IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XIX, 1977, Numero 1, Pagina 1

 

 

La grandezza di Jean Monnet*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
Grazie alle Memorie di Jean Monnet pubblicate da poco a Parigi (Fayard, 1976), è finalmente dato a tutti di conoscere la grandezza delle sue azioni, poco note anche per il modo con il quale sono state compiute. Va ricordato che Monnet non ha creato solo la Comunità europea, ma anche la prima forma di pianificazione democratica (quella francese) e le nuove forme di organizzazione internazionale per l’impiego ottimale delle risorse nella guerra moderna. Va poi ricordato che con la sua azione personale egli ha dato un contributo decisivo alla vittoria degli Alleati nella prima guerra mondiale, «ha accorciato di un anno la seconda guerra mondiale» (l’affermazione è di Keynes) ed ha promosso l’unità della Resistenza francese ad Algeri. E va infine rammentato che egli ha ottenuto questi risultati — che farebbero la grandezza di un uomo di Stato — senza esercitare il potere, agendo da solo, con la collaborazione di pochi amici o di persone che gli ispiravano fiducia.
Quanto ho detto, per sorprendente che sia, va preso alla lettera. Monnet non è mai stato il capo né di un governo, né di un partito, né di una amministrazione, né di una forza organizzata; e quando si è trovato alla testa di una organizzazione (il Commissariato francese al Piano, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio) si trattava di organizzazioni che egli stesso aveva creato, e di cui si occupò finché erano nello «stato nascente». Proprio per questo il suo caso è degno di meditazione. Abitualmente si pensa che un uomo solo, nel nostro mondo così organizzato e complesso, sarebbe ridotto all’impotenza, anche per quanto riguarda il conoscere (per questo i fondamenti della morale, che non riposa su niente se non riposa sugli individui, vacillano). È ormai normale credere che siano necessarie équipes di esperti per la conoscenza della società e dei suoi problemi, e che solo le grandi forze organizzate — o in misura modesta i dirigenti di queste forze — possono decidere del corso degli eventi e determinare la soluzione dei problemi. Orbene, Monnet dimostra, con l’eloquenza dei fatti, che anche il contrario è vero. E la creazione della Comunità europea mostra fino a qual punto il contrario possa essere vero; e quindi fino a qual punto la nostra epoca debba mutare, a questo riguardo, l’opinione che ha di sé stessa.
Senza l’azione di Monnet non ci sarebbe la Comunità. Negli anni, mesi e giorni che ne precedono l’avvento, non esiste né traccia né segno di un progetto di questo genere, né della ricerca di una soluzione di questo genere per il problema che si trattava di risolvere (il posto da assegnare alla Germania occidentale nel mondo atlantico) nei partiti, nei loro organi deliberanti e dirigenti, nei ministeri e nei governi. Il progetto è di Monnet, l’azione per farlo accettare dai governi è di Monnet (a Schuman ed Adenauer va riconosciuto proprio il merito, del resto politicamente grandissimo, di aver accettato subito le proposte di Monnet). E va ricordato, per coloro che parlano ancora della Comunità come di un’impresa di asservimento all’America, che gli Americani osteggiarono per molto tempo la soluzione europea quando, sotto la pressione della richiesta angloamericana di riarmare la Germania, Monnet e Pleven controproposero la Comunità europea di difesa.
I fatti sono questi, e il loro significato è chiaro. Monnet ha creato la Comunità, e la Comunità ha condizionato la politica europea, americana e mondiale. Ciò significa che da venticinque anni a questa parte le grandi forze storiche hanno seguito o fronteggiato un corso di cose in parte stabilito da un uomo solo, Jean Monnet.
Va .detto, a questo punto, che Monnet deve a sé stesso (e alla fortuna, come tutti, specie nella politica) anche l’inizio della sua avventura. Nel 1914, quando scoppiò la prima guerra mondiale, egli aveva ventisei anni. Era stato riformato per motivi di salute, ma sentiva di non poter restare inattivo. E nelle sue Memorie racconta: «Molto presto seppi che cosa dovevo fare, perché era chiaro che un formidabile problema stava per porsi agli Alleati che non erano preparati a risolverlo». Era vero, e nessuno meglio dello stesso Monnet può spiegarlo: «Questo problema si poneva al mio spirito perché ero molto giovane, e non sebbene fossi molto giovane. In effetti era un problema nuovo, un problema già del XX secolo, che una intelligenza senza pregiudizi, senza memoria del passato, vedeva con più chiarezza degli esperti, nutriti delle concezioni del XIX secolo. Essi non comprendevano che le condizioni della potenza erano cambiate, che la macchina di guerra era chiamata a stritolare tutte le risorse di una nazione, e che bisognava inventare delle forme di organizzazione senza precedenti».
