IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 2-3, Pagina 68

 

 

Vi sono pregiudizi all’allargamento?
 
EMANUELE GAZZO

  
Una decisione «storica» e una «globalizzazione» inevitabile.
La sera stessa del 9 febbraio 1976, apprendendo ad Atene la decisione del Consiglio dei ministri della Comunità europea di preparare «il più rapidamente possibile» e in «uno spirito positivo» l’apertura dei negoziati per l’adesione della Grecia, il primo ministro greco Costantino Caramanlis dichiarava che si trattava di una «decisione storica», che confermava «la fiducia che la Grecia ispira oggi al mondo intero».
Caramanlis aveva perfettamente ragione, soprattutto perché esprimeva il punto di vista del proprio paese. La sua soddisfazione era legittima, dato che la decisione del Consiglio interveniva due settimane dopo la pubblicazione del parere della Commissione europea, parere che, pur essendo molto positivo, «consigliava» un periodo di pre-adesione di una durata indeterminata. La decisione del Consiglio ignorava il suggerimento della Commissione, e gli ambienti greci sottolineavano, rallegrandosene, che l’organo decisionale era il Consiglio, e che il suggerimento della Commissione non era stato accolto grazie ad un’azione diretta nelle capitali dei paesi membri. Ricordiamo che le cose non sono andate molto diversamente nel quadro di altri negoziati del genere: ogni Stato è cosciente del fatto che la chiave del successo o del fallimento si trova in certe capitali piuttosto che nelle condizioni obiettive e nelle soluzioni tecniche. Ammettiamo che, trattandosi di decisioni che possono comportare cambiamenti fondamentali nella natura e nella struttura della Comunità, è inevitabile che le cose vadano così.
Decisione storica quindi per la Grecia, la cui appartenenza «di civiltà» all’Europa è ovvia, ma per la quale l’adesione segna il passaggio da una fase molto lunga di appartenenza «passiva» ad una fase nuova di partecipazione «attiva», su un piano di eguaglianza quale essa è garantita, entro certe proporzioni, nel quadro di questa Comunità.
Se la portata storica di questo avvenimento per la Grecia è indubbia, la cosa era meno evidente per quel che riguarda l’Europa. Infatti, l’adesione della Grecia, a termine, era prevista fin dai tempi dell’Accordo d’associazione del 1961 e non poneva di per sé problemi politici gravi. Il ravvicinamento «politico-sentimentale» dell’Europa democratica alla Grecia oppressa da una dittatura aveva «attualizzato» il problema. L’adesione era quindi nell’ordine naturale delle cose. Eppure, ciascuno in Europa, dopo le prime reazioni entusiastiche del 1974, ha provato una specie di inquietudine ed il sentimento che si stesse entrando in una fase politica nuova, e probabilmente verso la creazione di un’Europa «diversa». Perché diversa? Perché non si trattava dell’adesione della Grecia che da sola non avrebbe sconvolto la Comunità, ma di un vasto movimento verso una nuova dimensione e verso una mutazione quantitativa tanto importante da diventare anche qualitativa. Questo vasto movimento era stato semplicemente suscitato dalla richiesta della Grecia. Diventava ancor più drammatico dato che gli europei si rendevano rapidamente conto della sua ineluttabilità e non riuscivano ad immaginarne i limiti. La Grecia, sì. Ma domani il Portogallo e certo la Spagna. E un giorno la Turchia e, perché no, la Jugoslavia… «È difficile, se non impossibile, ha detto Gaston Thorn[1] in uno dei discorsi più lucidi pronunciati su questo tema, rispondere negativamente a queste richieste ed alle aspirazioni che esse rappresentano». Appunto questo sentimento di non avere la scelta è una incitazione a riflettere sull’avvenire dell’Europa così allargata. «L’Europa geografica guadagnerà certamente da queste nuove adesioni», diceva Thorn, non senza ironia. Ma ecco che sorge l’eterna controversia sulla natura di quest’Europa. L’estensione prevarrà forse sulla coesione? L’omogeneità è un criterio definibile? Il problema non è nuovo per l’Europa, che lo ha tanto a lungo discusso al momento dell’adesione britannica, benché questa fosse iscritta in filigrana già nei testi fondamentali. La controversia era durata dieci anni, durante i quali l’Europa aveva perso diverse occasioni di consolidarsi.
