti di esso.
Occorrerà dunque inserire nella Costituzione dell’Unione elementi costituzionali innovativi che garantiscano che gli interessi di medio periodo (l’integrazione nel mondo dell’Europa) vengano protetti e non soccombano di fronte ad interessi di più corto periodo, che la logica elettorale normalmente esalta.
Due vie parallele — e tra loro compatibili — possono essere percorse per garantire questo risultato.
La prima soluzione consiste nell’introduzione nella Costituzione europea di un articolo che consenta — a parità di condizioni — il trasferimento di sovranità dall’Unione alle Nazioni Unite (o eventualmente ad enti democratici internazionali intermedi). La Costituzione dovrebbe inoltre statuire l’impegno unilaterale dell’Unione a promuovere il rafforzamento democratico delle Nazioni Unite ed inoltre riconoscere, in via permanente, la giurisdizione dell’Alta Corte di Giustizia dell’Aja (sottoponendo in tal modo l’Unione al giudizio di un tribunale internazionale su tutti i suoi atti di politica estera). Tale impegno costituirebbe l’esplicazione più chiara del diritto del cittadino europeo a far valere le proprie ragioni senza dover uccidere (diritto a vivere in pace e a non dover far guerra a nessuno per far valere le proprie legittime ragioni), anche se, fino alla realizzazione della Federazione mondiale, non è possibile l’abolizione degli eserciti.
La seconda soluzione, più innovativa rispetto alla precedente, si concretizza nella nuova formulazione di diritti e doveri dei cittadini europei come diritti e doveri nei confronti dell’intera umanità: ad esempio la difesa dei diritti fondamentali di ogni membro del genere umano e il diritto di intervento — anche armato — qualora essi siano calpestati. Alle proclamazioni di principio possono accompagnarsi anche strumenti giuridici innovativi, destinati a consentire ai cittadini di compiere a favore delle istituzioni cosmopolitiche una prestazione altrimenti dovuta all’Unione: il diritto di prestare il servizio militare in corpi di pronto intervento delle Nazioni Unite, invece che nell’esercito europeo; il diritto di prestare servizio civile «cosmopolitico» (non solo quello giovanile, ma anche nelle altre forme di cui si parla sopra) in luogo di quello europeo o nazionale; il diritto di destinare una parte delle proprie imposte direttamente alle Nazioni Unite, invece che alle istituzioni europee.
In conclusione, l’Unione dovrà attribuire al «diritto cosmopolitico» non più il significato settecentesco di diritto dello straniero, ma considerarlo piuttosto come il sistema di diritti e doveri del cittadino europeo nei confronti delle Nazioni Unite. Sarà compito della Costituzione dell’Unione — il primo esempio di grande federazione continentale multinazionale e a vocazione cosmopolitica — coordinare ed equilibrare l’esercizio dei diritti che, a livelli diversi, sono attribuiti ai propri cittadini: quelli loro attribuiti dalle Costituzioni nazionali nei confronti delle comunità locali e degli Stati nazionali; i diritti federali, che disegnano i contorni della cittadinanza europea; quelli cosmopolitici, che fanno del cittadino europeo un cittadino della comunità di destino dell’intero pianeta.
 
Splendori e miserie del vincolo di cittadinanza nell’Europa in crisi di identità politica.
 
