IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 101

 

 

Federalismo ed emancipazione umana*

 

FRANCESCO ROSSOLILLO

 

 

Introduzione

1. Verità e decisione. 2. Lo scetticismo e la teoria della “fine delle ideologie”. 3. La contraddizione dello scetticismo. 4. Strutturalismo ed ermeneutica. 4. La storia come avvicinamento alla norma.
 

1. Verità e decisione.

Chiunque decida di impegnarsi in politica per un mondo migliore — e non nell’intento esclusivo di illustrare se stesso o di acquisire potere — fa perciò stesso una duplice professione di fede, quale che ne sia il suo grado di consapevolezza. Egli deve credere che la parola “migliore” abbia, almeno virtualmente, lo stesso contenuto semantico per tutti gli uomini, sia per i contemporanei che per coloro che verranno, cioè si applichi a situazioni più vicine di quella attuale ad un modello di convivenza fondato su valori condivisi da tutti. Ciò significa che egli deve credere all’esistenza di valori assoluti.

Ed egli deve insieme credere che questi valori tendano a realizzarsi progressivamente nella storia, perché chi si batte per trasformare le condizioni della convivenza non può pensare che i risultati dei suoi sforzi, nel concatenarsi degli eventi, potranno essere a loro volta la causa di irreversibili involuzioni o ritorni indietro nel cammino dell’emancipazione umana, il che accadrebbe se la storia fosse un succedersi tumultuoso e casuale di eventi contraddittori, cioè fosse priva di senso.

Egli trova quindi sulla strada della sua Selbstverständnis, nel corso della riflessione sulle ragioni del proprio impegno, i problemi connessi della verità — nell’accezione ampia del termine, che denota la natura assoluta dei valori — e del senso della storia. E si deve quindi confrontare con lo scetticismo, che nega l’una e l’altro.

La scelta di vita di quello che Kant chiamava il politico morale[1] implica dunque un’opzione filosofica. Per converso, questa scelta di vita costituisce la sola possibilità di fondare una filosofia capace di sottrarsi alle insidie dello scetticismo. La filosofia è la disciplina che indaga sui fondamenti dell’esperienza (anche se talvolta giunge alla conclusione che non se ne può trovare alcuno): essa è una scienza radicale, perché non dà nulla per presupposto. In quanto ricerca dei fondamenti, manca di fondamenti essa stessa. I dati immediati della coscienza dai quali iniziare la riflessione non esistono. Tutto è mediato, tant’è vero che la filosofia di Husserl, che si propone di costruire sulla immediatezza della Lebenswelt tutto l’edificio del pensiero, arriva paradossalmente a decifrarne la struttura soltanto alla fine, come esito del complicato processo della riduzione trascendentale.[2] È questa la ragione per la quale quello dell’inizio della riflessione filosofica costituisce sempre un problema. La filosofia, in quanto scienza radicale, è una scienza circolare, nella quale il punto di partenza, considerato dall’interno della scienza, è sempre arbitrario, e coincide con il punto d’arrivo.

Il cerchio può quindi essere spezzato soltanto dal di fuori, grazie appunto ad una presa di posizione attiva rispetto al proprio tempo, che determina essa il punto di partenza della riflessione filosofica, evitando in tal modo la caduta nell’arbitrio. Perché, se è vero che il punto di arrivo della riflessione filosofica coincide con il punto di partenza, il carattere arbitrario di quest’ultimo vizia l’intero svolgimento del pensiero.

Resta il fatto che in questo modo l’esigenza della non arbitrarietà, della fondatezza, si trasferisce dalla filosofia alla scelta di vita che ne costituisce il presupposto. Sta qui la radice della coincidenza della ricerca della verità con l’impegno morale, in forza della quale è lecito dire che la verità è insieme la norma della conoscenza e la norma dell’azione (verum et bonum convertuntur). Ed è un dato di fatto che non esiste un giudice, né criteri di giudizio, per decidere quale scelta di vita sia seria, e quale sia casuale e arbitraria, se non il successo, a scadenza più o meno lunga, od anche lunghissima, del progetto nel quale prende forma. Ma poiché il successo giunge solo alla fine, e può essere colto da altri, la sola conferma immediata può venire da un confronto rigoroso con la propria coscienza, che consenta di affermare, con Lutero, hier stehe ich,ich kann nicht anders.[3]

Questo scritto è diretto quindi soltanto a coloro che il senso della loro vita lo hanno già trovato in un certo tipo di azione politica, o che in essa inconsapevolmente lo cercano. Si tratta certo di una limitazione. Ma di una limitazione che da una lato è della filosofia in generale, le cui asserzioni non sono mai per tutti, ma sempre soltanto per chi è già disposto a capirle e ad accettarle. E che dall’altro non vuole essere definitiva, perché è legata ad uno stadio dello sviluppo storico nel quale i progetti degli uomini non sono ancora compatibili e la comprensione reciproca non è ancora universale. Il privilegio di chi crede nella verità è quello di poter pensare ad un avvenire nel quale tutti gli steccati saranno stati rimossi e ciascuno potrà rivolgersi idealmente, parlando e scrivendo, all’intero genere umano.
 

2. Lo scetticismo e la teoria della “fine delle ideologie”.

Le filosofie dell’arbitrio e della disinvoltura che prosperano nel nostro tempo mettono in questione, ciascuna a suo modo, l’idea della verità. Peraltro la tentazione suicida dello spirito umano di abbattere il proprio stesso fondamento negando a se stesso ogni legittimità è vecchia come la storia del pensiero. La storia della filosofia ha un curioso andamento a spirale, che la porta a riproporsi sempre gli stessi problemi, anche se a livelli sempre più alti di sofisticazione (non certo di vigore teorico). La problematica centrale dei filosofi che si chiamano “post-moderni”, o che si richiamano allo strutturalismo o all’ermeneutica, è in fondo la stessa dei Sofisti e dei Pirroniani: la relatività della conoscenza, l’impossibilità di darle un fondamento obiettivo, e quindi la legittimazione dell’arbitrio.

In realtà, quando i “post-moderni” affermano che non vi possono essere che verità parziali, essi fanno una asserzione che è o ovvia o aberrante. La verità di una cosa risiede in parte nella cosa stessa, e in parte nei suoi rapporti con il resto della realtà. Ciò significa che la verità compiuta della più piccola parte del reale sta nella totalità. Il vero è il tutto, e il tutto è inconoscibile. La ricerca della verità è un compito infinito, una unendliche Aufgabe; ed ogniqualvolta facciamo un’asserzione esprimiamo necessariamente una verità parziale, che in quanto tale non è mai completamente vera,è essenzialmente provvisoria. Ma questo riconoscimento non ci esime dal dovere di continuare a cercare la verità, di procedere faticosamente verso la comprensione di una totalità che, per essere irraggiungibile, è nondimeno concretamente presente come Aufgabe, e ci impone una norma alla quale dobbiamo attenerci.

Per i “post-moderni”[4] la teoria delle verità parziali significa invece che ogni asserzione ha in se stessa il criterio della propria verità — che dipende dalle convenzioni linguistiche che vengono di volta in volta arbitrariamente adottate — e che quindi non ha alcun senso perseguire, pur senza perdere la consapevolezza del carattere necessariamente parziale della propria impresa, un’unica verità, cioè la comprensione di un unico mondo attraverso un pensiero coerente. Il pensiero, secondo costoro, non è guidato da alcuna norma che sia interna ad esso, e quindi è essenzialmente arbitrario. E il correlato di un pensiero arbitrario è un’infinita moltiplicazione di mondi privi di relazioni l’uno con l’altro.

In politica lo scetticismo contemporaneo ha preso la forma della teoria della fine delle ideologie.[5] Il suo senso profondo è che gli uomini non possono ormai più disporre di criteri per orientare la propria vita nel contesto della realtà storico-sociale, che non siano quello di accettarla così com’è, e di impegnarsi eventualmente soltanto per cambiarne alcuni aspetti marginali, che non ne intacchino la struttura globale. Il grado di degenerazione conservatrice che ha ormai raggiunto il pensiero politico si manifesta in modo particolarmente insidioso nel tentativo di far passare per totalitario lo sforzo di comprendere nelle sue linee essenziali la situazione storico-sociale del proprio tempo e di individuare le strozzature istituzionali sulle quali agire per consentire l’avanzamento del processo di emancipazione del genere umano. La ricerca della verità quindi sarebbe non solo insensata, ma tradirebbe anche la volontà nascosta di imporre con la forza un sistema politico-sociale. Libero sarebbe soltanto chi rinunziasse a pensare.
 

3. La contraddizione dello scetticismo.

Che lo scetticismo si confuti da sé è stato dimostrato fin dai primordi della storia della filosofia. “Se infatti ogni rappresentazione è vera, si dice in un’argomentazione attribuita a Democrito da Sesto Empirico, anche l’asserzione che non ogni rappresentazione è vera, in quanto esista come rappresentazione, è vera, e così l’asserzione che ogni rappresentazione è vera diventa falsa”.[6] Resta il fatto che lo scetticismo rinasce sempre dalle sue ceneri, e rimette in ogni tempo la filosofia di fronte al compito di riscattare l’idea di verità.

Lo scetticismo ha due radici. La prima è di natura storico-sociale, e quindi contingente. Essa è da ricercare nell’atmosfera culturale che si crea in quelle fasi della storia nelle quali il processo di emancipazione umana sembra conoscere uno stallo e quindi vengono a mancare criteri di orientamento dell’azione e del pensiero che si impongano per forza propria alla maggioranza degli uomini. In queste circostanze è forte la tentazione per il filosofo di scambiare la propria incapacità di trovare la strada della verità per l’impossibilità stessa di trovarla.

La seconda risiede in quella che per Eric Weil[7] è l’alternativa essenziale di fronte alla quale si trova l’uomo: quella tra il discorso, cioè la ragione, e la violenza. Lo scetticismo è il tentativo di mettere il discorso al servizio della violenza, ed esso rispunta sempre nella storia della filosofia perché quella della non ragione è una scelta perennemente offerta agli uomini, e contro la quale, in quanto la si consideri come categoria pura, nessun argomento può essere fatto valere perché il criterio della violenza è la violenza stessa.

Ma la violenza combatte la ragione anche sul terreno di quest’ultima, facendo uso del suo strumento — il linguaggio — ma negando il suo criterio — la verità. Ed è un dato di fatto che, se viene negato ogni criterio oggettivo per la determinazione della verità di un’asserzione, o di quell’insieme di credenze e di orientamenti che costituisce una cultura, il solo criterio per stabilire chi ha ragione (e si tratta del problema di tutti coloro che si servono del linguaggio per fare asserzioni) diventa quello di chi prevale sull’altro indipendentemente dal valore di verità del proprio discorso o della propria cultura, cioè di chi ha più potere. Non per nulla le filosofie dello scetticismo fanno così spesso ricorso, per imporsi, al terrorismo culturale. Peraltro esse non possono confessare apertamente il loro carattere strumentale rispetto alla violenza, proprio in quanto si presentano come discorso, ma avanzano, esplicitamente o implicitamente, la pretesa di essere accettate in forza della loro validità intrinseca, cioè della loro verità. Esse rimangono quindi irrimediabilmente prigioniere della contraddizione di Democrito.
 

4. Strutturalismo ed ermeneutica.

Questa contraddizione vizia lo scetticismo in tutte le sue manifestazioni. Per gli strutturalisti, per esempio, le impalcature categoriali — quelle che Foucault[8] chiama episteme — di epoche e di culture diverse costituiscono punti di vista sulla realtà assolutamente irriducibili gli uni agli altri. Qualunque dialogo interculturale è quindi impossibile — o sarebbe comunque una finzione perché ogni cultura interpreterebbe l’altra sulla base del proprio codice, intraducibile in quello dell’interlocutore, e quindi non la capirebbe affatto. Gli strutturalisti sono però costretti a fare un’eccezione per se stessi. Foucault riteneva di possedere la facoltà di comprendere le episteme altrui. E quando Lévy-Strauss studiava le culture degli Indiani d’Amazzonia, imparava le loro lingue e scopriva il significato dei loro rapporti di parentela per trarre dalle sue osservazioni la conseguenza che si trattava di sistemi totalmente eterogenei rispetto alla cultura occidentale, di fatto egli pretendeva di porsi al di sopra delle prime e della seconda e si attribuiva il privilegio esclusivo di capire sia le une che l’altra.

Più insidioso — perché meno ingenuo — è l’approccio di altri indirizzi filosofici, come l’ermeneutica. Questa non si propone di inseguire la verità, ma soltanto di mettersi all’ascolto della tradizione, degli echi che ci giungono dal passato, in un atteggiamento che si propone certo di comprendere, ma nel modo della comprensione estetica. L’ermeneutica assume quindi la contraddizione, si riconosce come filosofia dell’ambiguità e delle molteplici verità e al tempo stesso si considera come una di queste, divenendo così in apparenza difficilmente accessibile a qualunque messa in questione. Resta il fatto che, a qualunque livello di sofisticazione teorica, la contraddizione intrinseca al relativismo non può essere superata. Chi infatti è consapevole di essere calato nella contingenza, o di essere chiuso nell’orizzonte di una cultura, o di un linguaggio, si colloca con ciò stesso in un punto di osservazione che va al di là della contingenza, o di quella cultura, o di quel linguaggio. Chi è completamente all’interno di un orizzonte non lo sa, perché per sapere di essere all’interno di qualcosa bisogna vedere il confine e quindi rendersi conto che c’è qualcosa al di là di esso. Per sapere che ci si muove bisogna riferirsi ad un punto che sta fermo. Ciò non significa evidentemente che si debba sapere che cosa c’è dall’altra parte, o saper descrivere il punto che sta fermo. Ma sapere che c’è qualcosa al di là del confine legittima il compito di dare un contenuto all’idea — da principio soltanto formale — della verità.
 

5. La storia come avvicinamento alla norma.

Che senso ha del resto parlare di comprensione al di fuori dell’orizzonte della verità? La comprensione, in qualunque accezione la si interpreti, è indissociabile dall’idea di una affinità tra chi comprende e chi è compreso, dall’idea di un terreno comune. Questo terreno comune, che deve essere ogni volta faticosamente cercato, ma che si trova soltanto in quanto preesiste, è appunto la verità, come norma la cui validità è indipendente dai punti di vista di chi comprende e di chi è compreso, e che fa da ponte tra le esperienze, i linguaggi e le culture.

Ma l’idea di una norma immanente alla storia implica che la storia stessa sia il processo di realizzazione della norma. La validità di una norma presuppone infatti l’esistenza di un giudice che la trovi e che la applichi. Se la norma è posta come trascendente, il giudice è Dio (attraverso i suoi rappresentanti sulla Terra). Se invece si astrae dalla trascendenza (il che non significa escluderla, ma soltanto riconoscere che si tratta di materia di fede) e insieme si nega che la storia abbia un senso, posto che oggi non vi è accordo sul contenuto della norma, diventa impossibile individuarla, e quindi l’affermazione che essa esiste perde ogni legittimità e si ricade nello scetticismo e nell’arbitrio. Né vale sostenere che ogni uomo ha la norma in sé stesso allo stato virtuale perché, se oggi essa viene formulata in modi diversi, e non vi è ragione per ritenere che domani tutti la formuleranno nello stesso modo, essa rimane inconoscibile, e quindi priva di efficacia. È solo grazie all’idea di senso della storia che la storia stessa diventa legislatore e giudice, in quanto è l’umanità nel suo cammino che scopre e applica — passo dopo passo, e a prezzo di arretramenti e di sacrifici — la norma del vero e del bene attraverso la realizzazione di un accordo universale.