Il primo ministro lussemburghese aveva quindi ragione di mettere in guardia: «In realtà, se l’allargamento non creerà di per sé problemi nuovi, esso avrà soprattutto l’effetto di accentuare le difficoltà e le insufficienze della Comunità quale essa esiste attualmente. L’allargamento fornirà un’occasione ideale per una revisione radicale delle politiche e degli obiettivi comunitari, revisione in favore della quale vi sono stati numerosi appelli negli ultimi anni che sono stati però soffocati dalla volontaria inerzia dei paesi membri. D’altra parte, corriamo il pericolo che un allargamento renda ancora più difficile l’azione comune e obblighi la Comunità a limitare i campi nei quali si applicherebbe una politica comunitaria». Ne risulta che l’allargamento costituisce al tempo stesso un rischio e un’occasione. Ma un’analisi obiettiva della situazione attuale obbliga ad essere scettici: non si vede chi sia disposto a fare sforzi reali per cogliere questa occasione, mentre numerosi sono coloro pronti a chiudere gli occhi davanti ai rischi. Durante il dibattito al Parlamento europeo che ha seguito, il 10 marzo 1976, la decisione del Consiglio, molti parlamentari hanno consigliato la prudenza, ma solo uno o due hanno avuto il coraggio di designare apertamente la natura dei pericoli. «Parliamo francamente — diceva il laburista britannico Dalyell alludendo ad una possibile trasformazione in senso ‘minimalista’ della Comunità — non c’è dubbio che sia proprio questo che tramano alcuni uomini di potere in Francia. Dato che non voglio mostrarmi antifrancese, mi affretterò a dire lo stesso dello stato maggiore del mio proprio partito. Sarebbe meglio che qualcuno lo dicesse chiaramente a Transport House. Certi membri del Partito laburista britannico non esitano infatti a dire: siamo favorevoli all’adesione della Grecia. Perché? A causa delle sue conseguenze per Tindemans e compagnia».
Come si vede, la Grecia è citata solo come pretesto: non è la sua adesione a costituire un problema, bensì il processo di allargamento che essa prepara. «Una Comunità allargata sarebbe una Comunità diversa, ed il problema principale è appunto la questione della natura della Comunità allargata», ha scritto un membro della Fabian Society.[2] E Geoffrey Edwards: «Una Comunità allargata potrebbe somigliare di più alla zona di libero scambio proposta da Maudling nel 1957 che all’Unione europea prevista dai fondatori dell’Europa».[3] Questo cambiamento di natura è quindi acquisito: si tratta di sapere in che senso avverrà e come farvi fronte. A partire da questo momento la globalizzazione è inevitabile: è una necessità obiettiva sia dal punto di vista dei problemi specifici che hanno un carattere proprio ma la cui soluzione dipende dal contesto in cui essa deve essere trovata, sia da quello del processo generale d’integrazione dell’Europa. Per quel che riguarda i problemi specifici, ci sono soprattutto interessi talvolta paralleli e talvolta divergenti da conciliare. Quanto al processo generale, si trovano a confronto le concezioni stesse dell’Europa.
Per certuni questa globalizzazione era solo un pretesto per rallentare il processo, e c’è chi afferma che la presentazione formale, anticipata rispetto alle previsioni, della richiesta d’adesione della Spagna è stata discretamente sollecitata da ambienti interessati che hanno puntato sull’effetto psicologico. Come si poteva infatti contestare la globalità del processo, dopo questa richiesta, soprattutto per quel che riguarda l’avvenire della Comunità e il suo funzionamento? «Non sappiamo dove ci troviamo oggi e non possiamo, per esempio, chiedere al nostro partner greco di entrare in una Comunità di cui non sa nemmeno a cosa assomiglierà quando i negoziati saranno conclusi», ha detto il parlamentare tedesco Blumenfeld durante il dibattito del 10 marzo 1976.
Su un punto i greci — che si ritengono prioritari per varie ragioni tutte valide — ma anche gli altri candidati potrebbero esprimere obiezioni a questa tesi. E cioè sul fatto che spetta alla Comunità, e non ai candidati, definirsi e precisare la propria identità. I candidati conoscono i Trattati e il diritto derivato. Li accettano. Hanno chiesto di entrare nella Comunità dei Nove, e altre candidature non li riguardano. Ma ciò è artificiale e formale. La realtà è che la Comunità si trova dinanzi ad un avvenimento che poteva prevedere ma le cui dimensioni e ripercussioni esigono una riflessione, un reappraisal di ordine generale. Si tratta forse di una «pregiudiziale», e chi deve soddisfarla? Cercheremo di rispondere a queste domande. Ma per capire meglio gli avvenimenti che si iscrivono nell’imminente avvenire, evochiamo brevemente l’evoluzione dei rapporti fra la Comunità e la Grecia, dal 1958 in poi.
 