Dopo aver tracciato, sia pur con un semplice abbozzo, alcune tesi sulla forma e i contenuti della nuova cittadinanza europea, è bene porsi la domanda se i cittadini dell’Unione che sta nascendo siano pronti a reclamare i nuovi diritti e a vincolarsi al rispetto dei nuovi obblighi cui si è fatto riferimento: in altre parole se essi vogliano sottoporre ad una trasformazione di natura rivoluzionaria i propri rapporti con la comunità politica di appartenenza.
Normalmente questi interrogativi vengono posti dai nemici dell’Europa, per giustificare risposte scettiche o brillanti, mai invece tentativi di analisi. E tuttavia la domanda non è retorica neppure dal punto di vista di chi crede alla possibilità di fondare la Federazione europea. La risposta positiva non può essere data per scontata. Il tema della cittadinanza deve essere trattato con molta attenzione e senza suscitare reazioni emotive. Attorno alla cittadinanza si raccolgono valori come l’identità collettiva o il sentimento di lealtà nei confronti della comunità politica, la cui trasformazione in senso europeo deve essere discussa a fondo con la gente. Sono necessari un linguaggio semplice ed un atteggiamento di grande disponibilità al dialogo.
Ma parlare di cittadinanza non è difficile solamente perché essa racchiude simbolicamente i tanti significati positivi del rapporto tra il singolo e lo Stato. Trattare il tema della cittadinanza è difficile anche perché gli stessi cittadini si sentono sempre più traditi: la cittadinanza — istituzione democratica — è svuotata di significato dal malcostume politico e dalla crisi degli Stati nazionali. Non vi sono solo gli splendori, ma anche le miserie della cittadinanza nazionale a rendere difficile proporre una nuova cittadinanza. Parlare infatti di «cittadinanza europea» significa cercare di recuperare la gente alla grande politica, in un momento storico in cui sembra prevalere il fastidio per le aggettivazioni forti o i sostantivi marcati.
Nelle pur relativamente ricche e progredite società dell’Europa occidentale assistiamo ad un numero crescente di episodi che denotano la grande distanza tra lo Stato ed i suoi cittadini. Aumenta ad esempio il numero di chi non partecipa alle elezioni o vota a favore di gruppi politici di protesta o chiaramente incompatibili con la democrazia. In quasi tutti gli Stati gli Europei tendono ad esprimere sentimenti di disprezzo nei confronti degli uomini politici e delle attività pubbliche ed esternano addirittura sentimenti di indifferenza nei confronti del destino del proprio paese.
La «contestazione» del vincolo di cittadinanza nell’Europa occidentale ha senz’altro varie ragioni: il rallentamento dell’economia, il disagio sociale che ne consegue, l’estendersi di fenomeni di micro-delinquenza nelle città, l’incertezza che deriva dalla presenza di fenomeni inquietanti, come l’aumento dell’uso di droghe da parte di tanti giovani o il rischio, che fa riapparire il fantasma delle grandi pestilenze, in cui essi incorrono di essere contagiati da malattie mortali.
Un dato di fatto politico sembra comunque essere comune alla situazione di profonda insoddisfazione delle opinioni pubbliche in Francia o in Germania, in Spagna o in Italia: il degenerare della democrazia parlamentare in un «regime democratico» (ove alla parola regime si attribuisce un significato negativo, indicando in tal modo quella che in Germania è detta «Demokratur» e in Italia «partitocrazia»). Il «regime democratico» è un sistema politico sostanzialmente chiuso ai non addetti ai lavori, lontano dalle preoccupazioni della «gente» (ovvero di coloro che non svolgono l’attività politica in termini professionali) e prigioniero di un linguaggio ipocrita, astratto e forse vuoto di significato.
Il diffondersi ovunque di fenomeni di corruzione ha inoltre convinto gran parte dell’opinione pubblica dei nostri paesi che i politici non solamente non meritino né rispetto né simpatia, ma siano quanto meno arroganti professionisti della gestione del potere, se non addirittura molto spesso veri e propri furfanti. La frase «sono tutti ladri» riecheggia in ogni angolo d’Europa: e non vi è davvero alcun motivo per rallegrarsene, dato che la democrazia dovrebbe portare al potere chi è sostenuto dal consenso almeno della maggioranza della popolazione.
Per ragioni diverse, nell’altra metà d’Europa — recuperata alla democrazia dopo l’esperienza totalitaria del comunismo di Stato — il vincolo di cittadinanza è entrato in una situazione di crisi non dissimile da quella occidentale. Dappertutto all’entusiasmo civico del 1989 si è sostituito un tono mesto, se non addirittura disperato, che rivela l’insoddisfazione della gente per il nuovo stato di cose. E anche nello Stato che dispone dei maggiori aiuti economici e delle più grandi risorse potenziali, nella Germania che ha abbattuto il Muro, la gente non ripete con orgoglio «Wir sind das Volk» , ma si divide tra Wessis ed Ossis. Negli Stati multinazionali dell’Europa centro-orientale il rigurgito di nazionalismo si è addirittura tramutato in una «denuncia» di massa — attraverso referendum ed elezioni — del vincolo di cittadinanza comune. Milioni di persone hanno ripudiato la cittadinanza sovietica, quella cecoslovacca e quella jugoslava. I diritti comuni dei cittadini di quegli Stati (anche se erano spesso diritti nominali) sono stati cancellati, e così in tante situazioni che pur non si sono tramutate in vicende così feroci come quella jugoslava, i concittadini di ieri sono divenuti gli stranieri di oggi, privi di diritti politici e trattati come Gastarbeiter, lavoratori ospiti esposti alle incertezze della politica e dell’economia.