 

Il senso della storia

1. Le due dimensioni della storia. 2. L’interpretazione. 3. Il senso come tensione. 4. Il contesto. 5. Comprensione e accadimento.
 

1. Le due dimensioni della storia.

Chiunque rifletta sul proprio rapporto con il passato non può sottrarsi all’evidenza della constatazione che la storia è un processo obiettivo del quale noi siamo i risultati. Noi siamo fatti dalla storia ed è alla storia che siamo debitori dello stesso linguaggio e degli strumenti concettuali con i quali pensiamo il nostro passato, e che ognuno di noi trova già là quando si affaccia alla vita della ragione. Chi poi sia impegnato in una lotta per trasformare la realtà non può prescindere dall’esigenza che il suo progetto sia storicamente attuale, cioè che gli preesistano nel mondo, come risultati di un processo del tutto indipendente dalla sua azione, le condizioni della sua realizzabilità. Chiunque si illudesse di incidere sulla realtà senza essere consapevole di questa esigenza sarebbe un sognatore, i cui sforzi sarebbero votati al fallimento.

D’altra parte, se è vero che la storia è là, è un oggetto per la nostra comprensione, è anche vero che la storia della storiografia ci testimonia di come si tratti di un oggetto che si trasforma sotto lo sguardo dello storico. L’illusione rankiana di descrivere il passato come esso è stato veramente — wie es eigentlich gewesen — è svanita per sempre. Il passato cosi com’era non può essere liberato dalla dimensione soggettiva dell’interpretazione. Basti ricordare come l’immagine del passato si trasformi radicalmente a seconda della selezione che lo storico opera in funzione dei propri interessi nell’intrico infinitamente vasto e complesso della pur infinitesima parte degli eventi che è accessibile alla conoscenza; o di quella che egli opera tra i documenti in funzione delle proprie personali convinzioni circa la loro credibilità; o dei condizionamenti che gli vengono imposti dalle specializzazioni accademiche (storia politica, economica, sociale, del pensiero, dell’arte, ecc.); o infine della periodizzazione, che tanta influenza esercita sulla prospettiva nella quale vengono collocati gli eventi del passato.[9]

Il rapporto dell’uomo con il suo passato è quindi segnato da una contraddizione profonda: è vero nello stesso tempo che noi siamo fatti dalla storia e che la storia è fatta da noi.
 

2. L’interpretazione.

È la contraddizione attorno alla quale ruota il dibattito sulla natura dell’interpretazione, e che dà luogo a due risposte contrarie, ma entrambe insoddisfacenti.

La prima è la risposta realista, che oggi celebra i suoi fasti soprattutto sul terreno dell’interpretazione musicale. È l’illusione di eseguire la musica antica e barocca wie es eigentlich gewesen, come essa veniva eseguita all’epoca del compositore (con gli stessi strumenti, la stessa acustica, addirittura le stesse imperfezioni). Si tratta di un’illusione che non tiene conto di due fattori essenziali. Il primo è l’impossibilità assoluta di ricostruire oggi non certo gli strumenti musicali, ma il clima culturale e sociale dell’epoca, sopprimendo gli schermi creati da secoli di evoluzione del gusto e dei mezzi di fruizione dell’opera d’arte (non si possono ricreare le corti dei principi tedeschi del ‘700 o degli Hannover, o le occasioni che spingevano il pubblico all’ascolto della musica e condizionavano il suo modo di percepirla, né d’altro lato si possono distruggere i compact discs). Il secondo è il fatto che l’intenzione estetica dell’artista, al di là della letteralità del testo, è sempre eminentemente aperta, è una proposta affidata alla sensibilità di coloro che verranno, e quindi non si lascia rinchiudere nella gabbia di una rigida formula interpretativa.

L’altra risposta è quella che considera il testo come un puro pretesto, e l’interpretazione come un’opera d’arte a titolo originario. Ognuno di noi è stato troppe volte afflitto da oltraggiose rappresentazioni teatrali nelle quali i testi classici vengono “reinventati” dal regista perché sia necessario fare degli esempi. Oggi questo atteggiamento irresponsabile di fronte al testo viene legittimato filosoficamente dai teorici della “decostruzione”, per i quali “la lettura è trasformatrice”.

Per Derrida[10] “ogni segno è segno di un segno”. Il suo rifiuto della “metafisica della presenza” significa che il linguaggio è un “sistema di rinvii”, nel quale ogni significante si riferisce sempre ad un altro significante senza che alla fine si possa giungere a cogliere la presenza di un significato, cioè di ciò che l’autore del testo voleva dire. L’autore scompare. Rimane il testo come puro significante, cioè come successione di segni che, non essendo riferiti ad una presenza, cioè ad una realtà controllabile, si riducono in ultima istanza alla loro materialità, e in quanto tali sono totalmente disponibili nell’offrirsi all’arbitrio dell’interprete. Derrida non nega l’inevitabilità del desiderio della presenza, ma afferma che si tratta di un desiderio che non può essere appagato.

In realtà, perché il termine “interpretazione” ritrovi il suo significato corretto nell’universo di discorso della letteratura, dell’arte, del diritto e della storia occorre che i due poli del significante e del significato ricuperino entrambi la loro legittimità. Ci si deve sottrarre al dilemma tra la posizione di Heidegger,[11] secondo la quale la verità è già là nella sua pienezza e attende soltanto di essere non già interpretata, ma svelata, e la comprensione del passato è soltanto Wiederholung, ripetizione, immedesimazione completa nell’evento, e quella opposta di Derrida che, in nome del segno, “decostruisce” la realtà: due posizioni, si noti bene, che, pur partendo da premesse contrarie, giungono alla stessa conclusione, cioè alla soppressione del senso. Per Heidegger infatti la verità è nella cosa, non nel rapporto tra il discorso e la cosa, è qualcosa che soltanto accade, nella quale quindi non si manifesta una tensione tra significante e significato. La sua identificazione tra filosofia e poesia sottolinea quella che per lui è la rilevanza esclusiva della materialità e della sonorità del segno.[12]
 

3. Il senso come tensione.

Ciò che si tratta di ricuperare è la natura dialettica dell’interpretazione e del senso come tensione verso la verità. È la tensione che si manifesta nell’accezione del verbo semainein usata da Eraclito nel famoso frammento nel quale si dice che l’oracolo di Delfo “non dice né nasconde, ma significa” (oute legei oute kruptei, alla semainei).[13] L’atto del significare non realizza un rapporto statico di adaequatio con l’oggetto. L’adaequatio è un concetto limite, al quale colui che è alla ricerca della verità e, al di là di lui, l’intera storia della cultura, si avvicinano attraverso segni, quelli di cui è fatto il discorso, e dei quali deve far uso la ragione: segni che non dicono né nascondono, ma forniscono segnali, o indizi. Del resto la verità svelata nella sua pienezza, non più mediata, e quindi in parte celata, da segni, è indicibile. Essa è la totalità, e come tale è incompatibile con la determinatezza del segno: omnis determinatio est negatio. Resta il fatto che il discorso si legittima in quanto ricerca della verità. Quella della presenza, della parousia, per ritornare alla terminologia di Derrida, rimane quindi un’esigenza insopprimibile. Ma si tratta dell’esigenza che spiega tutta la storia della filosofia, della scienza, della religione e dell’arte, e che quindi non si può liquidare con leggerezza, dichiarandola semplicemente inappagabile. Se anche è vero che la ricerca della verità è un faticoso processo senza fine, destinato a non ottenere mai il suo scopo nella sua pienezza, deve però esserci un criterio per stabilire se il pellegrino è sulla buona strada, se egli si sta avvicinando o allontanando dalla meta, anche se si sa che questa è irraggiungibile. Il significato ultimo è l’idea della ragione della parousia, della presenza della totalità che si svela senza la mediazione del linguaggio; ma essa si fa rappresentare nel mondo da significati (imperfettamente) determinati, ai quali i segni del linguaggio si riferiscono in modo più o meno fedele, così da legittimare l’attribuzione ad ogni proposizione di un valore di verità. Rimane il fatto che il significato, come rappresentante della totalità, è sempre eccedente rispetto al significante, talché il rapporto del secondo rispetto al primo è, piuttosto che un rapporto di corrispondenza, un presentimento, la cui correttezza deve essere verificata nel futuro. “The rational meaning of every proposition, scrive Peirce, lies in the future”.[14]
 

4. Il contesto.

La marcia di avvicinamento dell’umanità alla verità, per quanti, e per quanto lunghi, siano gli erramenti, i ritorni e le soste nel corso del cammino, è, e non può non essere, progressiva. Questo suo carattere trova un riscontro proprio nella natura dialettica del senso, che si manifesta nella tensione tra il singolo segno (o evento significante) e il contesto in cui è inserito. È un dato di fatto che ogni parte di testo (o di una catena di eventi significanti) può essere compiutamente compresa soltanto alla fine, quando può emergere il rapporto della parte con il tutto, che del senso costituisce una componente essenziale. Il fondatore dell’ermeneutica, Schleiermacher, serive che “Anche nell’ambito di un singolo scritto, il singolo elemento può essere capito soltanto a partire dall’insieme; per questo l’interpretazione vera e propria deve essere preceduta da una lettura rapida, per farsi un’idea dell’insieme”.[15] Ma è altrettanto evidente che il senso del contesto non può essere compreso indipendentemente da quello dei singoli elementi che lo compongono, perché il contesto è formato dai suoi elementi. La lettura rapida preliminare procede pur sempre dall’inizio alla fine, ed è lettura di parole. Le singole parole, o i singoli eventi in un processo dotato di senso, hanno quindi un significato in sé stessi, per quanto esso sia imperfetto, ed aspetti di essere completato attraverso la lettura dell’intero testo, o lo svolgimento dell’intera catena di avvenimenti. Se ciò non accadesse, nulla potrebbe essere capito, perché tutto è insieme contesto rispetto ai suoi elementi, e elemento rispetto ai contesti più vasti in cui è inserito. E il contesto di tutti i contesti è la totalità, che non è mai conclusa e quindi è inconoscibile in quanto tale. Se la comprensione è possibile, ciò accade perché in ogni parola e in ogni avvenimento è presente un presentimento del contesto e quindi, in ultima istanza, un presentimento della totalità.

Riferite alla storia, che nel mondo umano è la totalità nel suo svolgimento, queste considerazioni portano a concludere che la struttura di fondo della storicità è il dialogo tra lo storico e l’avvenimento e, più in generale, tra gli uomini e il loro passato. È vero da un lato che è il contesto, cioè la catena degli avvenimenti successivi, che dà un senso all’evento; ma questo a sua volta non è un oggetto inanimato: esso prefigura, anche se in un modo aperto, il contesto. L’avvenimento e lo storico, il passato e il presente hanno quindi la stessa natura, sono anelli della stessa catena, e tra essi si instaura un dialogo, anche se tra i due poli di questo lo storico è in una situazione di privilegio perché viene dopo e quindi, potendo disporre di un contesto più ampio, può capire l’avvenimento meglio di coloro che ne erano stati i protagonisti (mentre, per contro, i protagonisti hanno il privilegio di vivere più direttamente il carattere aperto dell’evento).
 

5. Comprensione e accadimento.

Non bisogna peraltro dimenticare che, se è vero che lo storico dispone di un segmento più ampio del contesto storico per interpretare l’avvenimento, non per questo esso è fuori dal contesto, come lo potrebbe essere il lettore di un libro. Egli è nel contesto, fa parte della storia, è in situazione. Ciò significa che la sua comprensione del passato non è indipendente dai suoi legami con la realtà, dai suoi interessi e dai suoi progetti. Verstehen ist selber geschehen — comprendere è esso stesso accadere, scrive Gadamer.[16] Così come l’avvenimento, lo storico non è puro intelletto, ma Dasein, e quindi vive in ogni momento in quel modo dell’essere che è insieme attenzione al presente, retenzione del passato e protensione verso il futuro (gewärtigend-behaltendes Gegenwärtigen nella terminologia di Heidegger di Sein und Zeit).[17]

Lo storico quindi non si pone nei confronti dell’avvenimento del passato come soggetto nei confronti dell’oggetto, ma in un rapporto di continuità di senso. L’equivoco che ci si possa mettere rispetto al passato nella posizione della pura intellezione è una conseguenza della divisione del lavoro sociale che, creando la figura dell’accademico, fa nascere l’illusione della possibilità di separare nettamente la teoria dalla prassi, la comprensione del passato dalla progettazione attiva dell’avvenire. In realtà lo storico non è che un organo specializzato dell’intera società, la cui vita ha nel rapporto con il passato una delle sue dimensioni essenziali. Le diverse correnti storiografiche esprimono le diverse configurazioni che il rapporto con il passato assume nella visione delle forze che, confrontandosi, danno corpo alla dialettica sociale. Non per nulla le grandi svolte negli orientamenti prevalenti della storiografia hanno sempre fatto seguito alle grandi trasformazioni politiche della storia reale. Considerare l’avvenimento e la consapevolezza storica come parti della stessa catena significante implica quindi la tendenziale soppressione della distinzione tra teoria e prassi. La verità come norma della conoscenza tende a coincidere con il dovere come norma dell’azione e la ricerca della verità con la marcia del genere umano verso la propria emancipazione. La verità è quindi insieme qualcosa che si cerca e qualcosa che si fa, che si realizza comprendendosi e si comprende realizzandosi, e la storia è il processo attraverso il quale il genere umano, in quanto ne prende coscienza, diviene la propria verità.

 

La verità come accordo

1. La verità come Verstandigung e la community di Peirce. 2. Critica e comprensione. 3. Storicità della verità. 4. La violenza nella storia. 5. Violenza e dialogo.
 

1. La verità come Verstandigung e la community di Peirce.

Ma che significa divenire la propria verità? Fino a che la verità è un ideale inseguito ma non realizzato, essa postula l’esistenza di un oggetto del pensiero, che sia al di fuori di esso e al quale esso debba tentare di adeguarsi. L’adaequatio intellectus et rei è in prima istanza il criterio della verità. Ed è un criterio che mette già in evidenza il fatto che la ricerca della verità è il contrario dell’espressione arbitraria delle proprie personali escogitazioni. Essa pone chi vi si avventura di fronte all’esperienza del confronto aspro con la “cosa”, con una realtà che è al di fuori di noi, che non è certo prodotta da colui che pensa, ma che anzi resiste strenuamente alla comprensione. È l’esperienza dolorosa della fatica del concetto.

D’altra parte, è anche vero che, come il pensiero non esiste che per l’oggetto, così l’oggetto non esiste che nel pensiero, e che lo stesso giudizio sull’adaequatio alla cosa di una asserzione è a sua volta una asserzione, e quindi è essa stessa interna al pensiero. È dunque vero che non esiste alcun criterio oggettivo per determinare di volta in volta la natura dell’oggetto.