Genesi di un’associazione
La Comunità economica europea da una parte (e non la C.E.C.A. e l’Euratom) e la Grecia dall’altra hanno firmato il 9 luglio 1961 un Accordo tramite il quale la Grecia si associava alla C.E.E. sulla base dell’articolo 238 del Trattato di Roma. L’accordo entrò in vigore, dopo ratifica delle capitali, il primo novembre 1962. La sua applicazione fu parzialmente sospesa per sette anni (1967-1974) in seguito all’instaurazione di un regime non democratico in Grecia, e poi «riattivata». L’oggetto dell’accordo era la creazione graduale di una «unione doganale» (scadenza finale: il 1984), ma anche una integrazione progressiva delle economie, in particolare in campo agricolo, in vista di una eventuale futura adesione.
La genesi di questo accordo va vista nel quadro delle peripezie che hanno accompagnato la formazione della Comunità. Le trattative Comunità-Grecia si inserivano infatti nel prolungamento di quelle che avevano come scopo la creazione di una vasta zona di libero scambio, conosciute sotto il nome di «negoziato Maudling», che si erano svolte nel quadro dell’O.E.C.E. e che fallirono clamorosamente il 15 dicembre 1957 (due settimane prima che entrassero in vigore i Trattati di Roma). I negoziati Maudling tendevano, dal punto di vista dei paesi scandinavi e del Regno Unito (non senza qualche complicità all’interno della Comunità) ad impedire la «divisione» dell’Europa e soprattutto lo stabilimento di una tariffa doganale comunitaria. La pesantezza della manovra britannica ed il suo accento nettamente antifrancese pesarono in seguito sull’evoluzione dei rapporti in seno all’Europa. In seguito a questo fiasco la Comunità era messa da molti paesi (in particolare nell’ambito del G.A.T.T.) sul banco degli accusati. Un gruppo eterogeneo di paesi creò l’E.F.T.A. (European Free Trade Association), in funzione ostile verso la Comunità, sotto la direzione in particolare dei paesi scandinavi e della Svizzera, con la Gran Bretagna in una posizione abbastanza ambigua. In quel momento la Grecia e la Turchia rischiavano di trovarsi né qui né là: escluse dai due gruppi, rischiavano di vedere ostacolato l’accesso alla maggior parte dei loro partners commerciali. Era normale che affinità di carattere culturale, la vicinanza geografica e considerazioni di carattere strategico dovessero spingere questi due paesi a cercare un legame organico con i paesi della Comunità, assicurandosi — contro l’accettazione del principio della tariffa esterna comune — un accesso preferenziale in questi paesi, oltre che un aiuto allo sviluppo per permettere una integrazione progressiva delle economie. Aggiungiamo che allora l’influenza degli Stati Uniti in questi due paesi era assai grande, e che gli Stati Uniti appoggiavano apertamente la Comunità. L’E.F.T.A. era, nonostante tutto, caratterizzata dalla neutralità della maggior parte dei suoi membri (Svizzera, Austria, Svezia e poi Finlandia).
Quanto alla Comunità, essa aveva un’occasione quasi insperata di provare che non era un rich man’s club e che quando parlava di apertura verso l’esterno era sincera. Questa situazione doveva permettere alla Grecia di strappare condizioni particolarmente favorevoli, e giudicate eccessive da certuni (vedi il dibattito parlamentare del 18 e del 19 settembre 1961 a Strasburgo). La conclusione dell’accordo dovette essere accelerata, perché l’arrivo al potere dei conservatori in Gran Bretagna faceva prevedere un rovesciamento dell’atteggiamento britannico e la presentazione di una richiesta d’adesione, come effettivamente avvenne il 9 agosto 1961.[4]
I discorsi di Hallstein, Rey e Müller-Armack davanti all’Assemblea parlamentare europea il 18 settembre 1961 sono significativi. «Questo accordo, diceva Hallstein, con il quale la Comunità si associa per la prima volta ad un paese terzo, materializza la sua volontà, costantemente riaffermata, di praticare verso l’esterno una politica della porta aperta… L’accordo con la Grecia mostra ormai a ciascuno che l’adesione, non è la sola possibilità che il Trattato offre a chi vuole unirsi a noi… Nel quadro di questo articolo lo Stato terzo e la Comunità possono quindi intendersi più facilmente su clausole speciali che tengano conto delle contingenze individuali del paese associato e dei rapporti che esso ha già con la Comunità… L’accordo con la Grecia dimostra quindi che la Comunità non è un’impresa egoista concepita per il solo profitto dei propri membri, ma che essa diventa anche, oltre le proprie frontiere, un elemento di forza e di pace in Europa».
Né Hallstein, né Rey, né Müller-Armack alludevano al fatto che l’associazione doveva portare all’adesione, iscritta sia nella richiesta della Grecia sia nell’Accordo. Ciò andava da sé, ma la prospettiva era così ipotetica e lontana che nessuno si pose le domande che ci poniamo oggi. Allora, parlare di allargamento significava darsi da fare per far entrare la Gran Bretagna, e ogni riflessione spinta un po’ troppo in là avrebbe forse rafforzato la tesi degli avversari dell’ingresso di questo paese, accusato di provocare una «mutazione» della Comunità… D’altronde, se si legge il testo dell’articolo 72 dell’Accordo d’associazione, si può capire la «serenità» relativa con cui si poteva pensare nel 1961 ad un’adesione della Grecia: «Quando il funzionamento dell’accordo d’associazione avrà permesso di prendere in considerazione l’accettazione integrale da parte della Grecia degli obblighi che derivano dal Trattato di Roma, le parti contraenti esamineranno la possibilità di un’adesione della Grecia alla Comunità». L’adesione non è quindi qualcosa che deriva automaticamente dall’Associazione, e neppure la realizzazione integrale del libero scambio è, di per sé, una condizione sufficiente…
 