Ma anche la cittadinanza dell’Unione, la cittadinanza europea cui sono dedicate queste riflessioni, ha incontrato una fiera opposizione da parte di settori dell’opinione pubblica. Occorre che i federalisti registrino con attenzione queste reazioni, non per trame argomenti di scoraggiamento, ma per identificare con maggior esattezza i termini della realtà. Quando, nell’estate scorsa, si è votato in Danimarca, la gente si è espressa anche — e forse soprattutto — sulla scelta tra l’appartenenza ad un piccolo e ricco Stato indipendente e quella ad una comunità di destino più grande e complessa, carica di maggiori responsabilità, oltre che di più grandi potenzialità. Con quel voto i Danesi hanno rigettato i vantaggi e gli oneri della nuova cittadinanza.
Anche negli altri Stati le difficoltà della ratifica rivelano come il problema della scelta tra una cittadinanza esclusivamente nazionale — emblema di una società chiusa — ed una cittadinanza europea — simbolo della società aperta — sia ancora materia che divide l’opinione pubblica. In Francia, ad esempio, il risultato positivo del referendum su Maastricht è stato di stretta misura ed ha rischiato di interrompere l’intero processo di integrazione europea. Ma anche in Germania e Gran Bretagna una consultazione popolare in questi mesi avrebbe presentato margini di incertezza.
E’ evidente che anche un nuovo Trattato di Unione (già previsto per il 1996), che trasformasse nelle migliori formulazioni giuridiche le idee più innovative sulla cittadinanza europea, non basterebbe ad evitare che quello stesso vincolo della cittadinanza europea possa essere ignorato o addirittura ripudiato dai titolari dei diritti e doveri che da esso discendono. La cittadinanza europea può essere lo strumento per consolidare l’Unione nel cuore degli Europei, come può invece rimanere il ramo secco di una costruzione mai terminata. Perché un nuovo vincolo di cittadinanza europea si stabilisca effettivamente tra la gente e l’Unione è necessario che una larghissima parte della popolazione aderisca ad esso con convinzione, lo confermi con il proprio comportamento quotidiano, riscontri in esso la radice di una vita democratica più ricca, di un insieme più completo di diritti e doveri. L’acquisizione della cittadinanza europea deve significare per la gran parte della popolazione il momento di conquista di maggiori diritti, un salto di qualità nei rapporti con i pubblici poteri, il raggiungimento della maggiore età nella partecipazione alla vita politica e civile della propria comunità. Contemporaneamente, la nuova cittadinanza deve avere riflessi cosmopolitici, deve cioè fornire agli Europei una consapevolezza più chiara del legame che accomuna il loro destino a quello degli altri popoli della Terra.
Un obiettivo così ambizioso non può essere sottinteso: deve essere correttamente spiegato alla gente. Non può essere il frutto dell’interpretazione estensiva di un Trattato, né il risultato di una fortunata combinazione di avvenimenti, né infine il prodotto dell’azione illuminata di un singolo. Bisogna che la società civile appoggi il passaggio dalla vecchia alla nuova cittadinanza. Un risultato così difficile non può d’altra parte essere conservato nel tempo se non vi è un meccanismo politico chiaro che consenta ai cittadini europei di dialogare con le nuove istituzioni, senza per questo perdere la propria identità. Bisogna insomma che l’Unione sia costituita su un nucleo federale e democratico sostenibile, che consenta l’elaborazione comune di politiche innovative.
La nuova cittadinanza ed i nuovi diritti devono essere il terreno in cui si formano o si riformano i nuovi e vecchi partiti e movimenti europei. Sul problema dei nuovi diritti, del loro contenuto e della loro ampiezza si misura la differenza tra chi vuole una società aperta e solidale e chi invece preferisce una società protetta, chiusa e rivolta al passato. Cittadinanza e nuovi diritti dell’Unione sono due concetti cardine che le nuove e le vecchie forze politiche, costituendosi o coagulandosi a livello europeo, potranno utilizzare per aumentare la dimensione politica dell’Europa, trasformando la Comunità, ovvero il suo nucleo federale, in una grande democrazia costituzionale, aperta ai popoli che la circondano.
La storia di questi ultimi due anni ha insegnato che le Unioni, anche quelle che hanno alle spalle grandi tradizioni comuni, possono dissolversi se non sono al passo con la storia e non sanno interpretare i sogni degli uomini. L’Unione europea saprà rafforzarsi se saprà fornire soluzioni innovative all’ansia di democrazia che pervade la gente, in Europa come in tutto il mondo. In tal modo fornirà a tutti i popoli un esempio di come la difesa dei diritti dei singoli affondi le proprie radici nella capacità di costruire un mondo civilizzato, basato su regole di convivenza e non di divisione. Dimostrerà che la conquista di nuovi e più moderni diritti è strettamente legata alle condizioni di stabile ed istituzionale pacificazione della società, che l’Europa avrà saputo raggiungere rinunciando alla sovranità dei propri Stati nazionali.
Se invece non saprà diventare una grande democrazia, l’Unione europea non potrà mai essere considerata un fatto irreversibile e la sua coesione sarà sempre minata dalla sua incapacità di interpretare le ansie del nostro tempo.

 

 

 

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