Lo stesso problema e la stessa apparente contraddizione si manifestano nel contesto della filosofia morale. È vero infatti che la riflessione etica non può prescindere dalla forma soggettiva della voce della coscienza, o dell’imperativo categorico. Ma l’imperativo categorico deve avere un contenuto oggettivo, senza il quale esso diventa la convinzione di Hegel, l’incontrollabile assicurazione della propria buone fede, che può servire da alibi per qualsiasi nefandezza. E questo contenuto non può essere dato che dai comportamenti della morale pubblica, dalla Sittlichkeit, che l’individuo trova già là nella vita sociale.[18] Peraltro l’autonomia dell’imperativo categorico e la Sittlichkeit sono due termini insieme necessari per dare un senso alla riflessione morale e tra loro contraddittori. È ben vero infatti che la Sittlichkeit è il punto di riferimento essenziale che consente di evitare l’arbitrio nelle proprie scelte di vita e nei propri giudizi morali. Ma è altrettanto vero che essa è il luogo del conformismo e della conservazione. Così come l’autonomia del comando morale è insieme il principio dell’arbitrio e il luogo nel quale diventano autocoscienti le contraddizioni del sistema della Sittlichkeit esistente e si creano le condizioni per il loro superamento.

Ci si deve chiedere a questo punto se quella del superamento dell’opposizione tra soggetto e oggetto nella sfera della conoscenza e in quella dell’azione, attraverso un processo nel quale essi divengano e si riconoscano come la stessa cosa, non debba essere considerata tout court come la unendliche Aufgabe della ricerca della verità.

Ma la soppressione dell’opposizione tra soggetto e oggetto non può avvenire che attraverso la sostituzione, come criterio di verità, all’adaequatio intellectus et rei della Verständigung, cioè dell’accordo tra soggetti-oggetti che, attraverso il dialogo razionale, elaborano una comune visione del mondo e, così facendo, promuovono il processo di emancipazione umana.

Ciò si potrà realizzare, in un futuro indefinito, nella community di Peirce, cioè in un modo di convivenza nel quale le opinioni verranno espresse e valutate liberamente, senza lo schermo del pregiudizio. “In questo modo, scrive Peirce, le cognizioni reali e quelle irreali corrispondono rispettivamente a quelle che la comunità, in un futuro sufficientemente lontano, continuerà sempre a riaffermare; e a quelle che essa, nelle stesse condizioni, negherà permanentemente”.[19]

La realizzazione della verità diventa così un processo attraverso il quale gli uomini creano un mondo dominato dal discorso, nel quale la violenza è soppressa e la libera comunicazione razionale tra gli uomini non è più ostacolata da schermi di alcun tipo. Ma si tratta di un accordo che si realizzerà soltanto alla fine del processo. In questo ideale stadio finale dello sviluppo dell’umanità si realizzerà la completa identificazione della teoria con la prassi perché, evaporato definitivamente l’oggetto, l’umanità avanzerà esclusivamente attraverso la convinzione reciproca e la politica si risolverà nell’arte della retorica e nella paideia della Repubblica di Platone. Acquisterà piena legittimità quello che Vattimo chiama “l’orizzonte retorico della verità”,[20] perché il vero coinciderà con il pithanon, con ciò che è convincente.
 

2. Critica e comprensione.

Bisogna peraltro sottolineare che l’idea dell’accordo tra uomini ragionevoli è un concetto dinamico. L’accordo è qualcosa che si deve ricreare continuamente perché la ricerca della verità è un compito infinito, nel cui perseguimento la frontiera della conoscenza si sposta sempre più avanti. L’ideale della Verständigung non è quindi disgiungibile dall’idea della critica, che anzi è interna al dialogo, ed è il motore del suo avanzamento. D’altro lato la critica non si può disgiungere dalla comprensione. Nel dialogo ogni affermazione riferita ad un’affermazione precedente dell’interlocutore va sempre al di là di essa, e quindi la nega, e così la degrada a oggetto. Ma lo può fare in quanto la comprende, e quindi la conserva. La polemica Habermas-Gadamer[21] sul primato dell’uno o dell’altro polo appare spesso in verità come la contrapposizione di due visioni unilaterali. Gadamer, come tutti gli esponenti dell’ermeneutica, pensa ad una comprensione senza critica perché in fondo non crede alla verità; Habermas, come tutti gli esponenti della scuola di Francoforte, sembra pensare, quantomeno in qualche fase della sua riflessione, ad una critica senza comprensione perché non crede alla storia come storia dell’emergenza della verità, ed è convinto che l’ideale astratto della verità sia visibile fin dall’inizio nella totalità delle proprie determinazioni.

Ora, la verità esiste certo fin dall’inizio, ma soltanto come idea formale, ed è soltanto nella storia che essa si sviluppa estrinsecando progressivamente i propri contenuti concreti. È quindi vero che la critica va fatta mediante l’applicazione ad una affermazione, o ad una situazione, di criteri di giudizio universali. Ma questi, per il fatto di essere universali, non devono cessare di essere storicamente determinati: altrimenti chi esercita la critica non ne capisce l’oggetto perché non ne condivide la storicità. La mediazione tra fenomeno positivo e criterio universale è dunque il processo storico, in quanto tensione verso la realizzazione nella storia di valori universali. Se manca questa mediazione, la comprensione, in assenza di un quadro di riferimento comune, si riduce ad una sorta di simpatia o di curiosità filologica, di trasognato colloquio tra sordi, in cui in realtà nessuno capisce niente perché ognuno ha un suo criterio di verità, o addirittura non ne ha alcuno; e la critica diventa la sterilità della negazione semplice, per la quale ciò che è storico è falso proprio perché è storico, cioè non assoluto, e che si condanna a ripercorrere incessantemente le strade monotone della dialettica negativa anziché stimolare l’oggetto della critica ad evolvere verso la sua idea universale.
 

3. Storicità della verità.

Se la comprensione senza la critica porta allo scetticismo, la critica senza la comprensione porta al dogmatismo e all’intolleranza. Ne è un esempio, in paradossale contrasto con le teorie che egli professa, l’opera di Popper,[22] la superficialità e la disinvoltura con le quali egli crede di liquidare con poche battute grandi figure del pensiero come Platone, Hegel o Marx. Ciò deriva dal fatto che il suo approccio non considera il polo della comprensione, quindi non colloca sé stesso nella storia, ma misura le teorie altrui alla luce di uno standard intemporale che a sua volta è sottratto alla critica e quindi non è falsificabile. Nella filosofia di Popper il negativo — la falsificazione — è enormemente più importante del positivo, della verità. Ma è proprio la ricerca della verità, della quale il procedimento della falsificazione non è che uno strumento metodologico, che fa dell’uomo una creatura diversa dagli animali: pantes anthropoi tou eidenai oregontai physei — tutti gli uomini per natura aspirano al sapere: così inizia la Metafisica di Aristotele.

La falsificazione è soltanto la conseguenza dell’insoddisfazione che trasmettono le insufficienze della verità allo stadio di sviluppo storico al quale essa è giunta. Ma non si dimentichi che la figura di colui che, anziché cercare di capire l’opinione altrui nell’intento di giungere ad un accordo, si preoccupa esclusivamente di individuarne le contraddizioni e le lacune per confutarla è quella del seccatore, non dello scienziato o del filosofo.

La filosofia della falsificazione intesa come struttura-base della conoscenza non storicizza sé stessa, e così facendo non prova simpatia, cioè comprensione, per le teorie altrui, quella simpatia che trova la sua giustificazione nel fatto che entrambe le teorie, quella che giudica e quella che è giudicata, nascono sul comune terreno della storia.

In realtà nessuna teoria è mai veramente falsificata (e in questo Kuhn si avvicina assai più alla verità di Popper).[23] La scienza, e la conoscenza in generale, procedono sostituendo teorie di maggiore capacità esplicativa alle teorie precedenti, che però continuano a mantenere un contenuto di verità, senza il quale le teorie successive non sarebbero mai state elaborate. È questa la ragione per la quale Platone è ancora profondamente vero e attuale. L’uomo si emancipa nel corso della storia proprio perché la verità cresce su sé stessa. Se ogni falsificazione fosse radicale, essa farebbe sempre tabula rasa di tutte le teorie e le osservazioni precedenti sull’argomento, e ogni volta si ricomincerebbe da capo. Le uniche verità tramandateci dagli antichi sarebbero quelle che nessuno si è mai preoccupato di falsificare, anziché essere, come sono, l’aurora di una conoscenza che nella storia successiva è andata arricchendosi e determinandosi. Esse sono quindi ancora delle verità, ed è proprio il loro carattere aurorale — la continuità tra la riflessione degli antichi e la nostra — che fa della loro lettura un’esperienza così profondamente coinvolgente.
 

4. La violenza nella storia.

È un fatto comunque che oggi l’identificazione tra vero e pithanon non esiste. Certo, negare il legame che li unisce significherebbe chiudersi la strada della ricerca del significato della verità. E del resto già Aristotele, pur distinguendo nettamente tra verità ed opinione comune, ammetteva gli stretti nessi esistenti tra l’una e l’altra. Egli considerava validi due tipi di ragionamento: quello dimostrativo (apodeixis), che argomenta a partire dalle prime verità o da affermazioni dedotte da queste, e quello dialettico, che argomenta a partire da opinioni accettate “da tutti, o dai più, o dai saggi e, tra questi, da tutti, o dai più, o dai più noti e che godono di maggior prestigio”.[24] L’opinione condivisa è quindi messa sullo stesso piano della verità.

Ma ciò non toglie che l’identificazione completa tra il vero e il convincente avviene al limite. Se essi fossero completamente identificati “adesso”, sarebbe impossibile sottrarsi a due ordini di contraddizioni. Poiché infatti virtualmente nessuna asserzione è condivisa da tutti, può accadere che i più non coincidano con i saggi, facendo così venir meno il criterio della verità. D’altra parte, il concetto di “saggio” presuppone l’idea di verità che con esso si vuole definire, dando così luogo ad una petizione di principio. Nella realtà di oggi quindi ci può essere convinzione senza verità e verità senza convinzione. Basti ricordare in quale misura, soprattutto in politica, la convinzione è appannaggio della demagogia, il discorso è strumentalizzato dalla violenza, il consenso viene raggiunto attraverso l’ideologia, intesa nel significato di falsa coscienza. Questo tipo di consenso deve quindi essere tenuto accuratamente distinto da quello realizzato attraverso il dialogo disinteressato tra uomini uguali. Solo quest’ultimo, quando diventi generale, si identifica con la verità. Ma la sua realizzazione lies in the future.

Ma che cosa impedisce alla community di Peirce di realizzarsi ora, cioè nel corso della storia anziché alla sua fine? La verità è che la storia non è un testo. Essa ha certo un senso, e sotto questo aspetto è utile paragonare l’interpretazione dei fatti della storia con la lettura di un testo.

Ma essa non ha un unico autore che la crei dall’inizio alla fine sulla base di un’idea, e che la possa riprendere da capo per rielaborarla, esplicitarne i nessi, equilibrarne la composizione, eliminarne le contraddizioni e le oscurità. La storia non è la traduzione in parole, o in figure, o in note di un progetto (anche se lo stesso processo della scrittura di un testo o della creazione artistica non si risolve certamente soltanto nella riproduzione di un modello mentale). Essa è piuttosto il processo dell’emergenza del senso dalla materia, dal caos, o dal non-senso.

Quella dello sviluppo storico quindi non è soltanto la dialettica interna al senso, ma è anche quella del rapporto tra senso e non-senso. Si tratta di una tematica che è stata messa a fuoco soprattutto da Habermas.[25] Egli insiste sul fatto che un’ampia regione dell’agire umano è di natura non comunicativa in quanto si riferisce ad aspetti della realtà che sono impermeabili al dialogo, e che si possono chiamare di volta in volta natura, guerra, dominio, bisogno o follia. Si tratta di quel polo della dialettica del reale che da un lato si oppone alla comunicazione, ma dall’altro ne costituisce il fondamento materiale, come il corpo, con la sua materialità, la sua inerzia e la sua dipendenza dalle leggi della fisiologia è la sede dell’espressione individuale della ragione, che muore con la morte del corpo. Il non-senso quindi non può essere soppresso, perché la sua soppressione comporterebbe la soppressione del senso.

Habermas sottolinea che questi aspetti della realtà devono essere affrontati con procedimenti monologici, come l’azione strumentale, la critica dell’ideologia, l’interazione strategica.

Il processo della progressiva evaporazione dell’oggetto non può quindi essere il processo della sua scomparsa, così come non può essere quello della dematerializzazione del soggetto. Del resto, tutti i tentativi filosofici finora compiuti di ridurre la natura allo spirito sono falliti. Ne consegue che la tecnica come dominio dell’uomo sulla natura, e il suo continuo sviluppo — anche se si deve trattare di uno sviluppo sostenibile — rimane una condizione essenziale dell’avanzamento del processo di emancipazione umana. La comunità di Peirce avrà quindi comunque una base materiale, costituita dal lavoro degli uomini che ne faranno parte e di quello di tutte le generazioni precedenti, e la sua esistenza dipenderà da quella della sua base materiale.

Ma la sostituzione progressiva del dialogo all’approccio monologico alla realtà è perfettamente pensabile allorché quest’ultimo comporta l’esercizio della violenza dell’uomo sull’uomo. Sia la manipolazione (sul versante della conservazione), che la critica dell’ideologia (sul versante del progresso), che il calcolo strategico (su entrambi i versanti) sono legati al permanere della violenza e destinati, con la sua scomparsa, ad essere sostituiti dal dialogo. Rimane quindi legittimo concepire la storia dell’emancipazione del genere umano come un processo — certo infinito, ma destinato a passare per tappe ben determinate — nel quale i bisogni tendono a smaterializzarsi diventando sempre più bisogni culturali, cioè comunicativi, il lavoro si riduce e viene scaricato sulle macchine, la guerra scompare e vengono a mancare, in una società pacifica ed ugualitaria, anche i presupposti della follia.

In questo contesto più limitato, l’ostacolo alla realizzazione della comunità di Peirce è la violenza, e la storia della sua realizzazione è la storia della rimozione della violenza. E, poiché la violenza è impermeabile al dialogo, è inevitabile che il superamento della violenza implichi l’impiego di procedimenti monologici, che appartengono anch’essi alla sfera della violenza. Habermas sottolinea a questo proposito con particolare insistenza la funzione emancipatrice della critica dell’ideologia. Essa differisce dalla critica interna al dialogo perché chi usa l’ideologia per giustificare il proprio dominio è ritenuto inaccessibile alla convinzione. Il dialogo infatti — ritorno su un punto già toccato — non si caratterizza per il fatto che i soggetti dialoganti hanno in partenza la stessa opinione (altrimenti sarebbe inutile chiacchiera) ma per il fatto che essi sono animati da quella che Apel — in opposizione a Nietzsche — chiama Wille zur Wahrheit, cioè dalla sincera disponibilità a giungere ad una posizione comune, e quindi dall’apertura alla critica dell’interlocutore. Dove questa disponibilità e questa apertura mancano, il rapporto diventa un rapporto di potere, e quindi appartiene alla sfera della violenza. Ed è appunto il caso dell’ideologia, nella quale l’errore non è un aspetto dialettico della ricerca della verità, ma è esterno ad essa e la soffoca perché è funzionale al mantenimento del dominio.

Esso non può quindi essere sconfitto dalla convinzione, ma dalla violenza corrosiva della critica: la violenza non può essere abolita che dalla violenza.
 