Un contesto profondamente cambiato.
Nel 1961 si poteva parlare a cuor leggero di una futura adesione della Grecia: era praticamente un’ipotesi che riguardava la generazione successiva. Nel frattempo l’Europa avrebbe acquisito una consistenza economica e politica tali che l’ingresso della Grecia sarebbe stato assimilabile all’annessione di una «marca» periferica ad un grande impero.
Le cose sono andate diversamente. L’Europa si è allargata ma non si è rafforzata, né sul piano politico né sul piano economico. I tentativi di «approfondimento» sono praticamente falliti. L’allargamento ha dato un certo vantaggio alle forze centrifughe, e l’«impero» europeo resta un puzzle di Stati che accettano con molte riserve una disciplina comune. La crisi economica, l’evoluzione dei rapporti Est-Ovest, l’evoluzione politica nel Sud dell’Europa hanno creato una situazione profondamente diversa da quella che si poteva immaginare sedici anni fa. Paradossalmente, la Comunità esercita però una forza d’attrazione crescente: resta un grande mercato relativamente omogeneo e protetto, e un interlocutore privilegiato sul piano mondiale. La relativa debolezza delle sue strutture istituzionali, lasciando agli Stati membri la possibilità di controllarle più facilmente, rende la Comunità più «attraente» agli occhi di coloro che si dicono «realisti».
Il negoziato con la Grecia si svolge quindi in un contesto notevolmente modificato. Su di esso incombe la controversia su ciò che deve essere l’Europa di domani. L’insufficienza dei progressi nell’omogeneità e la solidarietà comunitaria non incitano granché alla generosità che sarebbe necessaria in un negoziato del genere. Contrariamente a ciò che potrebbero pensare i greci o altri candidati, il prevalere della tendenza «lassista» non renderebbe necessariamente più facili soluzioni giuste, ma porterebbe probabilmente a soluzioni di facilità che conterrebbero i fermenti di controversie più acute in futuro. Il pericolo di dirigersi verso un’«Europa a due velocità» sul piano economico come su quello politico risiede precisamente in una concezione lassista, che non si preoccupi di risolvere i problemi di fondo, ma di trovare degli «arrangiamenti» ad hoc. «I pericoli di una distorsione crescente fra il Nord e il Sud della Comunità sono gravi — ha detto Thorn nel discorso già citato — e ci si può chiedere se l’esistenza stessa di questa Comunità quale la conosciamo non rischi di essere messa in discussione: infatti, nonostante una convergenza crescente della filosofia e della politica economica degli Stati settentrionali della Comunità, quest’ultima non è ancora stata in grado di dirigersi francamente verso un’Unione europea. L’esistenza di divergenze importanti e amplificate tra la zona Nord e la zona Sud potrebbe esserle fatale se, oltre, naturalmente, la volontà di svilupparsi, essa non si dotasse rapidamente dei mezzi politici ed istituzionali richiesti dalla nuova situazione». La creazione di una «zona tampone» o di un regime di «pre-adesione» auspicati dalla Comunità e brillantemente difesi da Sir Christopher Soames tendeva precisamente ad evitare, nel caso della Grecia, una istituzionalizzazione di un’Europa a due velocità. Cercare di risolvere tutte le contraddizioni può far sorgere a un certo momento delle «pregiudiziali». Allora non vi sarebbe la scelta che fra la separazione in gruppi che vanno avanti a velocità diverse e la riduzione della velocità di tutto l’insieme sulla base di quella del più lento. Il suggerimento di Pierre Uri (Le Monde del 2-4-1977) di adottare per il periodo transitorio tutto un sistema di scadenze legato alla realizzazione di certi obiettivi è particolarmente giudizioso, perché permetterebbe di prevedere, nella loro globalità ed a medio termine, i problemi strutturali da risolvere per fare della Comunità allargata un insieme coerente ed equilibrato.
I problemi specifici che riguardano l’adesione della Grecia non sono molto diversi da quelli che si ponevano al momento dell’associazione. Certuni sono importanti per l’una o per l’altra regione della Comunità. Altri pongono problemi da un punto di vista finanziario. Ma — soprattutto da quando, il 28 luglio 1977, la Spagna ha presentato una richiesta formale d’adesione — nessuno pensa più che questi problemi possano essere considerati isolatamente, dato che si «accumulano» con quelli degli altri candidati. E dato che queste candidature pongono problemi di carattere generale sensibilmente analogo. Uno studio dell’O.C.S.E. fornisce indicazioni che colpiscono, paragonando dati sull’occupazione e la produzione dei paesi candidati (compresa la Turchia) nel 1973-1974 con quelle dell’Italia nel 1961-62. Ecco la tabella:
 