In sé, tutto ciò è perfettamente ragionevole. Il problema c’era, un uomo poteva porselo e risolverlo. In effetti Monnet se lo pose e lo risolse. Ma questo fatto ragionevole diventa straordinario se si tengono presenti le circostanze. Allora Monnet non aveva alcuna relazione con i centri e le persone del potere. E non si trovava, per fatto di nascita, nell’ambito della classe dirigente. Viveva a Cognac, ed aveva girato mezzo mondo per visitare i clienti della Società per la vendita del cognac gestita da suo padre. Non c’è nient’altro. Come ogni uomo pensava alla guerra. Come poteva capitare ad ogni uomo, si rese conto che c’era questo problema nuovo da affrontare. E come avrebbe fatto ogni altro uomo si chiedeva quale fosse la soluzione, e ne parlava, soprattutto con suo padre. La differenza è che egli non si fermò col pensiero a metà strada: era un problema del potere, quindi bisognava pensarlo anche sotto questo aspetto, come una decisione del potere. Intravista una soluzione tecnica, Monnet si persuase che «doveva andare a convincere coloro che avevano il potere di agire, ovunque fossero».
La cosa, per quanto possa sembrare incredibile, gli riuscì. «Un amico della nostra famiglia, M. Fernand Benon, conosceva bene il Presidente del Consiglio, Viviani, col quale aveva sostenuto dei processi… Non faticai a fargli condividere le mie inquietudini per la condotta dello sforzo bellico con metodi antiquati. Egli accettò di presentarmi a Viviani». Non è possibile, qui, raccontare il seguito della vicenda, ma si può tuttavia dire che uomo fosse, a ventisei anni, Monnet. «È in questo mondo (Cognac) che sono cresciuto. Non si faceva che una cosa, con concentrazione e lentezza. Ma attraverso questa cosa, si aveva un campo di osservazione immenso e uno scambio di idee molto attivo. Là, o a partire di là, imparavo più di quanto avrei potuto con una istruzione specializzata… Non avevo mai amato la scuola… eppure ho il ricordo di una infanzia seria e disciplinata. Molto presto ebbi l’istinto, divenuto poi per me una regola di condotta, che la riflessione non può essere separata dall’azione. L’azione era dappertutto intorno a me… perché avrei dovuto prendere la via traversa (détour) del diritto… quando era alla mia portata di entrare nella scuola della vita e visitare il mondo? Visitare il mondo è una espressione letteraria che non si usava a Cognac. Noi dicevamo che si andava a visitare i clienti».
Con un breve articolo non è possibile, purtroppo, ricordare altri episodi della vita di Monnet; e non è neppure possibile spiegare il metodo della sua azione. Bisogna tuttavia dire che le sue Memorie — appassionanti come ogni scritto in presa diretta sulla vita — sono già oggetto di studio in Istituti universitari. Il fatto è comprensibile. Non c’è soltanto il problema della conoscenza e dello studio delle sue opere. Monnet ha fatto ciò che, in teoria, avrebbero dovuto fare la scienza e il potere. Si può dunque, con le opere di Monnet, prendere la misura dello stato del potere e di quello delle scienze sociali. Là dove il potere e la scienza non vedevano problemi, o gli esperti non trovavano il bandolo della matassa, poteva bastare un uomo solo, Monnet, con la forza morale del suo carattere, con la solidità naturale del suo ingegno e con il «vecchio precetto di Cartesio».
Il fatto è che quasi tutti gli uomini distinguono, fino a separarli, il conoscere dal fare, e così alterano tanto il conoscere quanto il fare. Monnet no, ma davvero, a cominciare dal fondamento, l’unità e non la divisione fra gli uomini. Egli ricorda che un suo amico, Dwight Morrow, aveva l’abitudine di dire: «Ci sono due categorie di uomini, quelli che vogliono essere qualcuno e quelli che vogliono fare qualche cosa». E continua: «Dwight Morrow mi situava in questa seconda categoria ed è vero che non ho il ricordo di essermi mai detto: ‘Sarò qualcuno’. Ma non sento nemmeno me stesso dire, in alcun momento della mia vita: ‘Farò qualche cosa’. Ciò che ho fatto o contribuito a fare, e che ho raccontato in questo libro, è nato dalle circostanze quando si sono presentate». Dalle circostanze, ma con la ferma volontà di agire nel «dominio della preparazione dell’avvenire» («Se la concorrenza è viva nei dintorni del potere essa è praticamente nulla nel dominio nel quale io volevo agire, quello della preparazione dell’avvenire che, per definizione, non è illuminato dalle luci dell’attualità»); e con il sentimento che «il necessario non si discute», che il necessario va fatto, che il necessario, a patto di saper aspettare, è possibile, perché «tutto è possibile nei momenti eccezionali».
Così, grazie alla necessità e alla fortuna, è iniziata, con la virtù di Jean Monnet, l’impresa dell’unità europea. E solo così potrà essere portata a compimento.


* Una versione leggermente ridotta per esigenze di spazio di questo articolo è apparsa su «La Stampa» dell’8 gennaio 1977.

 

 

 

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