5. Violenza e dialogo.

Tutto ciò non toglie che, come sarebbe stato fuorviante spingersi troppo oltre nell’identificazione tra storia e testo, così lo sarebbe dimenticare che la storia rimane un processo dotato di senso. Se infatti la critica dell’ideologia non fosse che rapporto tra chi esercita la critica e chi con l’ideologia giustifica il proprio potere, essa sarebbe del tutto inutile, perché non sarebbe accettata dal suo destinatario. La sua funzione emancipatrice dipende invece dal fatto che essa si rivolge a un pubblico aperto al dialogo e alla comprensione, che si tratta di convincere. La Verständigung rimane quindi pur sempre il solo criterio di verifica del valore di verità di un’asserzione o della corrispondenza alla norma di un comportamento. Il fondamento della verità è sempre dialogico, e l’approccio monologico alla realtà è fondato a sua volta sul dialogo, che fornisce comunque la verifica dei suoi risultati.

Ma ciò può accadere perché, nel mondo umano, il germe del dialogo è insito nella violenza fin dall’inizio, cioè perché il senso — anche se embrionalmente — è in tutti i rapporti tra gli uomini. Lo aveva visto Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, quando aveva identificato nel bisogno essenzialmente comunicativo del riconoscimento la causa dello scatenamento della violenza che dà luogo alla dialettica del padrone e dello schiavo. Del resto l’approccio alla realtà di qualunque essere umano in qualunque situazione non è mai puramente monologico. Basti pensare che il rapporto tra medico e paziente nel trattamento psicanalitico, che Habermas considera come un caso paradigmatico dell’approccio monologico alla realtà, è fondato sul comune uso del linguaggio. Vero è che il medico, all’inizio, cerca nei racconti del paziente un senso che non è quello palese e consapevole, ma quello che egli esprime senza intenderlo, e che Mannheim chiamava il senso interpretativo (Interpretationssinn);[26] ma ciò avviene allo scopo di creare una situazione nella quale, dopo una serie di impercettibili transizioni, il dialogo possa acquisire la pienezza della trasparenza. Basti ancora ricordare la funzione della propaganda (della “guerra psicologica”) nei conflitti, attraverso la quale ognuna delle parti tenta di far leva sulla originaria facoltà degli uomini di comunicare persino per sconfiggere il nemico nella più violenta delle situazioni umane. Basti infine riflettere sul fatto che lo stesso sviluppo della tecnica è il frutto della messa in comune delle conoscenze e che il suo impiego non può essere pensato senza la collaborazione tra coloro che la utilizzano per un fine comune.

 

Lo Stato come apriori politico della comunicazione

1. In principio era il logos. 2. La verità provvisoria. 3. La comunità di comunicazione universale. 4. L’apriori etico della comunicazione. 5. Lo Stato. 6. Lo Stato come istituzione in divenire.
 

1. In principio era il logos.

L’idea della storia come emergenza del senso ci conduce in quella regione di confine della conoscenza nella quale compaiono le antinomie della ragione. Da un lato, quella del senso nella storia è appunto pura emergenza, perché prima che esso si manifesti al suo posto vi sono la violenza e il caos. D’altro lato è impossibile sottrarsi all’idea che il senso, la ragione, il bene, la capacità di comunicare sono esistiti nell’uomo fin dall’inizio allo stato di disposizione (la Anlage di Kant), della quale la storia è la progressiva traduzione in atto. Peraltro, perché ciò che è in potenza diventi atto occorre la presenza di un fattore che provochi il passaggio dall’uno all’altro stato. Questo fattore per la religione è la grazia. Ma per la filosofia non è che un punto oscuro, non risolto e non risolvibile, come lo sono la nascita dell’universo, la manifestazione della vita nella storia della Terra, la nascita e la morte intesi come comparsa e scomparsa di una coscienza.

Si tratta di un’oscurità con la quale dobbiamo convivere. Certo rimane però che, quale che sia il meccanismo incomprensibile attraverso il quale ciò avviene, la ragione non può emergere esclusivamente dalla violenza. Già all’inizio della riflessione filosofico-politica l’uomo era definito come zoon politikon logon echon. La ragione era quindi già per Aristotele la caratteristica distintiva dell’uomo come essere sociale. Essa non può quindi non avere avuto un ruolo nel processo di causazione che ha portato l’umanità dalla violenza generalizzata della barbarie alle soglie della creazione di un ordine giuridico mondiale. Se è vero che la ragione è andata progressivamente — anche se lentamente — affermandosi nella storia, è impossibile separare la sua affermazione in quanto risultato del processo dalla sua azione in quanto causa del processo.

Il logos, inteso insieme come ragione teoretica e ragione pratica, deve essere stato quindi presente nell’uomo fin dall’inizio, anche se la sua emergenza visibile nella storia può essere risultata da circostanze accidentali, come quelle immaginate da Kant nella Congettura, che comunque descrivono l’ipotetico svolgimento del processo senza spiegarlo.

Si tratta del problema che si pone Meinecke nell’introduzione all’Idea della ragion di Stato. Se tutta la storia potesse essere interpretata come un confronto frontale tra il bene e il male, egli scrive, il compito dello storico sarebbe relativamente semplice. “Ma la storiografia scientifica, egli continua, ha superato questo grossolano dualismo — anche se non il dualismo in generale — perché la polarità tra spirito e natura le si presenta inevitabilmente di continuo. Ma insieme le si presenta anche l’inquietante, sconcertante e spesso sconvolgente esperienza che la natura e lo spirito non si possono separare così facilmente l’una dall’altro, come l’amico e il nemico nella guerra, ma sono inestricabilmente intrecciati”.[27]

En arche en o logos quindi, anche se in principio il logos era confuso con la natura, e anche se il meccanismo della sua progressiva prevalenza sulla natura rimane incompreso. È ancora Meinecke a notare, con straordinaria efficacia, come nella storia “la ragion di Stato dei potenti si nobiliti attraverso impercettibili transizioni, e divenga l’anello di congiunzione tra Kratos e Ethos”, come il processo storico metta continuamente in evidenza “la trasformazione degli istinti naturali in idee”. Meinecke rifiuta “la sbrigativa risposta del positivismo”, “che spiega queste transizioni ricorrendo ad un sempre migliore e più abile adattamento all’obiettivo dell’autoconservazione”. “Ciò che è soltanto utile e necessario, continua Meinecke, non potrebbe mai condurre al di là della tecnica stabile degli animali e delle loro organizzazioni sociali. Il Bello e il Bene non possono mai essere dedotti dal puro e semplice utile, ma sorgono da disposizioni indipendenti dell’uomo, dalla spinta spontanea ad infondere lo spirito in ciò che è soltanto naturale, alla trasformazione dell’utile in etico”. “Come possano coesistere, egli conclude, un rapporto di causalità ed una differenza essenziale tra disposizioni basse e nobili, tra natura e spirito nell’uomo: è proprio questo il mistero oscuro della vita”.[28]
 

2. La verità provvisoria.

Del resto, se rimane vero che la verità definitiva di ogni asserzione e la validità di ogni linea di azione si trova nel futuro, nella comunità di Peirce, è anche vero che il futuro di Peirce si dilata indefinitamente, e l’ampliarsi continuo del contesto modifica incessantemente il senso di ogni avvenimento e il grado e il modo di approvazione di ogni teoria e di ogni comportamento, senza che si possa indicare una fase dello sviluppo storico nella quale il consenso della comunità determinerà definitivamente quale è la verità. Poiché l’attesa della verifica definitiva non può non essere eterna, per evitare che l’idea di verità ne risulti vanificata, si deve certo riconoscere che ogni asserzione e ogni progetto contengono un’ineliminabile componente di scommessa; ma che una verifica, per parziale e provvisoria che sia, deve poter essere fatta nel presente. Deve cioè essere leggibile, nella singola asserzione o nel singolo progetto, un’anticipazione del suo senso definitivo, che coinciderà con ciò che di essi sarà conservato nella infinita serie delle successive Aufhebungen attraverso le quali procederà la storia futura.

Questa verifica parziale da cercare nel presente sta nell’accordo di un certo numero, più o meno grande, di nostri simili, con i quali ognuno di noi si trova in quella che Apel chiama una comunità di comunicazione (Kommunikationsgemeinschaft).

Certo, al limite, anche questo accordo parziale e provvisorio può mancare, e la verità abitare una comunità virtuale formata da un solo uomo. Ma ciò può avvenire soltanto per un periodo di tempo relativamente breve. E nel corso di questo periodo, la sola verifica provvisoria di una teoria o di un progetto non può stare che nel rigore — intellettuale e morale — con il quale l’uomo intraprende il confronto con sé stesso, come rappresentante di una comunità per il momento soltanto ideale.

Rimane comunque il fatto che, fino a che vi sarà una pluralità di comunità di comunicazione, che non costituiranno a loro volta tra loro comunità di comunicazione più grandi, e al limite una sola, vivremo in un mondo di verità parziali, e quindi molteplici, come tale non liberato dalla violenza dell’uomo sull’uomo.
 

3. La comunità di comunicazione universale.

Ma a questo punto il problema è posto: se la radice dell’errore sta nella pluralità delle comunità di comunicazione, in ciascuna delle quali peraltro gli uomini trovano la sola verifica provvisoria della verità delle loro idee e dei loro progetti, la condizione necessaria della verifica conclusiva della verità di qualunque asserzione e di qualunque volizione è la fusione degli orizzonti di ciascuno in una comunità di comunicazione universale, la cui condizione di possibilità è peraltro la preesistenza di una comunità di comunicazione universale in embrione, che fornisce la grammatica generativa comune grazie alla quale gli steccati tra le culture possono essere progressivamente superati e create le condizioni per la ricerca di una verità che sia tale per tutti.
 

4. L’apriori etico della comunicazione.

Ma il processo di creazione di una comunità di comunicazione universale deve passare attraverso le istituzioni. La specie umana, in quanto composta di esseri liberi — e quindi permanentemente confrontati con la presenza del male radicale — non migliora attraverso l’autonomo esercizio delle proprie facoltà razionali, ma attraverso il miglioramento delle forme della convivenza, cioè attraverso la progressiva instaurazione del diritto.

Karl-Otto Apel sottolinea che la comunicazione presuppone un apriori di natura etica: il dovere di cercare insieme la verità. Anche per Apel, si noti bene, la verità investe la totalità della vita degli uomini. “Nell’apriori dell’argomentazione, egli scrive, sta la pretesa di giustificare non soltanto tutte le ‘affermazioni’ della scienza, ma, al di là di esse, tutte le pretese degli uomini (anche le pretese implicite degli uomini nei confronti di altri uomini che sono contenute in azioni e in istituzioni). Chi argomenta, riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità di comunicazione che possono essere giustificate con argomenti ragionevoli, e si obbliga nello stesso tempo a giustificare con argomenti tutte le proprie pretese nei confronti degli altri”. “Il senso dell’argomentazione morale, riprende Apel più avanti, potrebbe essere espresso nel principio — peraltro non nuovo — che tutti i bisogni degli uomini, come pretese virtuali, nella misura in cui si possono armonizzare, attraverso l’argomentazione, con i bisogni di tutti gli altri, devono diventare l’oggetto della preoccupazione della comunità di comunicazione”.[29] Una comunità di comunicazione esiste quindi là dove esistono uomini che sono disposti ad operare il sacrificio dell’individualità (selfsurrender nella terminologia di Peirce)[30] che è il presupposto della verità come ricerca di un terreno comune.
 

5. Lo Stato.

Tutto ciò è vero. Ma se si vuole considerare l’apriori etico della comunicazione non come una pura esigenza formale, ma come un atteggiamento esistente nel mondo, esso non può essere concepito al di fuori della costituzione civile di Kant, in assenza della quale gli uomini sono sottratti a qualsiasi dovere morale tranne quello di entrare in una costituzione civile, cioè in una convivenza fondata sul diritto.

L’apriori morale, la Grundnorm di Apel, postula quindi a sua volta un apriori politico. La morale — si ricordi Hegel nella Filosofia del Diritto — intesa come richiamo della coscienza o imperativo categorico, è puramente formale e non ha contenuto né realtà al di fuori della società civile, cioè dello Stato come “realtà della volontà sostanziale”, che è la condizione dell’esistenza della società civile. Lo Stato è dunque il vero apriori della comunicazione, e lo Stato universale è l’apriori della comunicazione universale.

In altri termini, l’apriori della comunità di comunicazione, è il modo in cui gli uomini si organizzano in vista del perseguimento di fini comuni. Chiunque abbia vissuto un’esperienza politica ha avuto modo di constatare in quale misura le istituzioni condizionano il processo di formazione delle opinioni. Gli ostacoli alla comprensione reciproca sono quindi costituiti dall’incompatibilità tra le strategie che i diversi gruppi umani organizzati debbono perseguire per garantire la propria conservazione e per promuovere la propria affermazione. Del resto, proprio perché gli uomini non sono angeli, non si può supporre che essi siano animati dalla volontà di cercare la verità se non sono spinti a farlo da un interesse comune, cioè dalla loro appartenenza ad una comunità di destino. Se la conoscenza della quale si ricercano i condizionamenti istituzionali è la conoscenza collettiva della realtà storica, cioè la consapevolezza che un popolo ha della direzione del proprio cammino — che è la conoscenza che fonda tutti i criteri di verità delle conoscenze specializzate —, la sola istituzione che rende possibile quella Kommunikationsgemeinschaft che è il vero soggetto della ricerca è la comunità di destino kat’exochen, l’istituzione delle istituzioni, cioè lo Stato.

Ma lo Stato è un’istituzione dai due volti. Da un lato esso è il quadro nel quale viene perseguito il bene comune dei cittadini e garantita la pace attraverso la creazione di una costituzione giuridica; nel quale quindi il discorso prevale sulla violenza. L’appartenenza allo stesso Stato, vissuta dall’interno, è quindi la condizione istituzionale essenziale della formazione di un’opinione comune sulle grandi scelte storiche di una comunità umana. Dall’altro lo Stato, in quanto sottratto al diritto, cioè sovrano, è il soggetto della guerra, e quindi l’agente della violenza nei rapporti internazionali.

È bene a questo proposito osservare che le definizioni dello Stato come ordinamento giuridico e come strumento per la realizzazione del bene comune differiscono essenzialmente l’una dall’altra soltanto fino a che ha un forte rilievo la contrapposizione tra interessi individuali da tutelare e interessi collettivi da promuovere, alla quale corrisponde la contrapposizione tra Stato liberale e Stato sociale. Una volta che lo Stato si fosse spogliato della sua faccia violenta ed arbitraria, e che interessi privati e pubblici tendessero a identificarsi in una democrazia realizzata, tutela del diritto e promozione del bene comune si identificherebbero senza residui nell’idea di autogoverno.

Sta qui il nucleo di verità contenuto nella teoria hegeliana dello Stato: lo Stato non è soltanto la condizione estrinseca del perseguimento della conoscenza e dell’osservanza delle regole della morale in quanto assicura la pacifica convivenza nel quadro di un ordinamento giuridico garantito, ma è anche il fondamento essenziale, quale che ne sia il grado di consapevolezza dei cittadini, di quella profonda identità di intenti, fondata sulla comunità di destino, che costituisce il presupposto esistenziale della comprensione reciproca, e quindi della comune ricerca della verità o, il che è lo stesso, del bonum commune.

L’esistenza di una molteplicità di Stati sovrani, al contrario, è la negazione, ad un livello superiore, di questo fondamento, e quindi condanna gli uomini a vivere in un mondo dalle multiple verità. E poiché ogni Stato ha la sua verità, è soltanto la violenza che può decidere quale di queste debba prevalere sulle altre.

Lo Stato è quindi un’istituzione segnata da una contraddizione radicale: esso è insieme l’affermazione e la negazione del diritto, e del criterio della verità. Esso è l’agente e la causa della guerra nei rapporti internazionali, che è la negazione della vita, e quindi di tutti i valori, ma è nello stesso tempo, nei rapporti tra i suoi cittadini, il garante della pace e del diritto, e quindi di tutti gli altri valori politico-sociali. Mentre arma i cittadini per la guerra contro gli altri Stati, esso li disarma nella vita civile. Mentre nega ogni criterio di verità nei rapporti internazionali, costituisce il presupposto del perseguimento della verità nei rapporti tra i suoi cittadini.
 

6. Lo Stato come istituzione in divenire.

Perché questa contraddizione radicale possa essere superata, lo Stato deve essere concepito come un’istituzione in divenire, che si è realizzata fino ad ora nella storia in forme imperfette, ma che tende a superare le proprie limitazioni e ad avviarsi verso la realizzazione della propria idea, che è quella della sua piena identificazione con l’ordinamento giuridico o con l’idea del bonum commune. Si tratta di un processo in due stadi, che peraltro sono strettamente interconnessi e non si trovano in un rapporto di rigorosa successione temporale l’uno rispetto all’altro. Il primo comporta da parte di tutti gli Stati l’instaurazione al proprio interno di un ordine fondato sul riconoscimento dei valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia, cioè la loro trasformazione — quanto meno tendenziale — in repubbliche nel senso kantiano del termine. Si tratta di un obiettivo che si identifica con la realizzazione di regimi liberaldemocratici e con il superamento della fase storica della lotta di classe. Il suo mancato raggiungimento comporta la persistenza, nell’ambito della convivenza civile, di situazioni obiettivamente antigiuridiche, in quanto l’esistenza dell’oppressione dell’uomo sull’uomo è essa stessa violenza e provoca di rimando la violenza degli oppressi e degli emarginati. Le norme che legittimano l’oppressione e l’emarginazione non sono quindi ancora completamente giuridiche, e la comunità che esse regolano non è ancora completamente Stato.

Il secondo è quello del superamento della divisione del mondo in Stati sovrani. Esso è la condizione dell’eliminazione della violenza nei rapporti internazionali. Ed è insieme quella del completamento della trasformazione degli Stati esistenti, privati della sovranità esclusiva, in repubbliche. La violenza infatti è indivisibile, ed il suo esercizio nei rapporti internazionali inquina i rapporti giuridici all’interno degli Stati in quanto la ragion di Stato, in nome della stessa salvaguardia del diritto, o meglio di quella parte di esso che non è incompatibile con la sopravvivenza della comunità, impone al potere politico comportamenti antigiuridici.

Il problema da risolvere quindi è quello kantiano di far entrare gli Stati, come i cittadini, in una costituzione giuridica. La realizzazione compiuta dell’idea dello Stato coincide con la creazione di uno Stato mondiale come federazione di repubbliche.

 

La Federazione mondiale

1. Verità e democrazia. 2. Il contratto sociale e il popolo come suo soggetto. 3. Il diritto naturale. 4. Diritto naturale e rivoluzione.
 

1. Verità e democrazia.

La concezione della storia come storia della realizzazione dell’idea dello Stato nella forma della federazione mondiale ci fornisce gli strumenti concettuali per una riconsiderazione — di cui indicheremo soltanto le linee essenziali — di alcuni concetti-cardine della filosofia politica, come quelli di volontà generale, contratto sociale, popolo e diritto naturale.

Nella Federazione mondiale, in quanto quadro istituzionale — e come tale condizione necessaria — di una comunità di comunicazione universale, si manifesta il fondamento democratico della verità di cui parla — anche se in una prospettiva del tutto diversa — Feyerabend.[31] Nello stesso tempo, poiché la verità è un’idea teorico-pratica, la creazione delle condizioni di possibilità della verifica definitiva di un’asserzione si identifica con quella delle condizioni di possibilità della formazione compiuta della volontà generale, intesa come unanime riconoscimento e volizione del bene comune. Il perseguimento di quest’ultimo si identifica quindi con il perseguimento della verità.

È evidente che perché ciò possa avvenire bisogna che, come aveva perfettamente visto Rousseau, la volontà generale non si riduca alla volontà della maggioranza, ma sia unanime. Fino a che ciò non accade la volontà popolare non è veramente generale, e quindi non si identifica con la verità. La politica rimane segnata dall’aspetto arbitrario del potere.

Peraltro la riflessione di Meinecke mette in luce i legami profondi che esistono tra l’esercizio del potere e la realizzazione del bene comune, e quindi con la realizzazione delle condizioni di possibilità del dialogo come comune ricerca della verità. Il potere è una relazione a due facce. Da un lato esso presenta l’aspetto dell’imposizione della volontà di uno o di alcuni uomini sugli altri. Dall’altro esso è inseparabile dall’idea del consenso, che è in ultima analisi il presupposto soggettivo del bene comune. Nessun uomo, nessuna classe politica può governare, ossia esercitare potere su qualcuno, se non basa il suo potere sul consenso di una parte più o meno ampia dei governati; consenso che viene appunto accordato in funzione della capacità — vera o presunta — di quell’uomo o di quella classe politica di realizzare — in misura maggiore o minore — il bene comune. Il puro e semplice esercizio brutale della violenza non si identifica mai con l’esercizio del potere. Chiunque esercitasse la violenza contro tutti sarebbe rapidamente soppresso in qualunque società. Anche l’esercizio della violenza contro qualcuno presuppone quindi il consenso, tacito o espresso, di un certo numero di altri membri della comunità. L’arte di conquistare il potere è l’arte di assicurarsi il consenso di tutti, o della maggioranza dei membri della comunità, o di coloro che a loro volta dispongono insieme del consenso di tutti o della maggioranza.

Il potere è quindi tanto più forte quanto più perfetto è il consenso che ne costituisce il fondamento. Contrariamente a quanto l’uso comune del termine sembrerebbe suggerire, la dittatura è la forma più fragile ed effimera dell’esercizio del potere.

A sua volta la perfezione del consenso è funzione di tre fattori: a) la sua generalità, b) il suo carattere attivo e c) la sua natura razionale.

La generalità del consenso dipende da un lato dalla sua diffusione all’interno della comunità e dall’altro dalla dimensione della comunità stessa. Il consenso di una sola maggioranza — che quindi comporta l’esercizio della costrizione sulla minoranza — pur essendo il fondamento dell’organizzazione della convivenza civile di gran lunga più avanzata che gli uomini abbiano saputo fino ad oggi produrre, dà luogo ad un potere debole e imperfettamente democratico. D’altra parte, il consenso, anche unanime, ottenuto da una sola frazione del genere umano (un solo Stato, un solo partito, un solo gruppo) non è che imperfettamente democratico perché è lo strumento dell’esercizio della violenza nei confronti degli altri Stati, partiti e gruppi.

Il carattere attivo del consenso dipende dalle motivazioni per cui esso viene prestato. Fino a che la specie, per garantire la propria autoriproduzione, dovrà ricorrere, per far fronte alla sfida della scarsità, alla divisione del lavoro, e fino a che quindi la politica rimarrà l’appannaggio di una classe di specialisti, il consenso dei governati avrà sempre un carattere più o meno passivo. I governati infatti si occupano esclusivamente o prevalentemente dei loro progetti individuali, cioè di fare il loro mestiere, e partecipano al perseguimento del bene comune soltanto in un modo assai indiretto e imperfetto, attraverso l’azione della mano invisibile, cioè nella misura — del tutto parziale e insoddisfacente, e sempre più parziale e insoddisfacente quanto più si va accentuando l’interdipendenza nei rapporti tra gli uomini — in cui il bene comune può essere il risultato della composizione delle divergenti strategie che hanno per oggetto il conseguimento di quello che i singoli credono sia il proprio bene individuale. Il consenso viene allora prestato soltanto nella misura in cui i governanti consentono ai governati di perseguire indisturbati i propri interessi, o li promuovono attivamente e, nella misura in cui ciò accade, si risolve in una sorta di delega in bianco.

Il consenso diventa quindi tanto più attivo quanto più gli uomini hanno sia il tempo che la necessità di occuparsi dell’interesse generale. Si tratta di una tendenza che oggi sta subendo una forte accelerazione in quanto, da un lato, nella parte industrializzata del mondo, la società dell’abbondanza sta impercettibilmente svuotando di senso l’idea stessa di benessere individuale misurato in base al possesso di beni materiali e sta liberando una quota crescente del tempo degli uomini rendendolo disponibile al perseguimento del bene comune; e, dall’altro, l’aumento dell’interdipendenza dei rapporti sociali, con le sue inevitabili conseguenze — la minaccia alla pace e il degrado progressivo dell’ambiente, e quindi della qualità della vita — fanno emergere con crescente chiarezza che non vi è altro bene per cui lottare che non sia il bene comune né altra strategia per farlo che non sia la messa in comune delle energie di ciascuno per salvare l’umanità dall’estinzione o dal ritorno alla barbarie. L’atteggiamento di consenso passivo nei confronti di una classe politica professionale diventa in queste condizioni sempre meno sostenibile. La sola attività dotata di senso diventa la ricerca del bene comune. Il consenso tende ad essere sempre meno una delega in bianco data ad una o più persone, e diventa sempre più il risultato della convinzione della fondatezza di decisioni alle quali tutti hanno partecipato. Esso tende quindi a non avere più il suo fondamento nell’egoismo di coloro che sono ben contenti che altri eserciti il potere pur di non essere disturbati nella gestione del proprio particulare.

Il consenso deve infine essere razionale, cioè non fondato sull’ideologia. Più semplicemente deve essere fondato sulla verità.

Il potere ha un legame intrinseco con la verità (e quindi la politica con la cultura) nella misura in cui è inscindibile dall’idea del bene comune. Ma si tratta di un legame equivoco, che all’inizio è solo virtuale, o comunque parziale, e che si esplicita con l’avanzamento del processo di emancipazione umana, anche se la politica, fino al momento del suo compimento, cioè della sua soppressione, rimane il luogo privilegiato della mistificazione e della violenza. Nelle corti inglesi dei drammi shakespeariani la sola figura autorizzata a dire la verità era il buffone, il fool, che pagava il diritto di parlare con il disprezzo generale di cui era fatto oggetto. Si tratta peraltro di una situazione che riflette una realtà profonda: se da un lato il potere senza verità è un potere debole, non è un vero potere, dall’altro una verità senza potere, cioè incapace di guidare la condotta degli uomini, non è una verità vera, se la verità, per essere tale, deve diventare, diffondendosi, un agente della trasformazione storica.

Ma tutto ciò significa che la nascita di un potere veramente irresistibile, cioè la realizzazione dell’idea del potere, coinciderà con la sua soppressione. La realizzazione dell’idea del consenso (generale, attivo e razionale) coincide con la realizzazione dell’idea dell’autogoverno, cioè con l’identificazione compiuta tra governanti e governati, con l’esecuzione volontaria da parte dei cittadini delle regole che essi stessi si sono consapevolmente assegnati.

Il modello della federazione mondiale ha quindi un duplice rapporto con l’ideale del dialogo. Grazie al suo carattere universale, essa elimina tutte le barriere istituzionali che fanno da schermo alla comunicazione tra gli uomini. Ma con ciò essa realizza soltanto una condizione negativa della comunicazione universale. Perché questa si possa manifestare nei fatti, bisogna che ciascuno si senta investito della responsabilità di dare il contributo concreto della sua partecipazione alla realizzazione del bene della comunità nella quale vive la sua vita quotidiana e con i membri della quale la comunicazione avviene in modo immediato e personale.

In questo modo, l’unanimità attraverso la quale la volontà generale si deve manifestare non è il risultato di una impossibile addizione di volizioni individuali con lo stesso contenuto, ma diventa il risultato della reciproca persuasione nel corso di un permanente dibattito su temi a tutti familiari. Il federalismo, così come è stato teorizzato da Albertini,[32] presenta quindi, nella sua realizzazione compiuta, un polo cosmopolitico e un polo comunitario, ognuno dei quali integra l’altro egli dà vita e contenuto. E la comunità di comunicazione universale può sussistere soltanto in quanto si fondi sul confronto razionale tra una miriade di comunità di comunicazione locali, nelle quali si elaborino sia le risposte ai problemi locali che i contributi locali alle risposte ai problemi che si pongono ai livelli superiori, fino a quello mondiale. La community di Peirce è in realtà una comunità di comunità. La struttura costituzionale federale, fondata sull’indipendenza e la coordinazione tra vari livelli di autogoverno di dimensioni crescenti, garantisce la compatibilità delle strategie delle comunità dello stesso livello nel quadro di un ordinamento giuridico globale, e quindi crea le condizioni di compatibilità necessarie ad impedire che le barriere al dialogo si riformino.
 

2. Il contratto sociale e il popolo come suo soggetto.

L’idea della volontà generale è inseparabile da quella del contratto sociale. Ma nella nostra prospettiva questa non può essere una congettura sulla nascita storica dello Stato, né una teoria il cui scopo sia esclusivamente quello di fondarne la legittimità, e che quindi non esca dalla sfera della speculazione sullo Stato ideale. Si tratta invece di un’idea che acquista concretezza in quanto si pone come punto d’arrivo dello sviluppo storico, che diventa così storia della nascita dello Stato. Il contratto sociale giunge dunque alla fine, cioè quando — la violenza essendo scomparsa dalla convivenza civile — tutte le decisioni attraverso le quali si realizza il bonum commune sono il risultato dell’accordo unanime e razionale dei cittadini.

Ma l’idea del contratto sociale non poteva non essere presente nella riflessione filosofica fin dall’inizio. Basti ricordare il Socrate del Critone, per il quale il cittadino era legato alle leggi della polis da accordi (omologiai) così vincolanti da obbligarlo in qualche caso a sacrificare la propria stessa vita piuttosto che sottrarsi al loro imperio, per ingiuste che esse fossero.

E come il contratto sociale, pur essendo presente come idea fin dall’inizio, si realizza soltanto alla fine, così è soltanto alla fine che si definisce compiutamente l’idea del soggetto del contratto, cioè del popolo. È certo che, in quanto soggetto del contratto sociale, il popolo non può che essere il popolo di uno Stato perché esso diventa ciò che è esclusivamente in forza del contratto; ma in quanto il contratto è in fieri, è imperfetto fino alla fine, il popolo non coincide con lo Stato, ma è in contraddizione permanente con esso e costituisce il motore della sua evoluzione. Sta qui il fondamento del potere costituente del popolo, non perché esso — come afferma la tradizione liberale da Locke in poi — sia un’entità qualitativamente diversa da uno Stato degradato a puro strumento, ma perché, come soggetto attivo di un processo, esso è sempre al di là della sua oggettività, che è appunto lo Stato e, in forza della sua non coincidenza con esso, costituisce il motore del suo sviluppo. Sta qui la giustificazione del concetto di “popolo prima e al di sopra della costituzione” (contrapposto a quello di “popolo nella costituzione”) che, secondo Carl Schmitt,[33] è il fondamento ultimo della legittimità di qualsiasi ordinamento statuale.

Per Eric Weil[34] l’idea di popolo — nella misura in cui non si identifichi con quella di Stato — è un’idea puramente negativa, che cioè si identifica con il residuo di antigiuridicità che permane nelle forme storiche assunte dallo Stato. La verità è invece che il popolo — nella misura in cui non si identifica con lo Stato — non è soltanto negazione, ma anche affermazione di una forma di Stato più vicina al modello del contratto sociale, perché il popolo non si identifica con lo Stato proprio in quanto questo — essendo ancora lontano dalla realizzazione del suo concetto — viola il diritto.

Questa affermazione deve però essere circostanziata. L’esperienza storica dimostra infatti in modo assai evidente l’impossibilità di definire i confini di qualunque popolo quando non si voglia farli coincidere con quelli di uno Stato. Basti ricordare l’infinita sequela di violenze che si debbono mettere sul conto dell’idea di “autodeterminazione dei popoli”, dovuta al carattere arbitrario dell’identificazione dell’entità che si deve autodeterminare.

In realtà il popolo si adegua al suo concetto soltanto quando coincide con il genere umano e quindi si identifica in prospettiva con il popolo della Federazione mondiale. Prima che questo stadio sia raggiunto, il concetto di popolo, in quanto sia separato da quello di Stato, rimane un concetto essenzialmente nebuloso, senza confini e senza identità, che non corrisponde mai ai criteri con i quali lo si vuole definire.

In questa prospettiva, la sola affermazione che si possa fondatamente fare è che, prima dell’unificazione del genere umano, sarà legittimo richiamarsi al popolo contro lo Stato soltanto quando il superamento della contraddizione avvicinerà l’obiettivo della Federazione mondiale, mentre sarà illegittimo farlo quando il fine perseguito sarà quello — opposto — dell’affermazione o del rafforzamento di una pretesa identità nazionale.

Ciò non significa evidentemente che il popolo della Federazione mondiale non debba essere pluralista. È vero il contrario. Ma pluralismo non significa segmentazione del genere umano in gruppi definiti, e quindi chiusi in sé stessi. Pluralismo significa al contrario molteplicità dei termini di identificazione culturale di ogni singolo individuo, in contrapposizione all’esclusività dell’identificazione nazionale (o micro-nazionale), e quindi possibilità per ciascuno di esprimere appieno, nella libertà dall’imposizione di modelli culturali uniformi e artificiali, la propria irripetibile individualità. E le istituzioni della Federazione mondiale dovranno tenere conto di questo carattere aperto e articolato del popolo mondiale articolandosi a loro volta in livelli di autogoverno multipli e reciprocamente intersecantisi, che impediscano la formazione di lealismi esclusivi o prevalenti, e quindi consentano di fondare la democrazia mondiale sul consenso di uomini liberi e ragionevoli.
 

3. Il diritto naturale.

Come il contratto sociale ha un soggetto, il popolo, così esso ha un oggetto: il diritto come idea, cioè il diritto naturale. Habermas[35] mette in luce come la teoria del diritto naturale abbia assunto storicamente due forme distinte. La prima è quella della tradizione liberale classica dell’area anglosassone, per la quale il diritto naturale vigeva in un mitico stato di natura che esisteva prima che la convivenza tra gli uomini fosse corrotta dal potere. Il contratto sociale non ha quindi in questa ottica altra funzione che quella di garantire l’osservanza delle norme del diritto naturale, sulla quale peraltro i cittadini devono perennemente vigilare per evitare che il contratto sia violato con l’instaurazione del dispotismo. Il liberalismo classico vede la società civile come autonoma dallo Stato, che non ne costituisce che uno strumento — peraltro suscettibile di abusi di ogni genere — e attribuisce al diritto naturale una funzione eminentemente garantista.

La seconda è legata alla tradizione illuministica, per la quale il diritto naturale, così come la stessa società civile, non esiste che nello Stato, mentre lo stato di natura si identifica soltanto con l’anarchia e la barbarie. Si tratta della concezione che costituisce il fondamento culturale della rivoluzione francese. Essa identifica i diritti dell’uomo con quelli del cittadino, e quindi li pone come diritti essenzialmente politici. Il diritto naturale deriva quindi dalla natura del contratto sociale.

Questa seconda è una concezione che presenta un fondamentale elemento di ambiguità perché, se non è collocata nel contesto dello sviluppo storico e non ne è vista come il formale punto di arrivo, rischia, al limite, di legittimare l’arbitrio. Se il contratto sociale infatti è un patto irrevocabile con il quale gli uomini si spogliano definitivamente della loro libertà selvaggia delegando il potere una volta per tutte ad un sovrano, il diritto naturale perde ogni contenuto autonomo e si identifica con la volontà arbitraria di quest’ultimo: non veritas sed auctoritas facit legem. L’idea del diritto naturale nega sé stessa e si identifica con quella del diritto positivo.

In realtà è vero che, perché l’idea del diritto naturale abbia un senso, è assurdo cercare i suoi contenuti nei rapporti che sarebbero esistiti tra gli uomini in un idilliaco stato di natura primordiale, nel quale il loro senso di giustizia non era stato ancora pervertito dal dominio dell’uomo sull’uomo. Ma è altrettanto inammissibile identificarlo con l’idea non storicizzata di contratto sociale, facendo venir meno la sua opposizione con il diritto positivo. È quindi vero che il diritto naturale è il contenuto del contratto sociale, ma soltanto in quanto questo sia compreso come compimento dell’evoluzione dello Stato, come Verständigung universale nel quadro istituzionale della Federazione mondiale.

Si può certo obiettare che anche in questo modo il diritto naturale perde comunque ogni contenuto determinato — proprio come nella concezione hobbesiana — per identificarsi con la volontà che lo pone. Ma la differenza sta nel fatto che qui il sovrano è il popolo, e la volontà è quella di tutti e di ciascuno, nella quale si realizza l’identificazione di veritas e auctoritas. Inoltre il fatto che l’idea di diritto naturale si realizzi compiutamente soltanto alla fine non significa che essa non agisca nella storia come inquietudine e, messa a confronto con una realtà che in forme di volta in volta diverse la nega, acquisti un contenuto provvisorio, ma determinato, diventi progetto e ideologia — nel senso positivo di visione attiva del futuro.

È quindi lecito affermare che il diritto naturale è insieme un’idea assoluta e indipendente dallo stadio di avanzamento dello sviluppo storico, e in quanto tale puramente astratta e formale, e un fatto storico, con un contenuto che cambia nel tempo, avvicinandosi progressivamente all’idea. Ed è soltanto in quanto prende concretezza storica che esso può assumere la funzione di motore dell’evoluzione dello Stato nel suo tentativo permanente di adeguarsi al suo concetto.

Se invece l’idea di diritto naturale viene totalmente avulsa dalla storia e trasportata nel dominio delle speculazioni astratte sullo Stato ideale, la sua funzione teorica diventa soltanto quella di uno sterile criterio formale per decretare l’illegittimità di tutti gli ordinamenti positivi esistenti, caratterizzati da una lontananza ugualmente infinita dalla norma.
 

4. Diritto naturale e rivoluzione.

Una diversa concezione del diritto naturale comporta una diversa concezione della rivoluzione. Coloro per i quali non vi è altro diritto che il diritto positivo respingono la legittimità di qualunque rivoluzione, in quanto negazione dell’ordinamento giuridico esistente; anche se essi sono costretti a riconoscere che, una volta riuscita, la rivoluzione instaura un nuovo criterio di legalità, ammettendo quindi che la loro fedeltà all’ordinamento esistente ha come solo fondamento la permanenza del potere che lo impone.

A questo atteggiamento si contrappone diametralmente quello dei liberali classici, per i quali il diritto naturale è un sistema di norme eterno e sovrastorico, che costituisce l’oggetto, definito una volta per tutte, del contratto sociale. La violazione del diritto naturale da parte del potere comporta quindi una violazione del contratto sociale e per ciò stesso legittima la rivoluzione.

È questa una teoria che nasconde in sé il germe dell’arbitrio, perché nessuno Stato, in quanto formazione storica concreta, realizza l’ideale astratto e formale della giustizia. Su questa base, qualunque conato di rivolta in nome di ideali arbitrari e indefiniti, diventa legittimo. La negazione semplice — che è il più comodo e stupido degli atteggiamenti, perché dà l’illusione di essere dispensati dal dovere di pensare e di confrontarsi seriamente con la realtà — viene elevata alla dignità di lotta rivoluzionaria, così come viene legittimato il puerile ideale trotzkista della rivoluzione permanente. Come il conservatorismo hobbesiano non vede che lo Stato storicamente realizzato — quali che siano le sue forme e i suoi stadi di evoluzione — non è ancora lo Stato adeguato alla sua idea, così la disinvoltura liberale rischia di rendere ciechi di fronte al fatto altrettanto importante che lo Stato storicamente realizzato è comunque uno Stato in divenire, la cui positività è l’espressione del grado di maturazione civile di un popolo e quindi è infinitamente superiore all’irresponsabilità della negazione indeterminata.

La verità è che il diritto naturale è un potente fattore di evoluzione storica, ma lo è in quanto assume esso stesso delle figure storicamente determinate, che consentono di mettere in questione l’ordinamento giuridico esistente non già sulla base di un ideale astratto ma su quella di un progetto concreto, che si propone di sostituire all’ordinamento esistente un altro ordinamento più avanzato, ma già iscritto virtualmente nei fatti. Ciò non toglie che, perché sia legittimo dire che ogni forma storicamente attiva assunta dall’idea del diritto naturale sia più avanzata dell’ordinamento che essa mette in discussione, essa si deve riferire ad un ideale, che funge da norma assoluta. Ed è per questo che ogni rivoluzione storica sembra sempre schiudere a chi la vive la prospettiva dell’emancipazione finale dell’umanità, della fratellanza universale; ma che, d’altra parte, per incidere realmente nella storia, essa deve anche saper delineare un ordine definito e situato storicamente, che costituisca un’alternativa concreta a quello che viene messo in questione.

 

Il rivoluzionario e la sua morale

1. La ragione nello Stato e fuori dallo Stato. 2. La rivoluzione. 3. La morale della responsabilità. 4. Il dialogo nell’azione rivoluzionaria.
 

1. La ragione nello Stato e fuori dallo Stato.

La storia intesa come storia dello Stato può essere interpretata come la permanente tensione dialettica tra due distinte figure della ragione.

La prima è quella che si manifesta nelle istituzioni, e in particolare nello Stato, o nell’ordinamento giuridico nel quale lo Stato tende ad identificarsi nelle sue configurazioni storiche concrete. Naturalmente si tratta di una manifestazione imperfetta della ragione, perché il diritto è legato da un vincolo ambiguo con il potere. Come abbiamo già ricordato, l’opera di Meinecke è la più nitida delle illustrazioni della lacerazione radicale che ha sempre segnato la natura profonda della politica. Il carattere ambiguo del potere è sempre stato legato al fatto che, in passato, il grado di interdipendenza dei rapporti tra gli uomini ha ristretto — e quindi falsificato — l’accezione in cui poteva essere pensata l’espressione “bene comune”, in quanto la riferiva a gruppi umani che, a causa della divisione della società in classi e dell’umanità in nazioni sovrane, non coincidevano con la specie nella sua interezza: il perseguimento del bene di uno di essi confliggeva quindi — anche se in misura diversa a seconda delle circostanze — con quello del bene di tutti gli altri, e quindi comportava il più delle volte un uso così sfrenato della menzogna e della violenza da restringere il campo della lotta per il potere ad individui per i quali esso era la prima delle priorità, quali che fossero i mezzi da impiegare per conquistarlo, mantenerlo ed accrescerlo. Il raggiungimento del bene comune diventava conseguentemente un puro sottoprodotto della lotta per il potere.

Ciò non toglie che alcuni uomini di potere siano stati capaci di concepire disegni grandiosi, e di diventare il punto di riferimento di tutte le energie culturali e morali di un’epoca. Sono quelli che Hegel chiama weltgeschichtliche Menschen (uomini cosmico-storici), che si identificano in un modo così completo con la storia da non porsi nemmeno il problema del prezzo da pagare in termini morali per la realizzazione del proprio disegno, nel quale lo scopo dell’estensione del proprio potere non può essere dissociato da quello della promozione del bene comune.

La seconda figura si manifesta attraverso le forze che, agendo sulle contraddizioni degli ordinamenti statali esistenti, ne promuovono la progressiva trasformazione in assetti sempre più avanzati, che allargano man mano l’area del dialogo a scapito di quella della violenza.

Di fatto, per tutta la prima parte della storia dell’umanità — quella che, anche se con una certa dose di arbitrio, possiamo fare arrivare fino alla rivoluzione francese — la ragione trasformatrice si è manifestata nella storia attraverso l’azione di forze inconsapevoli, il cui carattere obiettivamente razionale veniva fatto risalire da Kant alla Provvidenza e da Hegel all’astuzia della ragione.

In quella fase della storia dell’umanità la ragione innovativa consapevole poteva manifestarsi soltanto nella forma pubblica, ma non politica, della testimonianza, come nei casi di Socrate e di Cristo. Per queste due grandi figure della storia della ragione la contraddizione tra potere e verità è stata così radicale che la verità per cui essi vissero si poté affermare, seppure attraverso una lunga maturazione, a prezzo della loro morte violenta. Ma la loro non era stata una lotta politica. Per Socrate,[36] nell’Atene della sua epoca, chi voleva “lottare per la giustizia e conservarsi in vita per un po’di tempo” doveva idioteuein e non demosieuein, doveva cioè tenersi lontano dalla vita pubblica. E il rapporto essenziale del Cristianesimo con il potere è indicato nel comando: “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.

D’altra parte, è anche vero che la stessa testimonianza, nella misura in cui, a più o meno lungo termine, incide sul processo storico, è raramente pura e raramente può essere dissociata da elementi di strategia. Questa ambiguità è particolarmente evidente nella predicazione di Cristo, a proposito della quale si è potuto legittimamente porre il problema se si sia trattato soltanto di una testimonianza o non anche di una rivoluzione.[37] Egli stesso del resto usò la violenza, cacciando i mercanti dal tempio, e tracciò una netta distinzione tra chi era con lui e chi era contro di lui.
 

2. La rivoluzione.

Con la rivoluzione francese inizia una fase del processo storico nella quale diventa pensabile la trasformazione delle istituzioni attraverso un disegno consapevole e un’azione razionale.

Il bonum commune dell’umanità diventa un ideale politico, e non soltanto filosofico o religioso. Diventa pensabile per l’individuo farsi carico del processo di emancipazione del genere umano e identificare questo obiettivo con il risultato consapevole della sua lotta, così come diventa pensabile un’azione politica che ricerchi la fonte del suo potere di cambiare la realtà nell’appello alla ragione. Nasce così la figura del rivoluzionario, che unisce in sé, anche se in forma imperfetta, quell’unità di teoria e pratica che in forma perfetta si realizzerà soltanto alla fine, e che nella storia si manifesta soltanto a livello della specie. Alla figura del filosofo come funzionario dell’umanità, secondo l’espressione di Husserl[38] — che assume un ruolo obiettivamente conservatore perché confinandosi nella teoria pura abbandona di fatto la pratica nelle mani del potere esistente — si contrappone quella del rivoluzionario come militante dell’umanità per il quale l’interpretazione e il cambiamento della realtà sono la stessa cosa.

Vero è che oggi il bonum commune dell’umanità non può ancora essere realizzato perché non ne esistono ancora i presupposti istituzionali, anche se esso — assumendo di volta in volta forme diverse — è stato il punto di riferimento ideale delle grandi rivoluzioni liberale, democratica e socialista. Così come è vero che ciascuna di queste rivoluzioni, da universalistica che era stata prima della sua affermazione, è diventata nazionale dopo la conquista del potere. È questa la dialettica che è alla radice del significato equivoco del termine “ideologia”, che denota insieme ogni grande progetto di trasformazione storica e la falsa coscienza. Si tratta di un’ambiguità che misura il distacco che finora è sempre esistito tra l’idea del bene comune riferita all’intero genere umano e le sue realizzazioni parziali e imperfette nella realtà storica, e insieme quello che esiste tra la capacità degli uomini di progettare razionalmente il futuro e gli esiti della loro azione. Ma la crescente consapevolezza della contraddizione tra i valori e i fatti è diventata oggi un fattore dal quale non si può prescindere nell’analisi del processo storico, per quanto il suo superamento appaia lontano. L’umanità — per la prima volta nella storia, e sulla spinta del pericolo dell’autodistruzione — sta cercando di prendere in mano il proprio destino. Quelli che erano oggetti di un disegno provvidenziale stanno diventando soggetti della storia e scoprono a poco a poco che essi sono la provvidenza.
 

3. La morale della responsabilità.

La fase rivoluzionaria del processo storico è destinata ad essere seguita dalla fase federalista, nella quale la violenza scomparirà dalle istituzioni e la politica diventerà un libero confronto di opinioni tra uomini ragionevoli. Essa si sopprimerà quindi in quanto tale, identificandosi da un lato con il diritto e dall’altro con il dialogo e la paideia.

Ma oggi siamo ancora nella fase rivoluzionaria, nella quale l’azione politica razionale trova certo spazio per manifestarsi, ma in un contesto istituzionale nel quale sono ancora preponderanti la divisione, il dominio e la mistificazione, cioè la violenza nel senso di Weil. Di questo l’azione rivoluzionaria deve tenere conto.

È ben vero che nel loro significato storico globale le rivoluzioni sono essenzialmente rivoluzioni culturali, in quanto sostituiscono al vecchio un nuovo paradigma, che cambia il senso della convivenza umana introducendo nella cultura, attraverso i mutamenti istituzionali che esse realizzano, nuovi criteri per la sua interpretazione. Ma, considerata dal punto di vista del rivoluzionario, che deve decidere e agire, la storia non si può ridurre a storia dello spirito. Egli deve porsi il problema di come affrontare la violenza concreta che esiste nel contesto in cui agisce, e che è — almeno in parte — impermeabile al discorso. Egli non può quindi riferirsi ad un’etica che gli imponga di adottare soltanto i comportamenti che diverranno universali nella fase federalista, cioè usare come strumento esclusivo dell’azione politica il libero confronto di opinioni tra uomini uguali, perché il suo fine è quello di crearne le condizioni istituzionali, che non esistono ancora. È il problema weberiano dell’etica della responsabilità.[39]

L’etica della responsabilità non si riduce all’accettazione dell’ambiguo principio — sulla base del quale qualunque misfatto può essere giustificato — della liceità dell’uso di mezzi immorali per il conseguimento di uno scopo morale. Del resto, in ogni impresa che si proponga di far avanzare l’umanità lungo il cammino della propria emancipazione attraverso un processo, ogni stadio di questo è insieme fine rispetto agli stadi precedenti e mezzo rispetto agli stadi successivi. Ne consegue che è impossibile distinguere nettamente nella politica rivoluzionaria il fine dal mezzo e quindi giustificare, in nome dell’etica della responsabilità, l’immoralità del mezzo con il ricorso ad un fine indeterminato quanto al momento della sua realizzazione e al suo contenuto.

Di fatto, l’etica della responsabilità non giustifica nulla. Proprio in quanto assunzione di responsabilità per le conseguenze della proprie azioni, essa è anzi un’esplicita rinunzia a priori a qualsiasi giustificazione che non sia la realizzazione effettiva di un disegno politico progressivo. L’etica della responsabilità non è cioè un’etica dei fini — intesi come obiettivi presenti soltanto nella mente di chi agisce — ma un’etica dei risultati, rispetto ai quali è del tutto irrilevante il momento soggettivo e incontrollabile della convinzione, o delle buone intenzioni. Se lo si dimentica, e la formula della morale della responsabilità viene usata senza la consapevolezza della serietà delle sue implicazioni, essa diviene un alibi per coprire la morale della disinvoltura, la confusione dei propri comodi con il proprio dovere.

L’etica della responsabilità esprime piuttosto la drammatica consapevolezza che non vi è scelta politica nella quale non si annidi il male, e che il male si annida anche e soprattutto nell’inerzia che non si oppone alla violenza che accade fuori di noi. Essa comporta quindi che chi agisce politicamente per promuovere l’emancipazione del genere umano debba considerare l’azione come l’insieme delle sue conseguenze, cioè la iscriva in un disegno strategico e applichi il proprio giudizio e la propria volontà morale al disegno nel suo complesso.
 

4. Il dialogo nell’azione rivoluzionaria.

È quindi vero che l’etica della responsabilità rifiuta l’assioma — smentito dalla realtà — che dal bene non può nascere che bene e male dal male. Ma rifiutarlo non significa affatto credere che dal bene non possa nascere il bene e quindi che il dialogo tra uguali in vista del comune conseguimento di un risultato non abbia posto nella vita politica.

È vero il contrario. Proprio perché nella storia — che non ha un termine — tutto è fine e mezzo insieme, la ragione in politica si deve realizzare strada facendo: deve essere cioè nel processo, non soltanto alla sua fine. Nell’azione rivoluzionaria quindi il dialogo, la persuasione, la lealtà, lo scrupolo di verità, lo spirito di solidarietà, in quanto siano impiegati responsabilmente, cioè in modo da far avanzare un disegno rivoluzionario, non si collocano nel campo della morale dei principî, ma in quello della morale della responsabilità.

Ciò non deve far dimenticare evidentemente che la politica è oggi ancora intrinsecamente diversa dall’esercizio della carità, o dalla paideia, e che ciò che costituisce la loro diversità è la violenza. La violenza, a sua volta, è inevitabile perché l’azione del rivoluzionario si scontra con ostacoli che resistono alla convinzione razionale.

Ma resta il fatto che la ragione, cioè il dialogo tra uguali, gioca nella dialettica rivoluzionaria un ruolo insostituibile. Abbiamo già visto che l’obiettivo dell’azione rivoluzionaria è quello della periodica riformulazione del contratto sociale attraverso la rifondazione dello Stato.[40] E che ogni forma storica di Stato è l’espressione del grado di maturità raggiunto di volta in volta dal processo di evoluzione della ragione. Lo Stato è anzi il modo in cui la ragione oggettiva si manifesta nella storia, tant’è vero che, come abbiamo già ricordato, il solo comportamento razionale possibile in un’ipotetica condizione di anarchia, cioè di assenza dello Stato, è quello di abbandonarla entrando, secondo l’espressione di Kant, in una costituzione civile.

Certo, in un mondo politicamente diviso, il dialogo razionale può essere condotto soltanto nel contesto istituzionale degli Stati di volta in volta esistenti, e quindi soltanto su temi che non ne mettano in questione la sopravvivenza. La sua razionalità è quindi circoscritta da precisi confini (anche se il carattere imperfetto dello Stato apre in quei confini delle brecce che consentono alla ragione di andare al di là dello Stato nella forma che esso ha qui ed ora). Vi sono anzi nella storia fasi di crisi dello Stato, che sono eo ipso anche fasi di crisi della ragione, nelle quali, come è accaduto con tragica evidenza nel caso del nazismo e del fascismo, il dialogo si offusca e la violenza penetra in tutti i recessi della vita civile.

Ma non per questo lo Stato cessa di essere espressione della ragione, anche se di una ragione in crisi. Il nemico che il rivoluzionario combatte presenta quindi sempre esso stesso un aspetto — anche se imperfettamente — razionale, e quindi sensibile — anche se solo in parte — agli argomenti della ragione. È per questo che, quando la rivoluzione si afferma, il vecchio ordine cade prima di tutto sotto il peso delle proprie contraddizioni: quelle contraddizioni che possono minare soltanto una costruzione razionale, e che soltanto la ragione può fare esplodere.

Ne discende che, se il processo di emancipazione dell’umanità produce forme di convivenza sempre più razionali, tanto che oggi in una parte del mondo lo Stato corrisponde ormai grosso modo al modello kantiano della repubblica, ciò non può non ripercuotersi sulle forme che assume di volta in volta la lotta rivoluzionaria, che si propone di farle ulteriormente progredire. Quanto più basso è il contenuto di violenza dello Stato, tanto più basso è il contenuto di violenza della rivoluzione. Mentre nel Cinquecento l’omicidio era uno strumento normale della lotta politica, tanto da essere teorizzato come tale dai politologi dell’epoca, oggi, in generale, esso non lo è più (anche se accade che sia praticato in circostanze eccezionali e nella torbida zona di confine tra la politica e la delinquenza).

Ciò significa che l’intensità dei conflitti morali che l’etica della responsabilità deve affrontare tende ad attenuarsi con l’umanizzazione della vita politica, perché altro è uccidere e altro è gridare slogans in un corteo, anche se entrambe sono manifestazioni di violenza: l’ambiguità del rapporto tra male e bene, tra violenza e discorso, rende possibile la transizione progressiva dall’uno all’altro.

In realtà la dicotomia amico-nemico — che tanto affascina gli animi rozzi o immaturi — è del tutto inadeguata a descrivere la dialettica rivoluzionaria, nella quale chi lotta per il nuovo ordine non nega semplicemente la forma nella quale la ragione si manifesta nell’ordine precedente, ma ne nega soltanto le limitazioni. E la violenza, che ha pur sempre fatto la sua comparsa nelle grandi rivoluzioni del passato, deve essere principalmente imputata proprio alle limitazioni del carattere razionale del vecchio ordine. Se infatti è vero che la rivoluzione oppone ad una forma attuale della ragione una sua forma virtuale che supera le limitazioni della prima, quali si manifestano nelle sue contraddizioni storicamente mature, è normale che essa privilegi nel confronto gli strumenti della ragione, sul cui terreno essa è superiore all’ordine esistente. E a questo non rimane quindi che la scelta tra la resa e l’esercizio della violenza.

Del resto, se la ragione non fosse in qualche modo annidata all’interno della violenza, se violenza e ragione si manifestassero nella realtà storica allo stato puro, come due polarità entrambe impermeabili al linguaggio dell’altra, la violenza — il potere bruto — non potrebbe non prevalere, e l’umanità non si sarebbe mai sollevata dallo stadio della barbarie. Se ciò non è accaduto, è perché in certe circostanze storiche la verità diventa potere.

Ma la ragione, il dialogo, la trasparenza comunicativa sono legati alla rivoluzione sotto un altro aspetto. Se è vero che, contrariamente a quanto credeva il Platone della Repubblica, non è la paideia che rende inutili le leggi, ma sono le leggi che educano gli uomini, e che quindi bisogna cambiare le leggi per cambiare gli uomini, è anche vero che sono gli uomini, a loro volta, che cambiano le leggi, e che quindi per cambiare le leggi bisogna cambiare gli uomini. La ragione coincide con lo Stato soltanto al limite ma, nella transizione, la messa in discussione delle limitazioni delle forme storicamente esistenti di Stato per opera dell’azione rivoluzionaria presuppone che la ragione si possa manifestare anche fuori dallo Stato.

Ciò non significa che essa si manifesti indipendentemente dallo Stato, perché il disegno rivoluzionario si definisce esclusivamente contrapponendosi alle limitazioni dello Stato esistente, e quindi non potrebbe esistere senza lo Stato. Ma si tratta pur sempre di una manifestazione della ragione che va al di là dello Stato, e che quindi non è condizionata dalle istituzioni esistenti, o ne è condizionata soltanto in quanto queste recano in sé stesse in filigrana l’immagine virtuale della propria realizzazione compiuta.

I portatori di questa ragione al di fuori dello Stato, o piuttosto all’interno dello Stato nella sua forma futura, sono i gruppi rivoluzionari. In quanto tali, essi possono sopravvivere e rafforzarsi soltanto se i rapporti tra i loro membri sono ispirati ai valori che danno un senso al loro progetto. Proprio perché per essi la ragione non è ancorata nello Stato, contro il quale essi si battono, le loro motivazioni devono essere rigorosamente autonome, cioè morali, e i loro rapporti fondati sul dialogo e la solidarietà. Se ognuno di essi usasse i suoi compagni di lotta — attuali e potenziali — come strumenti, il disegno rivoluzionario sarebbe in partenza destinato a soccombere perché privato della sua sola forza. L’ideale di un mondo senza violenza deve quindi prendere corpo in nuce nei rapporti tra coloro che sono consapevolmente impegnati per la sua realizzazione.

Vero è che l’ideale si realizzerà comunque in un modo imperfetto perché gli uomini non sono angeli. Ma è altrettanto vero che questo è l’ideale che deve essere costantemente perseguito.

 

Appendice

1. Sul “dire ciò che si pensa”. 2. Norma giuridica e incompatibilità degli standards morali concreti. 3. Progresso e responsabilità.
 

1. Sul “dire ciò che si pensa”.

 L’opinione che la verità sia soggettiva, cioè relativa, è entrata nel modo di pensare comune. I giornali sono pieni di confessioni di personaggi che raccontano la propria verità su qualcosa. La virtù della sincerità acquista in questo modo un significato equivoco. Il dovere di essere sinceri non si identifica più con quello di dire la verità, bensì con quello di dire ciò che si pensa. Ma in questa accezione il termine “sincerità” diventa ambiguo perché conferisce un valore assoluto all’espressione del proprio pensiero, quale che esso sia, a scapito del dovere di pensare la verità. Di fatto chi, in nome della sincerità, esprime pensieri falsi, o volgari, o malvagi, non compie un atto di sincerità, ma di falsità, o di volgarità, o di malvagità. La morale non comanda di dire ciò che si pensa, ma di pensare prima di parlare, evitando di esprimere giudizi avventati e opinioni arbitrarie.

In realtà la sincerità, intesa nel suo senso equivoco, può diventare superficialità, o impudicizia, o aggressività, o tutte queste cose insieme. Non per nulla il vanto di dire sempre quello che si pensa è caratteristico delle persone sciocche e litigiose. Essere sinceri nel senso vero della parola significa compiere quella faticosa opera di identificazione con la realtà — comunque la si voglia intendere — che comporta la rinuncia a far valere la propria opinione nel solo intento di prevalere sugli altri.
 

2. Norma giuridica e incompatibilità degli standards morali concreti.

Secondo Kant, il diritto è “l’insieme delle condizioni nelle quali il volere di ciascuno può coesistere con il volere degli altri secondo una legge generale della libertà”.[41] Io penso che si tratti di una definizione del tutto corretta, purché si tenga presente che essa è soltanto formale. È quindi impossibile, contrariamente a quanto Kant pensava, costruire, se non in astratto, il contenuto del diritto a partire da questa definizione. Si può cioè stabilire in astratto che ciascuno ha diritto alla tutela di una sfera privata, della proprietà, dell’incolumità personale, della libera espressione delle proprie opinioni, ecc.. Ma quando si tratta di stabilire in concreto il contenuto di queste libertà nascono infinite difficoltà, perché, comunque lo si definisca, la loro tutela, in certe circostanze, non può non ledere quelle che gli altri pensano essere le loro libertà. Il contenuto del diritto non può quindi essere costruito partendo dal suo concetto, ma deve essere stabilito sulla base degli standards etici prevalenti in una certa società. Se non esistono standards comuni, nessuna norma può realizzare il rispetto della libertà di tutti, perché in ogni caso qualcuno sentirà la propria libertà violata da comportamenti che altri riterranno legittimamente rientranti nella propria sfera di libertà. La norma che ne risulterà sarà quindi sempre il risultato della prevaricazione di una parte della società sull’altra, e quindi non sarà che imperfettamente giuridica.

Questo problema, che è sempre esistito e ha sempre reso problematica la legittimità di ogni ordinamento, sta diventando acuto ai nostri giorni perché l’aumento dell’interdipendenza e la conseguente diffusione della consapevolezza degli spaventosi squilibri economico-sociali che esistono tra le diverse regioni del mondo danno un impulso irresistibile al fenomeno della migrazione di grandi masse di popolazione dai paesi più poveri ai paesi più ricchi del pianeta, mettendo in questo modo a contatto culture incompatibili. Ne viene di conseguenza che gli ordinamenti giuridici della parte sviluppata del mondo incominciano ad essere messi alla prova da conflitti provocati da comportamenti che per taluni sono l’espressione di doveri etico-religiosi, o comunque sono perfettamente legittimi, mentre da altri sono percepiti come offensivi, al punto da essere penalmente sanzionati (come la poligamia, o l’omicidio per ragioni religiose). Queste contraddizioni potevano essere sottolineate con compiacimento accademico, in quanto prova della validità delle teorie della relatività dei valori e della incomunicabilità delle culture, fino a che i contrastanti comportamenti che li determinavano erano tenuti da popolazioni prive di rapporti tra di loro (che non fossero quelli assicurati da qualche antropologo che faceva la spola tra le foreste dell’Amazzonia e i salotti di Parigi); mentre provocano problemi drammatici da quando si sono stabiliti contatti interetnici che coinvolgono intere comunità, che si sentono reciprocamente minacciate nei valori sui quali si fonda la loro identità.

In questa situazione la risposta non può essere la tolleranza, che è un atteggiamento che non si può manifestare nei confronti della diversità radicale, ma soltanto nei confronti di quella relativa, in un quadro di sostanziale omogeneità dei valori di fondo. Quando ci troviamo di fronte a comportamenti che la nostra civiltà condanna come criminali, la tolleranza si identifica con la complicità, ed è criminale essa stessa. Essa diventa un atteggiamento caratteristico dei privilegiati, che la professano al riparo dei cancelli dei loro palazzi, mentre i pezzenti si scannano per le strade; e scompare non appena i cancelli vengono abbattuti. Del resto la predicazione della tolleranza si rivela nella realtà come del tutto inutile, perché di fatto i conflitti si risolvono con la violenza, anche se si può trattare di una violenza rivestita con i panni del diritto.

I problemi posti dai contatti traumatici tra culture radicalmente diverse che caratterizzano la nostra epoca e caratterizzeranno in modo assai più drammatico gli anni a venire non hanno una soluzione giusta — cioè una soluzione che tuteli la sfera di libertà sentita oggi come legittima da ciascuna delle parti coinvolte. Si tratterà sempre di soluzioni ingiuste, cioè con un contenuto di violenza, quali che ne siano le vittime. Il che non toglie che, da un lato, il problema è posto dalla realtà, e chiede una risposta; e che, dall’altro, vi sono risposte meno ingiuste di altre, capaci di facilitare un’evoluzione della convivenza verso situazioni compatibili con una regolamentazione fondata veramente sul diritto, anziché sulla forza.

Comunque non sarà certo la filosofia di Lévy-Strauss che permetterà al mondo di superare i traumi che si sta preparando a subire a causa dei contatti sempre più intensi, massicci e frequenti tra culture che oggi sono radicalmente incompatibili. Il regno del diritto non nascerà in società divise in compartimenti stagni, nelle quali le comunità di cultura non comunicano e dove ciò che è un dovere per me è un delitto per il mio vicino; ma quando tutti gli uomini del mondo concorderanno sul contenuto che deve avere la libertà di ciascuno, cioè quando vi sarà un sistema di valori fondamentali universalmente condiviso, e, in questo quadro, le diversità tra le culture non saranno percepite come violazioni della libertà di qualcuno, ma come fattore di arricchimento per tutti.

Il diritto quindi, se da un lato è il presupposto di una piena Verständigung universale, dall’altro è fondato a sua volta da un accordo virtuale, che attende soltanto la sanzione della norma giuridica per realizzarsi concretamente.

Una politica aperta ed evolutiva non può di fatto essere oggi concepita che sulla base della fiducia razionale che un avvicinamento progressivo e controllato tra culture profondamente diverse sia destinato a condurre, seppure al termine di un cammino costellato di difficoltà, ad una fusione universale degli orizzonti, cioè alla formazione di un unico sistema di valori fondamentali, senza il quale — tra l’altro — non vi può essere pluralismo, che è un fattore di arricchimento culturale soltanto in quanto si collochi nel quadro di un’unica comunità di comunicazione.
 

3. Progresso e responsabilità.

Secondo Jonas[42] l’idea di progresso è incompatibile con quella di responsabilità, in quanto quest’ultima presuppone che il futuro sia incerto e dipenda dalle libere decisioni degli uomini. Si tratta di una contraddizione che viene in particolare evidenza nel mondo di oggi, che è concretamente minacciato di estinzione se il genere umano non si comporterà responsabilmente nei confronti dei problemi della sovrappopolazione, dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili e dell’inquinamento.

A mio avviso le conclusioni di Jonas non sono fondate. Quella che è radicalmente incompatibile con la responsabilità è piuttosto una concezione casuale della storia, che presuppone che la libertà di scelta e di azione dell’individuo sia completamente annullata dalle forze cieche della violenza e del caos. In questo caso verrebbe a mancare la dimensione del futuro, che è quella della responsabilità, cioè della previsione delle conseguenze delle proprie azioni.

Del resto, come è stato in precedenza sottolineato, l’idea di progresso non appartiene alla sfera della ragione teorica, cioè non si astrae dall’osservazione dei fatti, ma è un postulato della ragion pratica, che si deve accettare in quanto si ammetta, nella sfera della politica, la possibilità di un’azione libera, e quindi responsabile. Bisogna aggiungere che, nella particolare situazione di oggi, chi non sia sorretto dalla fiducia che le forme di convivenza tra gli uomini siano destinate a migliorare mancherebbe totalmente di stimoli a lottare per fermare il processo di degrado del pianeta verso la propria distruzione. Perché questi stimoli rimangano e si rafforzino si deve credere nella ragione. Ma la ragione è ciò che unisce gli uomini. Credere nella ragione significa quindi pensare che essa — attraverso le istituzioni — si diffonda e si affermi. Significa cioè credere nella ragione degli altri, che insieme a noi fanno la storia, evitando l’insensato peccato di presunzione che consiste nel credere che la responsabilità, e quindi la ragione, riguardi soltanto noi mentre la storia — cioè gli altri — rimane in balia degli impulsi ciechi del caso. Il che è opportuno ribadirlo — non comporta la negazione della presenza del male radicale, senza la quale l’uomo sarebbe angelo o animale, ma la convinzione che la lotta tra il bene e il male nel teatro dell’anima individuale sia destinata a svolgersi nel quadro di condizioni di convivenza sempre più avanzate.

Il che equivale a dire che, mentre per la coscienza individuale necessità e libertà si presentano — e si presenteranno sempre — come i termini di una contraddizione, il cammino della specie è guidato dalla necessità della libertà.


* Questo saggio è apparso su Il Federalista 32, n. 2 (1990), p. 113.

[1] I. Kant, Zum ewigen Frieden, pp. 232 sgg., Vol. V dell’edizione Insel Verlag, Wiesbaden, 1960.

[2] Si tratta di una problematica che è presente in tutta la filosofia di Husserl. Peraltro il problema del carattere radicale della filosofia è trattato specificamente nel saggio Die Philosophie als strenge Wissenschaft, pubblicato in Logos, 1 (1910/11), (I.C.B. Mohr), mentre il rapporto della filosofia con la Lebenswelt è il tema della Krisis.

[3] Qui sto, e non posso fare altrimenti.

[4] V. per tutti Jean-François Lyotard, La condition postmoderne, Parigi, Les Editions de Minuit, 1979.

[5] La teoria della fine delle ideologie nacque in America con l’opera di Daniel Bell, The End of Ideologies, New York, The Free Press, 1960.

[6] Citato da Hennann Diels, Fragmente der Vorsokratiker, 1903, pp. 258-59, Vol. II della 16a edizione a cura di Walter Kranz, Dublino-Zurigo, Weidmann.

[7] Si veda soprattutto l’introduzione a Eric Weil, Logique de la philosophie, Parigi, Vrin, 1967.

[8] In Michel Foucault, Les mots et les choses, Parigi, Gallimard, 1966.

[9] Si vedano a questo proposito i bei saggi di Herbert Butterfield contenuti nel volume Man on His Past, Cambridge, C.U.P., 1969.

[10] Jacques Derrida, De la grammatologie, Parigi, Les Editions de Minuit, 1967.

[11] Martin Heidegger, Sein und Zeit, 1927, consultato nell’edizione Max Niemeyer Verlag, Tubinga, 1963, pp. 385 sgg.

[12] V. in particolare Martin Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes in Holzwege, 1950, consultato nella 4a edizione pubblicata da Klostermann Verlag, Francoforte sul Meno.

[13] In Hennann Diels, Fragmente der Vorsokratiker, op. cit. vol. 1, p. 172.

[14] Charles Peirce, What Pragmatism Is, The Monist, 15 (aprile 1905), citato da Philip P. Wiener, ed., Selected Writings, New York, Dover Publications, p. 194.

[15] Friedrich Schleiermacher, Hermenetaik und Kritik, 1838, citato dall’edizione a cura di Manfred Frank, Francoforte sul Meno, Suhrkamp Verlag, 1977, p. 97.

[16] Hans-Georg Gadamer, Rhetorik, Hermeneutik und Ideologiekritik, in AA.VV., Hermeneutik und Ideologiekritik, Francoforte sul Meno, Suhrkamp Verlag, p. 69.

[17] Sein und Zeit, op. cit., p. 406.

[18] Georg Wilhelm Friedrik Hegel, Philosophie des Rechts, 1830. Sul concetto di Überzeugung v. il § 140. Sulla Sittlichkeit v. i §§ 141 sgg.

[19] Charles Peirce, Some Consequences of Four Incapacities, Journal of Speculative Philosophy, 2 (1868), citato da Philip P. Wiener, ed., Selected Writings, op.cit., pp. 39 sgg.

[20] Gianni Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovati (a cura di), Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 26.

[21] V. in particolare il già citato saggio di Hans-Georg Gadamer, Rhetorik, Hermeneutik und Ideologiekritik, nonché la Replik, in AA.VV. Hermeneutik und Ideologiekritik, op. cit.. Nello stesso volume, v. Jürgen Habermas, Zu Gadamers ‘Wahrheit und Methode’ e Der Universalanspruch der Hermeneutik.

[22] La filosofia della conoscenza di Popper è contenuta soprattutto in Logik der Forschung, Vienna, Julius Springer Verlag, 1935, rivisto in successive edizioni fino alla 9a (Tubinga, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1989), e in Conjectures and Refutations, Londra, Routledge and Kegan Paul, 1963, consultato nella 5a edizione rivista del 1974. La sua critica della metafisica è contenuta in The Open Society and its Enemies, Londra, Routledge and Kegan Paul, 1952, e The Poverty of Historicism, Londra, Routledge and Kegan Paul, 1957.

[23] Thomas Kuhn, Structure of Scientific Revolutions, Chicago e Londra, The University of Chicago Press, 1962 e The Essential Tension, Chicago e Londra, The University of Chicago Press, 1977.

[24] Topica, 100a e 100b.

[25] Jürgen Habermas, Zu Gadamers ‘Wahrheit und Methode’ e Der Universalanspruch der Hermeneutik, op.cit.. V. anche i saggi contenuti in Id., Technik und Wissenschaft als Ideologie, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1968.

[26] Karl Mannheim, Beitrage zum Sinn der Weltanschauungs – Interpretation, Jahrbuch für Kunstgeschichte, I (XV) , 4, (1921-22), ripreso dalla raccolta di scritti a cura di Heinz Maus e Friedrich Fürstenberg, Wissenssoziologie, Berlino e Neuwied, Luchterhand Verlag, 1964, p. 91.

[27] Friedrich Meinecke, Die Idee der Staatsräson, 1924, consultato nell’edizione Oldenbourg, Monaco, 1957, p. 10.

[28] Ibid., p. 13.

[29] Karl-Otto Apel, Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft in Id., Transformationen der Philosophie, Francoforte sul Meno, Suhrkamp Verlag, 1976, vol. II, p. 425.

[30] Ripreso da Karl-Otto Apel, Das Apriori…, op.cit., vol. II, p. 424.

[31] Paul Feyerabend, How to Defend Society Against Science, in Ian Hacking, ed., Scientific Revolutions, Oxford, O.U.P., 1981.

[32] Mario Albertini, Vers une théorie positive du fédéralisme, Le Fédéraliste, 5 (1963), pp. 251 sgg.

[33] Carl Schmitt, Verfassungslehre (1928), consultato nell’edizione del 1983 pubblicata da Duncker & Humblot, Berlino, pp. 238-39.

[34] Eric Weil, Philosophie politique, Parigi, Vrin, 1971, p. 159.

[35] Jürgen Habermas, Naturrecht und Revolution, in Id., Theorie und Praxis, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1971, pp. 89 sgg.

[36] Platone, Apologia di Socrate, 31 e 32-34.

[37] V. per esempio Oscar Cullmann, Jesus und die Revolutionären seiner Zeit, Tubinga, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1970.

[38] Edmund Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, L’Aja, Martinus Nijhoff, 1962, p. 15.

[39] Max Weber, Politik als Beruf (1919) ora in Id., Gesammelte politische Schriften, Tubinga, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1958.

[40] Questa idea è usata come criterio storiografico da Hennann Hintze. V. il saggio Staatenbildung und Verfassungsentwicklung in Id., Staat und Verfassung, Gesammelte Abhandlungen zur allgemeinen Verfassungsgeschichte, Gottinga, Vandenhoek & Ruprecht, 1978.

[41] I. Kant, Metaphysik der Sitten, p. 337, Vol. IV dell’edizione Insel Verlag, Wiesbaden, 1960.

[42] Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung, 1979, consultato nell’edizione Suhrkamp, Francoforte sul Meno, 1984, pp. 245 sgg.

 

 

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