STRUTTURA DELLA PRODUZIONE E DELL’OCCUPAZIONE
(Parti, in %)
Occupazione
Grecia
Portogallo
Spagna
Turchia
Italia
1961-1962
(media 1973-1974)
Agricoltura
37,6
28,4
23,7
64,8
30,2
Industria
27,7
33,9
37,0
14,6
38,8
Servizi
34,7
37,7
39,3
20,6
31,0
Produzione
 
 
 
 
 
Agricoltura
20,0
15,8
10,4
28,7
15,2
Industria
32,0
45,0
40,3
29,3
38,4
 
Queste cifre, che mostrano la strada da percorrere per colmare un divario che non è granché diminuito negli ultimi quindici anni, nascondono debolezze ancora più accentuate. Una cosa è certa: il gioco delle forze del mercato ed il libero scambio non riusciranno da soli a colmare il fossato. L’esperienza dimostra che esso potrebbe anzi allargarsi. L’ingresso nella C.E.E. dei paesi candidati nelle condizioni attuali porterebbe ad un sistema basato su deroghe e meccanismi di assistenza di carattere permanente, e quindi alla concessione di uno statuto di seconda classe a certi paesi. Una situazione inaccettabile proprio per loro.
 
La vera pregiudiziale.
La vera pregiudiziale all’allargamento non è né la revisione parziale della politica agricola che chiedono l’Italia e la Francia, né la reintegrazione completa della Grecia nella N.A.T.O., né la soluzione del conflitto tra la Grecia e la Turchia (che la Comunità deve rassegnarsi ad «importare»). La vera pregiudiziale è la scelta del tipo di Comunità che si vuole costruire insieme. Tre ipotesi sono possibili:
1 — Una Comunità che abbandoni la concezione originaria e diventi una zona di libero scambio, rinunciando all’integrazione delle economie (forse con l’eccezione del nucleo Germania-Benelux). I meccanismi istituzionali potrebbero ridursi a organi di gestione.
2 — Una Comunità che mantenga per la forma gli obiettivi originari, ma che punterebbe essenzialmente sul dinamismo dell’economia di scala e la libera circolazione aiutati da meccanismi di concertazione non coercitivi e di compensazione degli squilibri più vistosi. Le economie si svilupperebbero in funzione delle strutture nazionali, e la Comunità dovrebbe assicurare essenzialmente il libero gioco delle forze economiche, la protezione esterna e la preferenza comunitaria. Le istituzioni non avrebbero bisogno di essere rafforzate; un simulacro di potere politico centrale, affidato in realtà ad un gruppo molto ristretto di Stati, assicurerebbe una certa «rappresentatività» dell’identità europea nel mondo.
3 — Una Comunità la cui evoluzione seguirebbe il senso auspicato dai suoi fondatori, verso uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle economie di tutti i paesi membri, grazie alla realizzazione progressiva di un’unione economica e monetaria — e delle politiche comuni che essa implica — e infine di un’Unione europea. Ciò presuppone una vera «integrazione» delle economie basata su una strategia delle strutture industriali ed agricole della Comunità nel suo insieme. Questa integrazione può realizzarsi solo