IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIII, 2011, Numero 3, Pagina 171

 

 

Il bailout degli Stati nelle unioni federali e nell’Unione pre-federale europea
 
DOMENICO MORO
 
 
Negli ultimi anni, in alcuni paesi europei è stato avviato un processo che è volto a ridefinire i rapporti finanziari tra il centro e la periferia e che sta interessando Stati sia a struttura federale sia a struttura centralizzata. Ad esempio, la Germania ha rivisto in profondità la politica d’indebitamento dei diversi livelli di governo e, come la Svizzera, ha abbandonato, perché dimostratasi nei fatti inefficace, la golden rule, cioè la regola secondo la quale l’indebitamento netto annuo di un governo deve essere pari al livello degli investimenti pubblici annui. L’Italia, da parte sua, si è avviata verso l’introduzione del federalismo fiscale, in quanto la finanza derivata risulta incompatibile con gli obiettivi d’indipendenza dei governi regionali e con un’offerta di servizi pubblici locali coerente con la struttura delle preferenze dei residenti. Però, contrariamente a quanto potrebbe far ritenere il dibattito a sostegno dell’introduzione del federalismo fiscale, in particolare in Italia, da parte delle forze politiche più sensibili a questa riforma, i rapporti finanziari nel senso di una maggior indipendenza dei governi regionali rispetto a quello centrale, e quindi i rapporti di potere tra gli stessi, non sono definiti una volta per tutte. La situazione, del resto, è ancora fluida anche in Europa che, almeno per quanto riguarda i paesi dell’Eurozona, si trova in uno stadio pre-federale. In seguito alla crisi finanziaria che è esplosa negli Stati Uniti nel 2008 e che ha coinvolto il continente europeo, mettendo in discussione la sopravvivenza dell’euro, la reazione dei paesi membri dell’Eurozona nei confronti di quelli con i maggiori problemi finanziari, come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia, è stata quella di procedere al loro commissariamento di fatto da parte delle istituzioni europee.[1] Inoltre, per quanto riguarda la Spagna, il Consiglio europeo non si è limitato a prendere atto, con soddisfazione, che il parlamento spagnolo ha approvato una norma costituzionale che prevede il pareggio di bilancio, ma ha auspicato che tale regola venga fatta propria anche dai governi regionali.[2] Lo stato delle finanze pubbliche pone quindi già in discussione i rapporti di potere tra l’Unione europea, gli Stati membri e i livelli di governo regionali, anche se l’Unione non è ancora una federazione compiuta.
Proprio nella prospettiva del completamento del processo di creazione, almeno nell’Eurozona, di una federazione pienamente compiuta, e quindi per contribuire alla riflessione sulle questioni più rilevanti che tale federazione dovrà affrontare relativamente al problema delle finanze pubbliche e della ripartizione dei poteri e delle responsabilità tra i vari livelli di governo, questo lavoro si propone, attraverso l’analisi delle politiche seguite dai governi federali quando si trovano di fronte a problemi di crisi fiscali che coinvolgono gli Stati federati, di mettere in evidenza che la difesa di un ordine istituzionale federale richiede una politica finanziaria virtuosa da parte dei governi statali e regionali. La tesi che si vorrebbe dimostrare è, infatti, che: a) l’indipendenza dei livelli inferiori di governo non è acquisita in modo definitivo, e che il valore dell’indipendenza deve accompagnarsi all’adozione di vincoli costituzionali alla gestione di una finanza federale ed in particolare all’adozione di vincoli alla gestione del debito pubblico da parte dei livelli inferiori di governo; b) l’integrazione del mercato dei capitali è un potente fattore di spinta alla centralizzazione del potere al livello al quale questa integrazione è massima. Nel caso europeo, la spinta è verso una maggior unificazione su scala europea. Questo significa che, a termine, l’unico livello di governo cui potrebbe far capo la competenza dell’indebitamento sul mercato dei capitali dovrebbe essere quello europeo; c) l’introduzione del federalismo fiscale a livello nazionale può assicurare una maggior autonomia ai livelli inferiori di governo, rispetto al potere centrale nazionale, solo se, a sua volta, lo Stato nazionale è membro di una federazione europea che ne controbilanci i poteri; d) il fatto che le difficoltà finanziarie di alcuni Stati membri dell’Eurozona pongano il dilemma tra un intervento volto a sostenere tali Stati per salvare l’euro, oppure un non-intervento, rischiando così di mettere in discussione la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea, è dovuto alla condizione pre-federale dell’area dell’euro. L’esperienza delle unioni federali ci dice, invece, che in una federazione la politica ha l’ultima parola in merito all’intervento o meno a sostegno delle finanze di uno Stato membro in difficoltà, senza che questo metta in discussione il quadro statuale unitario. Nelle unioni federali, la politica può dunque scegliere se lasciare unicamente al mercato la stimolo all’adozione di misure di risanamento delle finanze pubbliche dello Stato interessato, oppure intervenire con strumenti discrezionali in aggiunta o in sostituzione a quelli del mercato.
Con questa nota si vuole, in sostanza, contribuire ad una riflessione su quali sono le condizioni economiche ed istituzionali che consentono di soddisfare la definizione di governo federale data a suo tempo da K.C. Wheare, secondo la quale tale governo è “un insieme di governi indipendenti e coordinati”.[3] Se nel contesto intergovernativo europeo il problema sembra unicamente quello dell’assenza di legittimità democratica che presiede alle decisioni europee volte a ridurre l’eccessivo indebitamento pubblico, l’esperienza delle unioni federali ci dice che, se si vuole evitare che, nel tempo, si alterino i rapporti di potere a favore del livello centrale, mettendo quindi in discussione la caratteristica fondamentale dei sistemi federali come descritta da Wheare, è necessario perseguire una politica finanziaria sana a tutti i livelli di governo.
 
1. La gestione dei problemi di insolvenza degli Stati membri in un’unione federale.
La presente nota prende quindi in considerazione l’esperienza di alcuni Stati a struttura federale Australia, Brasile, Germania e Stati Uniti che appartengono a quattro diversi continenti, per vedere come si sono affrontati i casi di dissesto finanziario degli Stati membri e per valutare il ruolo che ha l’integrazione del mercato dei capitali nel confermare l’importanza del governo federale per quanto riguarda il fatto di assicurare la stabilità finanziaria dell’unione federale.[4] Per ognuna delle federazioni qui prese in considerazione, si ricordano prima, in maniera sintetica, la natura delle relazioni finanziarie tra il governo federale ed i governi degli Stati federati e, successivamente, i casi di bailout che la federazione ha dovuto gestire, con l’indicazione dei livelli di indebitamento raggiunto dagli Stati nel momento in cui si è reso necessario, o è stato sollecitato, l’intervento federale.
 
a) L’Australia
L’Australia è l’unica unione federale, tra quelle di più antica industrializzazione, che presenta un’incidenza del debito pubblico lordo sul PIL molto bassa: il 22,3% nel 2010 (era il 17,6% nel 2009). Questa contenuta rilevanza del debito pubblico è forse un indice della forte attenzione alla gestione del debito da parte di questa federazione e dell’influenza che le relazioni tra il governo federale ed i governi degli Stati membri esercitano in questo campo. In effetti, le relazioni finanziarie tra il governo del Commonwealth e gli Stati sono, in parte, condizionate dalla limitata capacità degli Stati di accrescere il gettito fiscale di competenza: essi sostengono quasi il 50% della spesa pubblica complessiva della federazione australiana, ma raccolgono solo un quarto dell’intero gettito fiscale. Questa struttura finanziaria dà quindi oggi luogo a consistenti trasferimenti di fondi dal livello federale a quello degli Stati, trasferimenti che arrivano così finanziare circa il 50% della spesa pubblica statale.
Per quanto riguarda la gestione del debito, fino all’introduzione su basi volontarie del Loan Council (1922), il governo federale ed i governi degli Stati federati non rispondevano a particolari vincoli di indebitamento e si presentavano sul mercato dei capitali, in concorrenza, per collocare i prestiti di cui necessitavano.[5] Gli Stati spuntavano tassi d’interesse sui prestiti in funzione dei rispettivi meriti di credito: pertanto, a parte le condizioni migliori di cui godevano i prestiti del governo federale australiano, gli Stati solidi spuntavano i tassi più bassi e quelli meno virtuosi i tassi più elevati.
Il Loan Council venne quindi istituito per limitare una concorrenza che, con il tempo, si era progressivamente rivelata dannosa per tutti. Poiché l’accordo volontario si rivelò insufficiente come strumento di coordinamento delle emissioni di titoli pubblici, esso venne formalizzato, nel 1927, con l’approvazione del Financial Agreement, in base al quale il governo australiano decideva di farsi carico dei debiti fino ad allora contratti dagli Stati, mentre le nuove emissioni di cui necessitavano venivano promosse dal Loan Council e, con decisione unanime,siprovvedeva alla ripartizione degli introiti tra la federazione e gli Stati federati.[6] Al momento della firma del Financial Agreement, gli Stati approvarono anche la costituzione di un fondo di ammortamento dei debiti contratti dal Loan Council, cui partecipava, con una quota, lo stesso governo federale. Un primo significativo rafforzamento dei poteri del Loan Council e, per il suo tramite, del governo federale, si verificò all’inizio degli anni Trenta, in seguito al rifiuto da parte dello Stato del New South Wales, nel 1931 e nel 1932, di pagare gli interessi sul debito contratto sul mercato estero. Nella circostanza del secondo rifiuto si verificò una fuga di capitali verso gli altri Stati della federazione ed un crollo degli investimenti nel New South Wales. In entrambi i casi, gli interessi furono pagati dal governo federale, che realizzò il suo primo bailout a favore di uno Stato. Dopo il secondo intervento, però, il governo federale approvò una legge in base alla quale, da un lato, garantiva i debiti contratti dagli Stati federati, ma dall’altro, come controgaranzia, richiedeva che gli venisse riconosciuta la facoltà di avvalersi delle entrate fiscali degli Stati che non avessero onorato il servizio del debito. A nulla valse il ricorso del New South Wales, sostenuto nell’occasione anche dalla Tasmania e da Victoria, alla Corte costituzionale australiana contro questo provvedimento.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, caratterizzati da un forte sviluppo economico, il Loan Council accettò che gli Stati si indebitassero attraverso agenzie e imprese statali che operavano in settori ritenuti strategici per lo sviluppo (trasporti, energia, telecomunicazioni). Poiché si trattava di debiti contratti da entità pubbliche che non rientravano nelle competenze del Loan Council, ne seguì una perdita d’influenza di quest’ultimo sulla politica di indebitamento degli Stati. Nel tentativo di recuperarla, si decise di eliminare la distinzione tra debiti contratti dai governi e debiti contratti dalle agenzie e dalle imprese pubbliche, e di adottare una definizione di indebitamento che includesse tutte e due le fattispecie, introducendo dei limiti globali di indebitamento pubblico che ogni Stato si impegnava a rispettare. Gli anni Ottanta e Novanta, nel corso dei quali si è progressivamente avviata la liberalizzazione dei movimenti dei capitali su scala mondiale, sono anche gli anni in cui si assiste alla progressiva perdita d’influenza del Loan Council nella determinazione dei livelli di indebitamento dei diversi livelli di governo e ai tentativi di ripristinarla. Ad esempio, quando lo Stato del Queensland, nel 1988, si oppose al rispetto di questi limiti e li superò, il rientro nei termini concordati fu possibile solo in seguito alla minaccia, da parte del governo federale, di ridurre i trasferimenti pubblici allo Stato in questione. La situazione si ripeté quando le difficoltà di importanti istituzioni finanziarie pubbliche e di società private dello Stato del Victoria, provocate dalla crisi finanziaria del 1987, si ripercossero sul bilancio pubblico di quest’ultimo, determinando un aumento dell’indebitamento ben oltre i limiti imposti dal Loan Council. Il maggior indebitamento in cui lo Stato era incorso fu accettato dal Loan Council nel 1992, attivando di fatto un bailout indiretto, e solo dopo un cambio del governo che si era reso responsabile del peggioramento dei conti pubblici. Nel 1992-1993 il Loan Council decise però di porre fine alla pratica di disciplinare la politica di indebitamento degli Stati, lasciando che questi ultimi si rivolgessero direttamente al mercato, sia pure nel quadro di limiti massimi di indebitamento concordati all’interno del Loan Council. Si è trattato di una decisione che ha retto solamente per un certo periodo di tempo: il sopraggiungere della crisi americana dei subprime nel 2008 si è ripercossa anche sul merito di credito degli Stati federati dell’Australia, facendo loro perdere i vantaggi e il grado di indipendenza nell’accesso al mercato dei capitali di cui avevano goduto fino a quel momento.[7] Attualmente essi hanno nuovamente bisogno della garanzia federale per i prestiti che ricevono, in assenza della quale è per loro impossibile rivolgersi al mercato dei capitali, oppure vi possono ricorrere solo a fronte del riconoscimento di tassi di interesse tali da risultare alla lunga insostenibili per le finanze locali.[8]
 
b) Il Brasile
Il Brasile è un’importante economia emergente che dal 1988, con la fine della dittatura militare, si è data una struttura statale federale basata su tre livelli di governo: il governo federale, i governi degli Stati membri (27, comprendendo il distretto federale) e le municipalità.[9] Il sistema fiscale brasiliano prevede che al governo federale facciano capo le imposte sul commercio estero e sulle transazioni finanziarie, le imposte sulle proprietà rurali, le imposte sui redditi delle imprese e l’imposta sul valore aggiunto dei prodotti industriali. Il gettito di queste ultime due imposte è ripartito con gli Stati federati e le municipalità attraverso due fondi di compartecipazione, uno per gli Stati ed uno per le municipalità. Il gettito delle imposte sulle proprietà rurali è condiviso solo con le municipalità. Vi sono poi imposte che fanno unicamente capo ai governi statali, come le imposte sulle successioni e donazioni, l’imposta sul valore aggiunto con un’ampia base imponibile e la tassa di proprietà dei veicoli. Il gettito di queste due ultime imposte è ripartito tra gli Stati e le municipalità. Infine, a queste ultime sono assegnate le imposte sui servizi, sulle proprietà immobiliari e sui trasferimenti di proprietà. Va ricordato che, nel caso brasiliano, una parte consistente delle entrate (mediamente il 25%) è costituito da trasferimenti del governo federale e che gli Stati membri non hanno il potere di modificare la base imponibile, né le aliquote fiscali. Una caratteristica del sistema federale brasiliano che occorre ricordare è che il Senato, in cui sono rappresentati gli Stati membri della federazione, in ragione di tre rappresentanti ciascuno, ha il potere di stabilire il livello di indebitamento del governo federale, degli Stati membri e delle municipalità.[10] Infine, va ricordato che l’importanza economica degli Stati federati è molto squilibrata: infatti, i quattro stati del sud-est del Brasile (San Paolo, Rio de Janeiro, Minas Gerais, Espirito Santo), riuniscono il 43% della popolazione e rappresentano oltre il 59% del PIL del Brasile.
Nell’arco dei dieci anni successivi all’adozione della nuova costituzione, il governo brasiliano ha messo in atto politiche di bailout per ben tre volte: nel 1989, nel 1993 e nel 1997. I ripetuti interventi in un arco temporale tutto sommato breve hanno contribuito a incentivare la pratica del moral hazard, vale a dire una politica della spesa pubblica imprudente e basata sulla convinzione che, comunque, in caso di difficoltà, il governo federale sarebbe intervenuto per evitare il fallimento di uno Stato insolvente. In effetti, già subito dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione, nel 1989, il governo federale ha dovuto farsi carico del debito estero contratto dagli Stati negli anni precedenti (per un importo pari all’1,38% del PIL degli Stati), ponendo loro alcuni limiti all’indebitamento annuo, ma senza chiedere la riduzione del debito contratto fino allora. Negli anni successivi al 1989 e fino al 1993, l’indebitamento netto degli Stati e delle municipalità è quindi aumentato, passando dal 7,5% del PIL al 9,3%. L’aumento del debito pubblico ha portato ad una revisione della costituzione che ha introdotto limiti all’indebitamento validi per un certo periodo di tempo, ma senza estenderli al rinnovo dei debiti in scadenza. L’espansione del debito nel frattempo intervenuta aveva preso la forma dell’indebitamento degli Stati con le banche da loro controllate, provocando una crisi di liquidità di queste ultime, nel cui portafoglio avevano assunto un forte peso titoli statali che non avevano mercato. Il governo federale, per impedire il fallimento delle banche statali, intervenne autorizzando la banca centrale a scambiare titoli da lei emessi con quelli degli Stati. Il Senato federale intervenne ancora una volta a sostegno della manovra, ivi compresa la capitalizzazione degli interessi. Queste misure non furono però sufficienti a salvare dal fallimento le due più importanti banche pubbliche degli Stati del sud-est, la Banca di San Paolo (Banespa) e la Banca di Rio de Janeiro (Banerj). Questa volta, il valore dell’intervento del governo federale fu pari al 7,24% del PIL degli Stati. Nel periodo che va dal 1993 al 1997, anno dell’ultimo bailout qui preso in considerazione, l’indebitamento netto degli Stati e delle municipalità salì dal 9,3% del PIL all’11,9%, dovuto in larga parte all’aumento dell’emissione di bond statali (passati, negli stessi anni, rispettivamente al 5,2% ed al 6,6% del PIL). Il bailout del 1997 fu preceduto da interventi del governo federale a favore degli Stati del sud maggiormente indebitati. Nel dicembre del 1995, ridusse il debito dello Stato di San Paolo nei confronti della banca di Stato trasferendogli titoli federali da cedere a quest’ultima. Un’ulteriore riduzione del debito dello Stato fu raggiunta con la cessione al governo federale della proprietà di aeroporti e linee ferroviarie statali. Siccome queste misure si rivelarono ben presto insufficienti, il governo federale dovette farsi carico dei debiti dello Stato nei confronti di Banespa subentrando allo Stato nel controllo di quest’ultima.[11] Nel 1997, gli interventi a favore dello stato di San Paolo e di Minas Gerais aprirono la strada, anche su pressione del Senato federale, all’intervento a favore di tutti gli altri Stati per la rinegoziazione di parte dei debiti pubblici (per il 10,5% del PIL), per il rinnovo di un’altra quota (per il 9,5% del PIL) e per il loro parziale condono (per l’1,5% del PIL). Il governo federale si dichiarò però disponibile a questo salvataggio solo nei confronti di quegli Stati che avessero provveduto a privatizzare le loro banche pubbliche ed avessero ridotto l’ammontare dei debiti al di sotto del gettito fiscale annuo. La gestione della rinegoziazione e del rinnovo dei debiti si accompagnò all’adozione di misure aggiuntive quali l’imposizione di un limite massimo all’incidenza delle spese per il personale sul totale della spesa pubblica statale, l’assenza di garanzie federali al debito degli Stati, la richiesta di tassi di interesse più elevati sui debiti degli Stati nei confronti del governo federale e la deduzione del servizio del debito dai trasferimenti federali agli Stati. Venne, inoltre, proibito alla Banca centrale, quale supervisore del sistema bancario federale, di concedere prestiti a quegli Stati che avessero violato i limiti d’indebitamento. Il bailout del 1997 ha però segnato una svolta nell’atteggiamento del Senato di fronte al problema dell’indebitamento degli Stati ed ha aperto la strada all’approvazione, avvenuta nel 2000, della “legge sulla responsabilità fiscale”.[12] Questa legge ha aggiunto, alle misure prima ricordate, anche quella della armonizzazione della politica di bilancio degli Stati con quella del bilancio federale. Pertanto, gli Stati che hanno bisogno di rivolgersi al mercato dei capitali devono chiedere prima l’autorizzazione al Ministero delle finanze federale, il quale dovrà verificare se rispettano i vincoli d’indebitamento. La legge ha introdotto anche un sistema di multe e la responsabilità penale in capo sia ai governatori degli Stati che s’indebitano oltre i limiti loro concessi, sia in capo alle banche che li finanziano.[13] Al momento dell’approvazione della legge sulla responsabilità fiscale, il debito pubblico netto del Brasile era pari al 47,7% del PIL (circa il 32% in capo al governo federale ed il 15% in capo agli Stati); dopo aver toccato una punta massima del 60,6% del PIL nel 2002, è progressivamente sceso al 40,2% del PIL nel 2010 (circa il 29% del governo federale e l’11% degli Stati).[14]
 
c) La Germania
Il caso più interessante è quello del governo federale tedesco, il quale se, da un lato, ha voluto inserire nel Trattato di Maastricht la clausola di no-bailout degli Stati membri dell’Unione europea, dall’altro, nel corso della sua storia recente, si è trovato di fronte alla necessità di intervenire o meno a favore di alcuni Länder tedeschi, in due diversi contesti politico-economico europei. Si tratta delle difficoltà finanziarie in cui si sono trovati la città-Stato di Brema e il Saarland alla fine degli anni Ottanta e quindi prima della nascita dell’euro[15] e della crisi finanziaria della città-Stato di Berlino all’inizio di questo secolo e quindi nel quadro dell’Unione monetaria.[16]
Per meglio valutare la politica del governo nei confronti dei tre Länder è opportuno ricordare un’importante caratteristica del sistema federale tedesco data dal fatto che i Länder condividono il gettito fiscale delle maggiori imposte con il governo federale e tra di loro attraverso il sistema della perequazione finanziaria (Finanzausgleich). Infatti, la legge fondamentale tedesca prevede, a fianco delle imposte di esclusiva competenza statale e locale, le cosiddette “imposte comuni” ai diversi livelli di governo. La ripartizione del gettito di due imposte comuni, quella sul reddito delle persone fisiche e quella sul reddito delle imprese, è definita dalla Costituzione.[17] La ripartizione del gettito della terza imposta comune, quella sul valore aggiunto, è invece definita da una legge ordinaria, alla cui approvazione partecipa il Bundesrat, dove sono rappresentati i Länder.[18] Le imposte comuni concorrono al finanziamento del meccanismo della perequazione, in modo che i Länder con minor capacità fiscale raggiungano un gettito grosso modo pari a quello medio della federazione. Pertanto, vi saranno Länder strutturalmente contribuenti netti ed altri strutturalmente percettori netti. Per quanto riguarda, invece, la politica dell’indebitamento, il governo federale ed i Länder ricorrono al mercato dei capitali con il solo vincolo del rispetto della golden rule (almeno fino alla revisione costituzionale del 2009). Gli enti locali, per indebitarsi, devono invece ottenere il consenso del Landdel quale fanno parte.[19]
La città-Stato di Brema e il Saarland, alla fine degli anni Ottanta, per ragioni legate alla crisi economica che aveva colpito, rispettivamente, l’industria cantieristica e l’industria siderurgica, si trovarono a dover fronteggiare un livello elevato di debiti finanziari contratti per far fronte alla forte disoccupazione locale (l’incidenza del debito sul prodotto pro-capite era pari, rispettivamente, al 38% ed al 42%). Al fine di sollecitare un intervento straordinario del governo federale tedesco per ripianare il loro debito, i due Länder, nel 1988, fecero ricorso alla Corte costituzionale. La discussione tra i due livelli di governo si protrasse per circa quattro anni e nel 1992, quindi prima della nascita dell’euro, il governo tedesco, in seguito alla sentenza della Corte favorevole ai Länder ed in conformità a un contratto stipulato con loro, decise di concedere finanziamenti aggiuntivi, da versare nell’arco di una decina di anni, a fronte dell’impegno di contenere la crescita della spesa pubblica entro limiti inferiori a quelli riconosciuti agli altri Länder. L’esito della sentenza trae origine dal fatto che la costituzione tedesca prevede l’omogeneità fiscale e delle condizioni di vita tra i Länder e il fatto che questi obiettivi possono essere raggiunti solo come conseguenza del mutuo sostegno del governo federale nei confronti dei Länder, di questi ultimi nei confronti del governo federale e tra gli stessi Länder. Dato questo principio solidaristico, se i Länder (o il governo federale) sono sottoposti a “gravi difficoltà di bilancio”, essi hanno diritto all’intervento di sostegno da parte degli altri membri della federazione. Come, però, è stato notato, la sentenza della Corte costituzionale ha dato il segnale al mercato che nell’unione federale tedesca vi è un’alta probabilità di salvataggio dei Länder da parte del governo federale (e viceversa) ed in effetti il rating del debito emesso dai Länder è praticamente lo stesso di quello del governo federale.[20]
Nel caso del ricorso della città-Stato di Berlino, la sentenza del 2006 è stata di segno opposto, nel senso che la Corte costituzionale si è dichiarata contraria a un intervento straordinario del governo federale per far fronte alla crisi fiscale in cui il Land si è venuto a trovare in seguito alla riunificazione. Con quella sentenza, Berlino si è trovata dunque nella necessità di adottare misure autonome per far fronte al deficit di bilancio (nel momento in cui la città fece ricorso alla Corte, l’incidenza del debito sul prodotto lordo era pari al 60%, ma salì ulteriormente negli anni successivi).
 
d) Gli Stati Uniti
Gli Stati Uniti sono una federazione in cui il 67% del gettito fiscale va al governo federale, il 20% ai governi statali e il residuo 13% ai governi municipali. Inoltre, i governi degli Stati membri ricevono dal governo federale fondi pubblici in una misura che va dal 9% al 31% del loro PIL, evidenziando così una significativa politica di trasferimenti dal centro alla periferia.[21] Essi sono il paese con la più lunga tradizione federale e quello in cui si sono posti sia problemi di bailout di Stati che di città di diversa rilevanza. Quando negli Stati Uniti uno Stato membro della federazione si trova in difficoltà finanziarie, il dibattito che ne segue fa sempre riferimento alla crisi che, nel 1840, coinvolse 8 Stati americani (Arkansas, Illinois, Indiana, Louisiana, Maryland, Michigan, Mississippi e Pennsylvania) ed il Territorio della Florida.[22] Il governo federale, allora, non intervenne a sostegno degli Stati, seguendo una direzione opposta a quella che seguì quando, dopo la guerra d’indipendenza, si fece carico dei debiti degli Stati che avevano partecipato al conflitto contro l’Inghilterra. Data da questi anni e dalle difficoltà finanziarie che si ripeterono nel decennio del 1870, la scelta da parte degli Stati americani di introdurre nelle rispettive costituzioni limiti all’indebitamento statale e locale e, nel caso di alcuni di essi, di prevedere esplicitamente la clausola del no-bailout delle municipalità. Una parziale revisione di questa politica del governo federale e del governo degli Stati, nei confronti delle municipalità in difficoltà finanziarie, si ebbe durante la Grande depressione degli anni Trenta, quando entrambi intervennero con la concessione di aiuti in grado di ripagare, sia pure parzialmente, i loro debiti.
Gli esempi di crisi finanziaria di città o Stati americani che vengono qui ricordati sono quelli della città di New York nel 1975 e dello Stato della California.[23] Nel caso di New York la linea inizialmente tenuta dal governo federale americano fu quella del non intervento.[24] Quando quest’ultimo, anche su pressione europea, decise di mutare atteggiamento, il Congresso approvò la concessione di anticipi annui pari a 2,3 miliardi di dollari per tre anni consecutivi, e subordinati al rispetto di alcune condizioni: gli anticipi dovevano essere restituiti entro l’anno in cui erano concessi e con il pagamento di un tasso di interesse pari ad un punto percentuale superiore a quello dei Treasury bonds; in secondo luogo, la città doveva adottare misure sufficienti a riportare in pari, in breve tempo, il bilancio. Queste misure dovevano prevedere l’aumento delle imposte sui redditi dei residenti e delle società; l’aumento delle tariffe dei principali servizi pubblici; il blocco dell’aumento degli stipendi pubblici (nonostante la forte inflazione che caratterizzava gli anni Settanta); il ridimensionamento di molti servizi pubblici e quindi dell’occupazione. I sindacati dei dipendenti pubblici, inoltre, s’impegnarono a investire i proventi dei fondi pensione degli associati in titoli pubblici emessi dalla città attraverso la Municipal Assistance Corporation, un’agenzia ad hoc costituita per raccogliere il risparmio dei residenti e destinata a sostenere il bilancio della città.[25]
Per quanto riguarda la California, si tratta dello Stato che ha attirato la maggior attenzione, anche con riferimento ai recenti eventi che hanno coinvolto i bilanci pubblici di alcuni Stati membri dell’Eurozona, ma è bene ricordare che l’incidenza del debito pubblico sul PIL californiano è stato pari, nel 2010, al 20%, e che attualmente ci sono dieci stati americani che presentano un’incidenza del debito pubblico statale e locale , sul PIL statale, superiore a quello della California.[26]
Quest’ultimo, malgrado sia uno degli Stati con vincoli stringenti ai fini del rispetto del pareggio di bilancio,[27] è da tempo sotto osservazione da parte della letteratura specializzata che si occupa del rapporto tra le istituzioni fiscali ed il costo del ricorso all’indebitamento come mezzo per finanziare la spesa pubblica. Nel caso specifico, viene ricordata una legge (la Proposition 13), adottata nel 1978 che, richiedendo una maggioranza qualificata dei due terzi in entrambi i rami dell’assemblea legislativa per introdurre nuove imposte, indebolisce la possibilità per lo Stato di far fronte, con sufficiente flessibilità, ad improvvisi problemi di solvibilità. Le difficoltà finanziarie in cui versa lo Stato californiano hanno indotto il governo locale ad avviare una drastica politica di risanamento delle finanze pubbliche e ad adottare misure che hanno di fatto formalizzato il quasi default dello Stato. Il bilancio relativo all’esercizio 20092010 ha introdotto tagli alla spesa pubblica per circa 15 miliardi di dollari e l’aumento di imposte per altri 12,8 miliardi, vale a dire misure complessive pari all’1,5% del PIL della California, con l’obiettivo di tornare in pareggio.[28] Nel frattempo, il governo, in mancanza di fondi, ha dovuto prendere la decisione di emettere dei “buoni” da cedere ai fornitori di servizi ed ai dipendenti pubblici. Inoltre, sollecitando la concessione di fondi pubblici federali per 6,9 miliardi di dollari, in aggiunta ai trasferimenti federali che, al pari degli altri Stati, riceve annualmente,[29] lo Stato californiano ha riaperto il dibattito sulla necessità di un intervento federale a sostegno degli Stati con difficoltà di bilancio, ma senza che, fino ad ora, siano state adottate misure federali aggiuntive.[30]
 
2. Il ruolo del mercato nelle unioni federali e nell’Unione europea: i differenziali (spreads) nei tassi di interesse sui titoli pubblici.
La dottrina della disciplina di mercato sostiene che i mercati finanziari ampliano i premi di rischio sul tasso d’interesse dei titoli pubblici con l’aumentare del debito e del deficit pubblico, penalizzando i governi per l’assenza di disciplina fiscale e costringendoli per questa via a un maggiore rigore finanziario. All’interno di un’unione federale, dal canto loro, i premi di rischio che il mercato fa pagare ai governi locali sono normalmente più elevati, rispetto ai tassi che spunta il governo centrale, per tre ragioni. In primo luogo, per il fatto che la capacità fiscale dei governi degli Stati membri è tipicamente più ridotta di quella del governo federale, in quanto a quest’ultimo affluiscono i proventi delle imposte a maggior gettito, come l’imposta sui redditi o l’imposta sul valore aggiunto; in secondo luogo, con l’eccezione delle imposte sui beni immobili, i governi locali devono far fronte ad una maggior mobilità della base imponibile, il che riduce la loro capacità di conseguire un gettito fiscale aggiuntivo in caso di crisi fiscale; in terzo luogo, il governo federale può, in linea di principio, utilizzare la politica monetaria per ridurre, attraverso l’inflazione monetaria, l’eccessivo debito pubblico in valuta nazionale, una politica preclusa ai governi locali.
Pertanto, anche se i casi di crisi finanziaria esaminati nel paragrafo precedente evidenziano che all’interno di una federazione il dibattito pubblico sull’eventualità di un default di uno Stato membro si manifesta ben prima che l’incidenza sul PIL del debito pubblico e del deficit raggiunga i livelli dei paesi dell’Unione europea, la disciplina esercitata dal mercato, nell’indurre i governi a perseguire una politica delle finanze sane, dovrebbe avere anch’essaun ruolo significativo. L’indicatore generalmente utilizzato per valutare se ed in che misura il mercato esercita questo ruolo è il valore che assumono i differenziali (spreads) tra i tassi di interesse dei titoli pubblici emessi dai governi locali ed i tassi di interesse sui titoli pubblici di durata analoga emessi dal governo federale cui essi fanno capo.[31] Alla luce della recente e drammatica situazione finanziaria che sta attraversando l’Eurozona, può dunque essere utile far riferimento, sia pure brevemente, ai valori raggiunti da tali differenziali in Australia, Germania e Stati Uniti e nell’arco temporale in cui si sono verificate le crisi finanziarie. Per quanto riguarda il primo di questi paesi, l’Australia, la rilevazione dei differenziali nei tassi di interesse sui bonds emessi dai diversi livelli di governo è relativa al periodo in cui il Loan Council ha visto ridursi il suo ruolo a favore di una politica di autonomo indebitamento sul mercato dei capitali da parte degli Stati federati, ed è anche quello in cui si sono manifestate tensioni nei rapporti tra i diversi livelli di governo della federazione australiana. Si tratta del periodo che va dal 1989 al 1997. In questo arco di tempo il differenziale nei tassi sui bonds emessi dagli Stati rispetto ai tassi su titoli emessi dal governo del Commonwealth, non ha mai superato la punta massima di 129 punti base, toccata dai titoli emessi dal governo della Tasmania nel 1991 e non, come sarebbe stato logico attendersi, date le difficoltà finanziarie in cui si trovava, dai titoli emessi dallo Stato del Victoria.[32] I tassi dei bonds di quest’ultimo hanno raggiunto, sempre nel 1991, i 105 punti base in più rispetto ai bonds federali.
Nel caso della Germania, l’evoluzione dei differenziali nei tassi di interesse sui titoli pubblici emessi dai Länder di Brema, della Saar e di Berlino, rispetto ai tassi dei titoli pubblici del governo federale, nel momento in cui si sono trovati in difficoltà finanziarie ed hanno sollecitato un intervento federale a loro sostegno con un ricorso alla Corte costituzionale, è stato analizzato dalla Bundesbank e dalla Banca centrale europea.[33] Secondo uno studio di quest’ultima, che ha preso in considerazione un arco temporale che va dal 1991 al 2005, abbracciando quindi solo parte degli anni in cui i Länder di Brema e della Saar si sono trovati in difficoltà finanziaria, il differenziale del tasso di interesse dei bonds da loro emessi, rispetto al tasso di interesse dei bonds federali, è stato mediamente pari a 23 punti base e non ha mai superato i 92 punti base. Nel caso di Berlino, in cui la Corte costituzionale, nel 2006, si è pronunciata contro un intervento federale straordinario a favore della città-Stato, nel periodo precedente la sentenza il differenziale dei tassi sui titoli locali rispetto a quelli dei titoli federali non ha superato i 22 punti base. Riguardo quest’ultima sentenza, secondo lo studio della Bundesbank, la Corte, non avendo escluso la possibilità di un futuro bailout, non ha sostanzialmente modificato le aspettative del mercato per quanto riguarda la possibilità che, in caso di difficoltà finanziarie, il governo federale intervenga a favore di un Land.[34] Come è stato fatto notare, questo non esclude, però, che la sentenza abbia modificato o modifichi il premio di rischio degli altri Stati tedeschi.[35]
Infine, con riferimento al bailout che ha interessato la città di New York ed alla crisi finanziaria in cui versa attualmente lo Stato della California, si può ricordare che quando la città americana si è trovata all’apice della crisi finanziaria, il tasso d’interesse dei municipal bonds quotava 100 punti base in più del tasso d’interesse dei bonds del Tesoro americano.[36] Per quanto riguarda, invece, la California, per analizzare come il mercato reagisce nel caso di difficoltà finanziarie di uno stato, si fa qui ricorso ai dati relativi al costo dei contratti credit default swaps (CDS) a copertura del rischio di insolvenza dello Stato.[37] Pertanto, all’inizio del 2008, quando sono iniziate le difficoltà finanziarie della California, il costo dei CDS valeva lo 0,42%, ossia 42 punti base, mentre alla fine dello stesso anno avevano raggiunto i 500 punti base (5%). Nel giugno del 2011, il costo dei CDS è sceso a circa 160 punti base ed è risalito a 230 nel mese di agosto, evidenziando una volatilità che, pur essendosi sensibilmente ridotta rispetto ai valori raggiunti nel momento più acuto della crisi, è un indice del fatto che la California non è ancora uscita dalle difficoltà finanziarie in cui si trova. Più in generale, un lavoro pubblicato nel 1995 e relativo ai differenziali nei tassi di interesse dei titoli emessi dagli stati americani, rispetto ai titoli pubblici di riferimento — in questo caso emessi dallo stato del New Jersey , nel periodo 1981-1990 e che comprende quindi gli anni di recessione seguiti al 1982, mette in evidenza che il differenziale massimo ha raggiunto i 146 punti base.[38]
Questi valori possono essere utilmente confrontati con quelli raggiunti dagli stessi indici nei paesi dell’Eurozona, per vedere come il mercato reagisce a fronte di crisi finanziarie statali in un altro contesto istituzionale, quello europeo, dove sono assenti sia un governo federale che la solidarietà fiscale tra gli Stati membri. In questo caso, lo studio della BCE prima ricordato ha preso in considerazione i differenziali nei tassi d’interesse di titoli di durata decennale emessi dai governi dell’Eurozona, rispetto ai tassi sui titoli tedeschi di durata analoga, nel periodo 1991-2005, quindi prima dell’attuale crisi. Le conclusioni sono che gli spreads dei diversi paesi europei, erano dell’ordine dei 20-30 punti base all’inizio dell’unione monetaria — un differenziale simile a quello che mediamente vige all’interno dell’unione federale tedesca tra i bond federali e quelli dei Länder — e riflettevano la sostanziale fiducia dei mercati riguardo alla solvibilità di tutti i governi dell’Eurozona. Essi hanno cominciato a lievitare con la crisi finanziaria del 2008. Ad esempio, all’inizio del mese di novembre 2011, i differenziali dei tassi dei bonds greci, portoghesi, irlandesi, spagnoli e italiani, rispetto ai tassi dei bonds tedeschi, hanno raggiunto, rispettivamente, i 2.500, 1.000, 638 (dopo aver toccato il massimo di quasi 1.200 punti base nel luglio 2011), 375 e 458 punti base.[39] Si tratta, quindi, di valori che i titoli pubblici degli Stati membri delle unioni federali visti prima non hanno mai raggiunto e che si configurano come un vero e proprio costo della non-Europa.
 
3. Il ruolo delle istituzioni nella gestione dei problemi d’insolvenza: le unioni federali.
Gli studi della Banca centrale europea cui si è fatto sopra riferimento, e che mettono a confronto quanto accade all’interno dell’Unione europea e all’interno dell’unione federale tedesca sono stati in seguito estesi fino al 2009, comprendendo la fase della crisi finanziaria successiva al fallimento della Lehman Brothers.[40] Essi, partendo dalla constatazione che vi sono dei differenziali nei tassi d’interesse sui titoli pubblici emessi dai diversi livelli di governo, si chiedono quali possano essere le variabili economiche che meglio spiegano tali differenziali in assoluto e la loro evoluzione nel tempo. Gli studi prendono in considerazione tre tipi di premio di rischio: a) il rischio del fallimento del governo emittente, generalmente connesso all’andamento del deficit e del debito pubblico; b) il grado di liquidità dei bonds emessi da un governo e generalmente legato alla dimensione del mercato dei titoli emessi dall’emittente; c) l’avversione al rischio sul mercato internazionale dei bonds. La conclusione cui arrivano i due studi conferma che i differenziali nei tassi d’interesse sono sensibili alla dimensione del deficit e del debito pubblico e che questo vale soprattutto per quanto riguarda i differenziali dei tassi d’interesse dei titoli emessi dai governi nazionali europei, ma solo in minor misura per i governi locali dell’unione federale tedesca. Infatti, se la sensibilità del mercato nei confronti del deficit e del debito pubblico, per quanto riguarda gli indicatori fiscali dei governi nazionali, si è moltiplicata, rispettivamente, di 3-4 e 7-8 volte dopo il fallimento della banca americana, essa si è modificata di poco all’interno dell’unione federale tedesca. Una delle ragioni di questa difformità viene individuata nel ruolo svolto da scelte politico-istituzionali, come possono essere, da un lato, la politica della perequazione finanziaria tra i Länder e, dall’altro, le sentenze della Corte costituzionale tedesca, soprattutto quella del 1992 a favore di Brema e della Saar.
In base ai casi di difficoltà finanziarie in cui si sono trovati gli Stati membri delle unioni federali esaminate, si può dunque dire che vi sono, sostanzialmente, due modelli di politiche d’intervento che sono all’origine di differenziali nei tassi d’interesse di diversa ampiezza: quello americano, dove i differenziali nei tassi hanno raggiunto i livelli più elevati e pari a 146 punti base e il costo dei CDS ha raggiunto i 500 punti base e quello tedesco, dove i differenziali non hanno mai superato i 92 punti base. Nel primo caso, fin dalla crisi finanziaria che ha coinvolto alcuni Stati della federazione americana nel 1840, il governo americano si astiene dall’intervenire, così come i governi degli Stati si astengono dall’intervenire quando a trovarsi in difficoltà finanziaria sono le città americane.[41] In quest’ultimo caso, l’esempio più noto, e spesso citato dalla letteratura sull’argomento per l’ammontare dei debiti accumulati, è quello della Orange County, contea della California con circa tre milioni di abitanti e fallita nel 1994, mentre quello più recente, in quanto risale al novembre 2011, è quello della Jefferson County, contea dell’Alabama con oltre seicentomila abitanti e che, per l’ammontare dei debiti accumulati, pari a 4 miliardi di dollari, è ora il più importante fallimento riguardante un ente locale americano.[42] Nei due casi, i rispettivi governi statali non sono intervenuti. Dal canto loro, gli Stati americani, in seguito all’esperienza della prima metà del XIX secolo, hanno progressivamente introdotto vincoli legislativi o costituzionali volti a perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio e del contenimento dell’indebitamento statale. E’ per questa ragione che, come si è visto, deficit e debito pubblico degli Stati americani non arrivano ad eguagliare le dimensioni che raggiungono negli Stati europei. Infatti, non appena le finanze di uno Stato violano l’obiettivo del pareggio, il coinvolgimento dell’opinione pubblica e della classe politica statale americana, nella discussione sulle misure da intraprendere per superare la crisi, è immediato. La situazione di difficoltà può anche assumere dimensioni drammatiche, come nel caso della California, il cui governo, per far fronte alla crisi di liquidità e quindi in una situazione di quasi-default, ha dovuto far ricorso all’emissione di “voucher” per pagare fornitori e dipendenti pubblici. Questo non ha comunque comportato alcun intervento federale straordinario, né ha messo in discussione l’unione monetaria americana, né provocato la secessione della California dall’unione monetaria.
Il secondo modello è quello tedesco. Come si è visto, in un caso la Corte costituzionale tedesca ha sancito il principio della solidarietà del governo federale nei confronti degli Stati federati in difficoltà finanziarie. Nell’altro, pur respingendo la richiesta di aiuti della città-Stato di Berlino, ha comunque confermato la legittimità di aiuti federali supplementari di ultima ratio a favore di Länder che si trovino in difficoltà finanziarie irreversibili.[43] Va però aggiunto che negli anni successivi a questa sentenza contraria all’intervento federale a favore di Berlino, la Germania ha modificato la propria costituzione e questo, implicitamente, sembra costituire la conferma che le regole del mercato, in una situazione in cui coesistono solidarietà tra i vari livelli di governo e autonomia nella politica di indebitamento, svolgono un ruolo perverso, nel senso che incentivano la politica del moral hazard e quindi eccessivi livelli di indebitamento. La riforma del 2009 prevede pertanto che a partire dal 2020 i Länder, in condizioni economiche normali, non possano più chiudere il bilancio in deficit ed a partire dal 2016 il governo federale tedesco potrà incorrere in un deficit annuale massimo strutturale (al netto, cioè, degli effetti, negativi o positivi, che il ciclo economico può avere sul bilancio) pari allo 0,35% del PIL, vale a dire un livello decisamente inferiore a quello dell’analogo parametro previsto dal Trattato di Maastricht. Pertanto, da quella data, l’unico livello della federazione tedesca che, in linea di principio, avrà accesso al mercato dei capitali sarà il governo federale. Ciò significa che, a giudizio dell’unione federale tedesca, la difesa del modello dell’economia sociale di mercato e del meccanismo della perequazione finanziaria tra i Länder può realizzarsi solo nel contesto di finanze pubbliche equilibrate a tutti i livelli di governo e che, tendenzialmente, vi debba essere un unico livello che ricorre alla politica di indebitamento, ossia quello federale.
Il meccanismo della disciplina di mercato, rafforzato da quanto previsto dal Patto di stabilità e crescita in merito ai limiti massimi di deficit e indebitamento pubblico e dalla clausola di no-bailout di cui all’art. 125.1 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, avvicinando il modello dell’UE a quello degli USA, dovrebbe valere anche per l’Eurozona, dove i governi nazionali non hanno più la possibilità di monetizzare o ridurre il debito attraverso l’inflazione. Pertanto, in caso di deficit o debito pubblico eccessivi, ci si sarebbe potuto aspettare differenziali, nei tassi d’interesse sui titoli emessi dai governi europei meno virtuosi, di ampiezza paragonabile a quelli riscontrabili nell’esperienza americana, unitamente all’adozione di tempestive misure di risanamento. Così non è stato, poiché già nel 2003 Francia e Germania, chiedendo ed ottenendo la possibilità di superare il tetto del 3% del deficit pubblico e l’allungamento dei tempi di rientro, avevano messo in discussione la credibilità del Patto di stabilità e crescita. Il livello esorbitante raggiunto dagli spreads dei titoli pubblici dei paesi europei con gravi problemi finanziari fa quindi ritenere che nel caso europeo, oltre ai tre tipi di rischio che la letteratura sull’argomento prende in considerazione, esiste anche un altro tipo di premio di rischio che il mercato fa pagare ai titoli pubblici da loro emessi: il fallimento dell’unione monetaria.
 
4. Un’istituzione per la politica del rigore ed una per lo sviluppo sostenibile dei paesi dell’Eurozona: idee per una discussione.
Il modello americano e quello tedesco hanno, però, una caratteristica in comune e che li differenzia dall’UE: il quadro federale, che ha consentito al diritto ed alla politica, e non al mercato, di avere l’ultima parola in merito alla gestione delle crisi finanziarie in cui si possono venire a trovare gli Stati membri dell’unione. Si è trattato di situazioni che hanno certamente visto momenti di tensione anche forti tra i diversi livelli di governo e che, in alcuni casi, sono stati all’origine della sostituzione dei governi responsabili delle difficoltà finanziarie in cui gli Stati si sono trovati. Ma il tutto si è svolto nel rispetto del diritto e senza che si siano verificati casi di secessione dall’unione federale di appartenenza, o il fallimento dell’unione monetaria. Il comportamento del mercato è dunque fortemente influenzato dal quadro istituzionale in cui si trova ad operare, e l’attuale quadro europeo è inadeguato a gestire, con costi accettabili, i casi di crisi fiscale in cui si trovano gli Stati europei.
In seguito alla crisi finanziaria che ha travolto la Grecia, un recente studio si è interrogato sulle ragioni per cui l’euro si trovi più in difficoltà del dollaro sui mercati finanziari, nonostante l’economia americana presenti indicatori del suo stato di salute certamente peggiori di quelli dell’Unione europea. Infatti, l’incidenza del deficit pubblico e dell’indebitamento pubblico lordo sul PIL nel 2010 è pari, rispettivamente, al 6,6% ed all’84,7% per l’UE e al 10,0% ed al 116,0% per gli Stati Uniti.[44] Malgrado una situazione finanziaria più solida, da quando la crisi finanziaria ha coinvolto l’Unione europea, non passa però giorno senza che venga messa in dubbio la capacità di sopravvivenza dell’euro, mentre la stessa domanda non viene mai posta con riferimento al dollaro. Anzi, il debito sovrano di uno Stato federale, come nel caso degli Stati Uniti, può raggiungere una dimensione prossima al default, mettendo in discussione la solvibilità dell’emittente, ma non l’unione monetaria.
Il fatto è che gli USA sono un’unione fiscale cui, da parte degli Stati membri della federazione, corrispondono vincoli, di carattere costituzionale o legislativo, che funzionano rispetto al perseguimento di politiche di bilancio lassiste. Infatti, solo il 17% del debito complessivo fa capo agli Stati membri, mentre il rimanente 83% fa capo al governo federale. L’Unione europea, invece, non è un’unione fiscale e quindi non esiste un vincolo europeo di solidarietà strutturale e gli Stati dell’Eurozona mancano di vincoli costituzionali efficaci alla conduzione di politiche di bilancio virtuose, anche se la recente crisi ha indotto alcuni governi europei, come quello spagnolo, francese ed italiano, a procedere in questa direzione.
Il caso europeo è diverso da quello americano anche per un’altra ragione. L’Europa è un’unione monetaria in cui il livello di governo intermedio tra quello federale e quello regionale, cioè il livello nazionale, si caratterizza per un’incidenza del debito pubblico sul PIL più elevato che non nel caso degli altri livelli di governo. Il bilancio dell’Unione europea ha una dimensione pari all’1,14% del PIL e deve chiudere in pareggio ed è difficile che, almeno per un lungo periodo di tempo e forse mai, l’incidenza del bilancio europeo sul PIL dell’Unione superi la cifra indicata a suo tempo dal Rapporto McDougall che, per il periodo pre-federale, parlava di un’incidenza pari al 2-2,5% del PIL e nel periodo federale poteva arrivare al 5-7% del PIL (7-10% nel caso in cui fosse compresa la difesa).[45] L’Unione europea, in risposta alla crisi attuale, invece di aumentare il bilancio europeo, introducendo un’imposta europea, ha attivato misure e promosso istituzioni comunitarie ad hoc, come la Greek Loan Facility, in base alla quale la Commissione europea si limita a coordinare l’erogazione alla Grecia di finanziamenti bilaterali e l’intervento dello European Financial Stabilisation Mechanism (EFSM), istituito nel maggio 2010 dal Consiglio europeo. Sono stati creati anche nuovi strumenti intergovernativi, come lo European Financial Stability Facility (EFSF), promosso solo dai paesi membri dell’Eurozona e che verrà trasformato in un’istituzione permanente, lo European Stability Mechanism (ESM), a partire dal luglio 2012,[46] con un trattato a parte. Queste misure non sono però servite a rassicurare i mercati, mentre comportano sicuramente significativi esborsi finanziari per gli Stati membri dell’Eurozona. Complessivamente sono stati stanziati 172 miliardi di euro di prestiti europei e che saranno erogati nell’arco di tre anni, con un esborso medio di circa 57 miliardi di euro l’anno. Si potrebbe quindi far notare che le risorse finanziarie che, a vario titolo, l’Unione europea mobilita per il finanziamento delle sue politiche, vale a dire le risorse che vengono devolute al bilancio europeo, quelle che vengono raccolte annualmente dalla BEI e quelle che nel periodo 2010-2013 verranno attivate a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo a seguito della crisi, ammontano globalmente a circa il 2,1% del PIL della Unione europea, cioè una quota prossima a quella indicata dal Rapporto McDougall.[47] A seguito della crisi finanziaria in corso, i paesi dell’Eurozona sono dunque sostanzialmente entrati nella fase prefederale. Ma le misure che fino ad ora sono state adottate dalle istituzioni europee, come dimostra quotidianamente l’evoluzione dei differenziali nei tassi di interesse, sono state bocciate dal mercato, perché invece di essere state proposte come misure di transizione verso un quadro federale, si preoccupano di non mettere in discussione il quadro intergovernativo.
Da questo punto di vista, non sembra convincente neppure l’idea di istituire un’agenzia europea del debito che si faccia carico del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona nella misura del 60 o del 40%, a seconda delle proposte, del PIL europeo.[48] Il tasso al quale l’agenzia raccoglierebbe i capitali sul mercato, come molti sostengono, sarebbe verosimilmente dato dalla media ponderata del costo del debito dei paesi partecipanti. Quindi, chi oggi ha un elevato merito di credito, la Germania, pagherebbe tassi d’interesse più alti e chi ha un basso merito di credito (tutti gli altri paesi, sia pure in misura diversa) beneficerà di tassi più bassi, dando il via ad una redistribuzione di ricchezza che la Germania difficilmente potrebbe accettare. Ma soprattutto la parziale “comunitarizzazione” del debito avrebbe l’effetto di mettere al sicuro la parte di debito “comunitarizzata”, senza che vengano date le necessarie garanzie che la parte eccedente venga ridimensionata.
È quindi necessario che i paesi dell’Eurozona riflettano su istituzioni specifiche e compatibili con il quadro dell’Unione europea e con il fatto che la maggior parte delle entrate fiscali e della spesa pubblica continuerà a far capo agli Stati nazionali; istituzioni che però, innanzitutto, vadano nella direzione di una maggior integrazione europea. Ad esempio, come nell’esperienza australiana, si potrebbe pensare ad un’Agenzia del debito che agisca come il Loan Council e abbia la competenza esclusiva di contrarre prestiti per conto degli Stati membri dell’Eurozona e distribuisca i fondi raccolti agli Stati in funzione del loro fabbisogno e, per quelli il cui debito eccede il 60%, in funzione della presentazione di un credibile piano di rientro nel tempo. La politica d’indebitamento sarebbe decisa nel quadro di una procedura di bilancio che coinvolgerebbe il livello europeo e quello nazionale e sarebbe adottata con un voto in seduta congiunta dei parlamenti nazionali dell’Eurozona e dei loro membri del parlamento europeo. La proposta di ricorrere al debito dovrebbe, però, prevedere anche il voto del Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell’Eurozona, il quale deliberebbe con la doppia maggioranza degli Stati e della popolazione rappresentata. La garanzia del debito contratto si dovrebbe fondare sul bilancio degli Stati dell’eurozona e l’istituzione cui potrebbe venire affidata questa responsabilità potrebbe essere l’ESM, al quale competerebbe, di fatto, la responsabilità dell’attuazione della politica del rigore e che, dato il ruolo che gli viene assegnato, potrebbe evolvere nel Tesoro europeo.
A fine 2011 sono intervenuti alcuni fatti nuovi. La Commissione europea ha pubblicato un libro verde con il quale viene proposta l’emissione di debito europeo, gli stability bonds e, soprattutto, l’8 e 9 dicembre il Consiglio europeo che si è riunito a Bruxelles ha dovuto adottare severe misure di risanamento delle finanze pubbliche, per far fronte alla crisi del debito sovrano di alcuni paesi dell’Eurozona. La Commissione prevede l’emissione di debito europeo in base a tre opzioni: la sostituzione totale del debito nazionale con gli stability bonds, con garanzia solidale dei paesi partecipanti; la sostituzione parziale del debito nazionale con gli stability bonds, con garanzia solidale; la sostituzione parziale del debito nazionale, con garanzia disgiunta.[49] A Bruxelles, i Capi di Stato e di governo hanno invece convenuto di prevedere un deficit strutturale annuo (al netto degli effetti del ciclo economico sul bilancio pubblico) pari allo 0,5% del PIL, sanzioni automatiche per chi supera il 3% del deficit e, per quanto riguarda i paesi con un debito superiore al 60% del PIL, la sua riduzione nella misura di 1/20 l’anno, fino al rispetto del limite massimo previsto dal Trattato di Maastricht.[50] Queste misure dovranno essere recepite dai singoli Stati con norme costituzionali o atti legislativi aventi un rilievo equivalente.
Come si possono dunque eventualmente combinare le proposte della Commissione europea sugli stability bonds, le decisioni del Consiglio europeo e la proposta contenuta in questo lavoro, che prevede l’emissione di debito pubblico unicamente in capo ad un’istituzione europea? Intanto si può osservare che la prima delle opzioni proposte dalla Commissione è simile a quella contenuta nel presente lavoro, anche se vanno fatte alcune precisazioni. Assumendo come punto di riferimento le decisioni di Bruxelles, il (nuovo) debito comune annuo sarà pari, al massimo, allo 0,5% del PIL. Se uno Stato, per effetto del ciclo economico sfavorevole, dovesse incorrere nell’emissione di debito in eccesso rispetto a questa percentuale, per la parte eccedente esso dovrà provvedere, similmente a quanto previsto dalla Germania con la revisione costituzionale del 2009, all’istituzione di un fondo di ammortamento del debito: a livello europeo non vi potrà quindi essere compensazione tra surplus e deficit di bilancio nazionali. Rimane il problema del debito esistente, che continuerà a restare in circolazione con la garanzia dei soli Stati nazionali e che ha scadenze distinte per ciascun paese e il cui volume di rifinanziamento può variare da un anno all’altro. A questo proposito bisogna distinguere tra gli Stati che hanno un debito inferiore o pari al 60% del PIL e gli Stati che hanno un debito superiore al 60% del PIL. Nel primo caso l’emissione di stability bonds sostituirà progressivamente il debito in scadenza fino a quando tutto il debito esistente sarà stato convertito in stability bonds. Nel caso degli Stati che hanno un debito superiore al 60% del PIL, si tratterà di concordare un piano di rientro graduale entro questo limite e nella misura decisa dal Consiglio europeo di dicembre. Nel contesto di questo piano, poiché il volume del debito che, di volta in volta, giungerà a scadenza potrà essere sensibilmente superiore alla quota di debito che dovrà essere annualmente rimborsata, la parte eccedente potrà essere rinnovata sotto forma di stability bonds. Il fatto che l’emissione di stability bonds e la loro successiva allocazione tra gli Stati avvenga da parte di un’unica istituzione europea che decide a maggioranza qualificata (o superqualificata), dovrebbe dare le necessarie garanzie agli stati partecipanti che il piano di rientro del debito sia strettamente sotto controllo.
L’Eurozona non può però fondarsi solo sulla politica del rigore che, se perseguita con la necessaria determinazione, avrebbe un effetto negativo sullo sviluppo, rendendo difficile la riduzione del livello d’indebitamento. Occorre anche prevedere un’istituzione preposta alla politica dello sviluppo sostenibile dell’Eurozona e compatibile con il quadro dell’Unione europea. Il dibattito che si è svolto negli anni scorsi sulle istituzioni fiscali che potrebbero consentire agli Stati di perseguire politiche finanziarie virtuose e quindi sottratte alle inevitabili pressioni corporative e alle logiche di breve periodo legate alle scadenze elettorali, ha portato all’attenzione della riflessione pubblica la possibilità di introdurre delle “Agenzie fiscali indipendenti”.[51] Nel caso dell’Eurozona, ad un’Agenzia che tenga conto dei limiti appena visti potrebbe far capo un’unica imposta, avente un unico obiettivo di lungo termine, e diverso dai tradizionali obiettivi di stabilizzazione, redistribuzione e allocazione affidati alla politica di bilancio. L’imposta potrebbe essere la carbon tax europea e l’obiettivo, come appena detto, quello dello sviluppo sostenibile, non contemplato dalla teoria classica del federalismo fiscale.
Le due proposte appena viste pongono però il problema della loro legittimazione democratica e della loro gestione in una fase di transizione verso un vero e proprio governo federale europeo e il raccordo con il bilancio dell’Unione europea. In linea di massima, si potrebbe inizialmente prevedere che il bilancio dell’ESM e dell’Agenzia fiscale siano inseriti capitoli ad hoc del bilancio europeo, fino a quando non verrà deciso di fonderli nel bilancio dell’UE.[52] In particolare, l’aliquota fiscale da applicare da parte dell’Agenzia e l’impiego delle risorse da essa raccolte — finalizzati al finanziamento di selezionati investimenti d’interesse europeo nel settore delle infrastrutture, della ricerca e sviluppo e delle energie rinnovabili — e quelle raccolte con l’emissione di debito europeo, sarebbero votati dai parlamenti nazionali e dal Parlamento europeo. L’ESM e l’Agenzia riferiranno ogni anno al Parlamento europeo e il voto riguarderà il rispetto del PSCe del piano d’investimenti.


[1] La lettera che il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, ed il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, hanno inviato al governo italiano è un vero e proprio programma di misure di risanamento economico che lascia pochi margini di autonomia alle autorità nazionali.
[2] Cfr. la Dichiarazione del Vertice euro del 26 ottobre 2011.
[3] K.C. Wheare, Il governo federale, Bologna, Il Mulino, 1987.
[4] T. Ter-Minassian, Fiscal federalism in theory and practice, IMF, Washington, 1997; J. Von Hagen, M. Bordignon, M. Dahlberg, B.S. Grewal, P. Petterson, H. Seitz, Subnational Government Bailouts in OECD Countries: Four Case Studies, Research Network Working Paper R-399, Inter-American Development Bank, (November 2000).
[5] B. Grewal, Australian Loan Council: Arrangements and Experience with Bailouts, Research Network Working Paper R-397, Inter-American Development Bank (November 2000).
[6] La procedura decisionale per la distribuzione dei fondi nel caso in cui non si fosse raggiunta l’unanimità avveniva in base ad una formula molto discutibile, in quanto premiava gli Stati meno virtuosi. Essa prevedeva, infatti, che la ripartizione dei fondi raccolti avvenisse riconoscendo al governo federale il 20% delle risorse, mentre il resto veniva ripartito tra gli Stati membri in funzione dei livelli di indebitamento da loro raggiunti nei cinque anni precedenti (Cfr. J.A. Maxwell, “The recent history of the Australian Loan Council”, The Canadian Journal of Economics and Political Science, 6, n. 1 (February 1940), pp. 22-38).
[7] G. Anderson, A. Senna, “Australian Federalism and the Global Economic Crisis of 2008-09”, L’Europe en formation, n. 358 (Winter 2010).
[8] W. Swann, Temporary Guarantee of State borrowings, Media release, March 25, 2009.
[9]A.S. Bevilaqua, State Government Bailouts in Brazil, Research Network Working paper R-441, Inter-American Development Bank, Marzo 2002. Gli Stati membri della federazione brasiliana erano inizialmente dotati di larga autonomia, soprattutto per quanto riguardava i limiti di indebitamento in cui potevano incorrere. Questo potere è stato successivamente limitato con l’introduzione della “Legge sulla responsabilità fiscale”, la cui approvazione si è resa necessaria dopo il susseguirsi di interventi di salvataggio degli Stati incorsi in problemi di solvibilità.
[10] Con riferimento all’esperienza brasiliana, va ricordato che l’istituzione che più ha favorito, o ha tollerato, l’eccessivo indebitamento a livello statale è il Senato, dove sono presenti gli ex-governatori o i senatori che sono destinati a divenire i futuri governatori degli Stati.
[11] Alla fine del 2000, Banespa è stata acquistata da una banca spagnola, mentre Banerj era già stata acquistata, nel 1997, da un’altra banca privata brasiliana.
[12] Si può ricordare che nel 1998, su un debito pubblico complessivo in capo agli Stati pari al 14,3% del loro PIL, il 9,5% era rappresentato da debito statale contratto nei confronti del governo federale (A.S. Bevilaqua, State Government Bailouts in Brazil, op. cit.).
[13]L. Liu, S.B. Webb, Laws for Fiscal Responsibility for Subnational Discipline (International Experience), World Bank, Policy Research Working Paper 5587 (March 2011); S.B. Webb, Fiscal Responsibility Laws for Subnational Discipline: The Latin American Experience, World Bank Policy Research Working Paper 3309 (May 2004).
[14] La fonte dei dati sono il FMI. e L. Liu, S.B. Webb, Laws for Fiscal Responsibility for Subnational Discipline, op. cit.
[15] H. Seitz, Subnational Government Bailouts in Germany, Center for European Integration Studies, 1999.
[16] A. Schulz, G.B. Wolff, “The German Sub-National Government Bond Market: Structure, Determinants of Yield Spreads and Berlin’s Forgone Bailout”, Journal of Economics and Statistics, 1/229 (2009).
[17] I proventi delle imposte sul reddito delle persone fisiche sono devoluti al governo federale (42,5% del gettito), ai Länder (42,5%) e ai Comuni (il residuo 15%). L’imposta sul reddito delle imprese è destinata in misura paritetica al governo federale e a quelli dei Länder.
[18] Attualmente il gettito dell’IVA è devoluto per il 52,5% al governo federale, per il 46,7% ai Länder e per il residuo 2,1% ai Comuni. Infine, il 4,6% del gettito dell’imposta sulle attività locali è devoluto al governo federale, il 16,1% ai Länder e il 79,3% ai Comuni (Cfr. A. De Petris, Il federalismo fiscale nella Repubblica Federale di Germania, 2009, http://www.astrid-online.it).
[19] Va, inoltre, ricordato che il governo del Land ha un forte potere sull’organizzazione dei Comuni che ne fanno parte: nel corso degli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, la riforma organizzativa dei poteri locali ha portato alla riduzione del numero dei Comuni da circa 20.000 a circa 10.000.
[20] H. Seitz, Subnational Government Bailouts in Germany, op. cit..
[21] Z. Darvas, Fiscal Federalism in Crisis: Lessons for Europe from the US, Bruegel Policy Contribution, n. 7/2010.
[22] Nella decisione di non procedere al salvataggio degli Stati in difficoltà finanziaria, un peso non indifferente lo ebbe la constatazione che circa il 70% del loro debito era nelle mani di investitori esteri. Cfr. R.P. Inman, “Transfers and Bailouts: Enforcing Local Fiscal Discipline with Lessons from U.S. Federalism”, in: J. Rodden, G.S. Eskeland, and J. Litvack (a cura di), Fiscal Decentralization and the Challenge of Hard Budget Constraints, Cambridge, Massachusetts, The MIT Press, 2003.
[23] Nel momento in cui si scrive la presente nota, in forte difficoltà finanziaria non è solo la California, ma anche l’Alabama, lo Stato di New York e l’Illinois. A proposito del termine “forte” qui utilizzato, occorre precisare che il significato deve essere visto con riferimento agli standard americani, per i quali un incidenza del debito pubblico statale pari, nel caso della California, al 20% del PIL dello Stato è qualificato dall’opinione pubblica americana come “a monstrous debt”, quando invece in Europa, l’incidenza del debito pubblico sul PIL dell’Italia pari al 120%, fa dire che “il paese è economicamente e finanziariamente solido” (dal discorso pronunciato alla Camera dei deputati ed al Senato dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il 3 agosto 2011). Occorre aggiungere che se nel caso della città di New York ha dovuto intervenire il governo federale, nel caso di altre città con gravi problemi di deficit di bilancio è intervenuto il governo dello Stato cui appartenevano.
[24] Il governo americano non era favorevole ad un intervento a favore della città. Ne costituisce la prova un’espressione attribuita all’allora presidente Gerald Ford dopo un intervento del 29 ottobre 1975 in cui si pronunciò contro un aiuto federale a favore della città di New York (Cfr. S. Roberts, “Infamous ‘Drop Dead’ Was Never Said by Ford”, The New York Times, 28 dicembre 2006).
[25] Cfr., ad esempio, “New York: Last-Minute Bailout of a City on the Brink, Time, 8 dicembre 1975; e G. Morgenson, “Lessons from Bailout of New York”, The New York Times, 11 maggio 2008. Secondo l’articolo del New York Times, il presidente Ford si convinse della necessità di un intervento a favore di New York in seguito alle pressioni che esercitarono su di lui Valéry Giscard d’Estaing ed Helmut Schmidt, allora, rispettivamente, presidente della Repubblica Francese e cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, nell’autunno del 1975 a Rambouillet, nei pressi di Parigi, nel corso del vertice dei paesi più industrializzati che sancì la nascita del G7.
[26] Si tratta di: Alaska, California, Colorado, Kentucky, Massachusetts, Michigan, New York, Pennsylvania, Rhode Island, South Carolina. In particolare, gli Stati che presentano l’incidenza maggiore del debito pubblico sul PIL sono il Kentucky con il 26,2%, seguito dal Massachusetts e da New York con il 25,8% ciascuno. I dati sull’indebitamento pubblico degli Stati americani sono stati tratti da U.S. Census Bureau, State and Local Government Finance, mentre i dati sul prodotto interno lordo sono stati tratti da U.S. Department of Commerce, Bureau of Economic Analysis, National Economic Accounts Data, http://www.bea.gov.
[27] Gli Stati che compongono la federazione americana non adottano una definizione univoca di balanced budget e neppure una procedura uniforme per raggiungere questo obiettivo. Generalmente, quando si parla di balanced budget ci si riferisce al bilancio delle spese correnti, in quanto il bilancio delle spese in conto capitale è una sezione spesso distinta del bilancio complessivo che non concorre al saldo di bilancio dello Stato. Inoltre, nella maggior parte degli Stati il bilancio viene distinto in “General fund” e “No-general fund” (o “Special fund”, oppure ancora “Capital fund”). Il primo è finanziato da imposte e tasse riscosse localmente, mentre il secondo è finanziato, oltre che da tasse e imposte locali, dai cosiddetti grants-in-aid federali e da rimborsi federali. Grosso modo, il “General fund” riceve, mediamente, il 50-60 % del gettito fiscale complessivo dello Stato. Le tasse sui combustibili, le tasse scolastiche e quelle sanitarie costituiscono il gettito più consistente che finanzia il “No-general fund”. Quest’ultimo fondo è quello che viene finanziato dai fondi federali che affluiscono verso lo Stato in questione e che finanziano tra il 60 ed il 75% del “No-general fund”. Nel caso della California, i fondi federali, in una misura pari all’85%, provengono da tre agenzie federali: il Department of Health and Human Service”, il Department of Education e il Department of Transportation. Questa sezione del bilancio spende praticamente solo quello che riceve. Pertanto, siccome il governo statale non ha margini di manovra su questi capitoli di spesa, è quello che suscita meno interesse da parte dell’opinione pubblica e della classe politica locali (Cfr.NCSL, Ncsl Fiscal Brief: State Balanced Budget Provisions, October 2010).
[28] Le misure hanno comportato il licenziamento di 5.000 dipendenti dello Stato; la riduzione del 14% della retribuzione dei 200.000 dipendenti dello Stato ottenuta con sospensioni forzose dal lavoro; la riduzione dei contributi all’istruzione per 8,6 miliardi di dollari in due anni; la riduzione dei sussidi al sistema carcerario per 1,2 miliardi; la riduzione dei fondi alla sanità per 1,3 miliardi (Cfr. J. Lin, “California Hopes to End IOUs with Budget Agreement”, The Examiner, 21 luglio 2009.
[29] La California, nel 2009, ha ricevuto 60,5 miliardi di dollari dal governo federale, a titolo di trasferimenti federali (intergovernmental grants), confermandosi lo Stato che riceve la quota relativamente maggiore di fondi federali. I trasferimenti finanziano circa un quarto delle spese pubbliche dello Stato.
[30] S. Woo, J. Carlton, “California requests billions from US”, The Wall Street Journal, 9 gennaio 2010.
[31] I differenziali sono misurati in punti base: 100 punti base corrispondono ad un punto percentuale.
[32]J. Lemmen, Managing Government Default Risk in Federal States, London School of Economics, Special Paper n. 116 (August 1999).
[33]K.H. Hepke-Falk, G.B. Wolff, Moral Hazard and Bailout in Fiscal Federations: Evidence for the German Länder, Deutsche Bundesbank, Discussion Paper Series 1: Economic Studies, n. 07/2007; A. Schulz and G.B. Wolff, “The German Sub-National Government Bond Market: Structure, Determinants of Yield Spreads and Berlin’s Forgone Bailout”, Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik, 229/1 (2009); L. Schuknecht, J. von Hagen, G. Wolswijk,Government Risk Premiums in the Bond Market: EMU and Canada, ECB Working Paper Series, n. 879 (March 2008).
[34]K.H. Hepke-Falk, G.B. Wolff, Moral Hazard and Bailout..., op. cit.
[35]A. Schulz and G.B. Wolff, “The German Sub-National Government Bond Market: Structure...”, op. cit.
[36]G. Bishop, D. Damrau, M. Miller, A Market Discipline Can Work in the EC Monetary Union, 1992 and Beyond, Salomon Brothers, (November 1989). La crisi finanziaria della città di New York è importante anche per un’altra ragione: a partire da quella data, i mercati hanno cominciato a prendere in considerazione le condizioni fiscali delle città e degli Stati delle federazioni come indicatori del grado di rischio di default dei governi locali.
[37] Un contratto CDS funziona sostanzialmente come un’assicurazione. Ad esempio, chi ha sottoscritto bonds californiani, per coprirsi dal rischio d’insolvenza del governo della California, può comprare da una banca un CDS di importo pari al valore nominale dei bonds californiani acquistati, pagando un premio annuo pari ad una certa percentuale del valore del CDS. Se il premio annuo è pari all’1%, si può anche dire che il costo del CDS è pari a 100 punti base.
[38] T.A. Bayoumi, M. Goldstein, G. Woglom, “Do Credit Markets Discipline Sovereign Borrowers? Evidence from US States, Journal of Money, Credit and Banking, 27 (1995).
[39] Fonte: Bloomberg.
[40]L. Schuknecht, J. von Hagen, G. Wolswijk,Government Risk Premiums in the Bond Market: EMU and Canada, op. cit.; L. Schuknecht, J. von Hagen, G. Wolswijk, Government Bond Risk Premiums in the EU Revisited: the Impact of the Financial Crisis, ECB Working Paper Series, n. 1152 (February 2010).
[41] Da questo punto di vista, il salvataggio della città di New York nel 1975 e del distretto federale di Washington nel 1997, sono da considerarsi una vera e propria eccezione.
[42] Negli Stati Uniti, la gestione dei fallimenti degli enti locali avviene ricorrendo al “Chapter 9”, introdotto nella legislazione americana negli anni 1934-37 della Grande Depressione.
[43]A. Schulz and G.B. Wolff, “The German Sub-National Government Bond Market: Structure...”, op. cit..
[44] Z. Darvas, Fiscal Federalism in Crisis: Lessons for Europe from the US, Bruegel policy contribution, 2010/7 (2010),
[45]Commission of the European Communities, Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, 1, Bruxelles, aprile 1977.
[46] Decisione presa dal Consiglio europeo dell’8-9 dicembre 2011.
[47] Per la verità, sarebbe forse più logico aggiungere anche il volume dei contributi nazionali che alimentano il Fondo europeo di sviluppo che non fa parte del bilancio europeo, anche se la sua gestione è coordinata dalla Commissione europea. Siccome la sua dotazione annua è pari allo 0,28% del PIL dell’UE, le risorse finanziarie mobilitate per politiche europee ammonterebbero pertanto al 2,4% del PIL dell’UE.
[48] Cfr., ad esempio, J. von Weizsaecker, J. Delpla, The Blue Bond Proposal, Bruegel policy brief, May 2010; J.-C. Juncker, G. Tremonti, “E-Bonds Would End the Crisis”, Financial Times, 5 dicembre 2010.
[49]European Commission, Green Paper on the Feasibility of Introducing Stability Bonds, COM(2011) 818 final.
[50] Consiglio europeo, Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo della zona euro, Bruxelles, 9 dicembre 2011.
[51] Cfr., ad esempio, X. Debrun, D Hauner, M.S. Kumar, “Independent Fiscal Agencies”, Journal of Economic Surveys, n. 1/23 (2009).
[52] Questa è la soluzione che è stata adottata nel 1993 per il Fondo europeo di sviluppo che è fuori dal bilancio dell’UE, in quanto finanziato da contributi nazionali, ma la sua gestione è coordinata dalla Commissione europea.

 

 

 

 

 

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