progressivamente, ma sulla base di una visione d’insieme e di un disegno coerente. Essa sfocia in una divisione del lavoro più equilibrata, in un’attenuazione degli squilibri regionali più gravi, e in un’armonizzazione delle strutture comunitarie con quelle che risultano da una nuova ed ineluttabile divisione del lavoro su scala mondiale. Una Comunità del genere esige istituzioni fondate sul consenso popolare, capaci di prendere decisioni, sottoposte ai controlli necessari, degli Stati e dei popoli.
Solo se si realizza questa terza ipotesi i paesi candidati trarranno un vantaggio sicuro, storico, dalla loro adesione. Negli altri casi le loro economie (come quelle delle regioni meridionali della Comunità) godrebbero del vantaggio illusorio del mercato, ma in realtà sarebbero prese nella tenaglia fra le economie altamente sviluppate sulla base di tecnologie di punta e di produzioni ad alto valore aggiunto, e dall’altra parte le economie dei paesi nuovi, basate su industrie leggere a bassa tecnologia, a basso salario, e in grado di disporre di materie prime sul posto.
Non vi è quindi alcun dubbio: non vi è che una pregiudiziale all’allargamento, e questa pregiudiziale è una scelta d’avvenire. Ma questa pregiudiziale sono i paesi candidati a doverla porre, nella solidarietà e sulla base di un disegno coerente. Dato che hanno chiesto di entrare nella Comunità fondata nel 1951 e nel 1957, e che questa stessa ha deciso di trasformarsi in una vera «Unione europea», essi devono esigere che si realizzi la terza ipotesi. Devono dichiararsi pronti a tutti gli adattamenti delle loro politiche alle quali gli stessi membri fondatori dovranno procedere per raggiungere insieme obiettivi comuni, sulla base di regole ed istituzioni comuni.
È così che si adopreranno per la costruzione di una vera Comunità europea, per una «comunità di destino», che avranno così contribuito ad arricchire con la saggezza che viene dalla loro storia e dalla virtù dei loro popoli.


[1] Davanti alla Société d’Etudes et d’Expansion, Bruxelles., 24 marzo 1977.
[2] Geoffrey Harris, A wider Europa – Young Fabian Pamphlet, dic. 1976.
[3] Geoffrey Edwards, «How large a Community?», in New Europe, autunno 1976.
[4] L’accostamento di alcune date conferma il legame tra l’associazione della Grecia e il processo generale di sviluppo dell’integrazione: tutto è legato. 15-12-1957: fiasco negoziato Maudling – primo gennaio 1958: entrata in vigore Trattato di Roma – marzo 1958: negoziato C.E.E.-Grecia – 9-7-1961: firma Accordo d’associazione – 18-7-1961: vertice di Bad Godesberg per l’«unione politica» – settembre 1961: apertura formale dei negoziati C.E.E.-Regno Unito – aprile 1962: fiasco piano Fouchet – gennaio 1963: fiasco negoziati con il Regno Unito – 5-6-1975: referendum britannico dopo il rinegoziato – 12-6-1975: richiesta d’adesione della Grecia.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia