IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXVI, 1994, Numero 2, Pagina 127

 


EDUCAZIONE E FORMAZIONE NEL PIANO DELORS
 
 
La crisi economica che attanaglia l’Europa e che, con la crescente disoccupazione, produce enormi problemi sociali, unita all’ondata di euroscetticismo sulla possibilità di realizzare l’Unione politica conseguente alle vicende del Trattato di Maastricht, sta creando uno sconcerto di tali dimensioni, da far apparire credibili tesi catastrofiste come quella di chi[1] va pronosticando per il vecchio continente l’avvento di un «nuovo Medio Evo».
Fra le molte conseguenze di questo clima, che rende difficile concepire un futuro di progresso per l’economia e la società europee, va segnalata la situazione di grande disorientamento generatasi nel mondo dell’educazione. Si tratta di un disorientamento legittimo, data l’enorme contraddittorietà fra le richieste che oggi si rivolgono agli educatori e le risorse offerte loro. Da un lato, essi hanno la responsabilità di offrire ai giovani — i protagonisti di domani della vita politica, economica e sociale — le risorse culturali, professionali, di valore, adeguate a gestire al meglio le loro capacità individuali e collettive. D’altro lato, si chiede al mondo dell’educazione e della formazione di cambiare, senza offrire i necessari supporti istituzionali e materiali e, soprattutto, senza fare chiarezza sulla direzione che deve prendere il cambiamento.
In altri termini, in questo dibattito non si considera che, se si vuole pensare seriamente al futuro dell’educazione, bisogna misurarsi con uno scenario economico-sociale alternativo a quello attuale, coerente con i grandi cambiamenti in atto nel mondo.
Non si tratta di un’impresa impossibile, anche se richiede il coraggio di ragionare in modo nuovo, recuperando una prospettiva storica che oggi si va perdendo. Questa prospettiva si trova nel Libro Bianco di Delors.[2] Esso rappresenta, nella sua logica di fondo, il tentativo di pensare a ciò che occorre fare oggi per poter compiutamente realizzare, nel futuro, un nuovo modello di società.
Il Piano Delors è ormai sul terreno: benché non ancora sorretto da una chiara volontà politica dei partiti e dei governi europei, è stato adottato dal Consiglio europeo del dicembre 1993 a Bruxelles. Esso costituisce, oggettivamente, una delle alternative — se non l’unica alternativa chiara — con le quali ci si deve confrontare, quando la posta in gioco è la pensabilità del futuro per le giovani generazioni.
 
La natura del Piano Delors.
 
I federalisti hanno definito il Piano Delors un vero e proprio programma di governo per l’Europa. Ciò che giustifica questo giudizio è, soprattutto, la particolare prospettiva da cui il Piano prende le mosse per affrontare i problemi dell’occupazione e dello sviluppo in Europa. Si tratta di una prospettiva di ampio respiro, sia sotto il profilo degli orizzonti temporali e tematici che prende in considerazione, sia sotto quello, ancor più rilevante, della scelta politico-ideale che la guida.
Dal primo punto di vista, il carattere esplicito del Piano è quello di voler guardare lontano, proiettandosi nello scenario economico e sociale che si apre con il XXI secolo. In questo senso, come si vedrà più avanti, il Piano cerca di configurare un quadro globale delle trasformazioni in atto oggi, come conseguenza di ciò che si può definire sinteticamente «l’avvento del modo di produrre post-industriale», ricorrendo ad un’espressione che, in questo contesto, sta ad indicare l’assetto economico e sociale conseguente alla rivoluzione scientifica e tecnologica o, come dicono alcuni, alla seconda rivoluzione industriale.
Per quanto riguarda la seconda caratteristica, va detto che, benché non esplicitata chiaramente, la scelta che balza agli occhi leggendo il Libro Bianco riguarda due questioni di fondo: a) il futuro istituzionale dell’Europa, in quanto vengono proposti degli interventi realizzabili compiutamente solo da parte di un governo democratico dell’Unione; b) i valori che dovranno guidare lo sviluppo della società europea. Sotto questo profilo, il Libro Bianco va decisamente contro corrente rispetto al neoliberismo ed al tecnicismo esasperati che, insieme al nazionalismo, oggi sembrano rispuntare in molti paesi europei. In effetti, uno dei presupposti di fondo delle scelte di politica economica del Piano è che un’economia sana e competitiva comporta necessariamente la salvaguardia di valori irrinunciabili quali la solidarietà —interna ed internazionale —, il diritto di ogni individuo ad un lavoro e, in generale, ad una vita non alienata, nonché il rispetto degli equilibri ecologici a tutti i livelli — dall’habitus quotidiano all’intero pianeta.
Quando parla di «nuovo modello di sviluppo», dunque, Delors va ben oltre l’obiettivo esplicito di formulare una strategia di politica economica che garantisca «crescita, competitività ed occupazione» in Europa. Lo si deduce, per esempio, dal fatto che, parallelamente a linee di azione che consentano di sfruttare tutte le opportunità offerte dalla rivoluzione scientifico-tecnologica, nel Piano c’è la preoccupazione costante di mettere a fuoco i correttivi necessari perché il processo di trasformazione dell’economia e della società avvenga in modo controllato e solidaristico.
Con questo orientamento, il Libro Bianco dedica un’attenzione particolare alla proposta di nuove strategie educative e della formazione, concepite come «la via da percorrere» necessariamente oggi. Ciò per due ragioni: garantire all’economia il «capitale umano» del quale ha bisogno nell’era tecnologica ed offrire al cittadino europeo tutte le risorse, educative, formative e culturali[3] cui ha diritto per la sua crescita umana, oltre che per il suo benessere economico.
 
Il punto di partenza: le caratteristiche della crisi economica e della disoccupazione in Europa.
 
L’economia europea oggi è incapace di reggere la concorrenza internazionale per ragioni che sono, al contempo, contingenti, strutturali e tecnologiche. In questa situazione, la disoccupazione — che è diventata il problema prioritario degli Stati europei — aumenta progressivamente.
Poiché il fenomeno non ha soltanto caratteri congiunturali, è evidente come, per invertire il trend, non sia sufficiente ricorrere a provvedimenti tampone. La «disoccupazione congiunturale», spiega il Libro Bianco, si è venuta sovrapponendo negli ultimi anni — aggravandone le dimensioni — ad una disoccupazione di carattere strutturale ed all’espulsione di un buon numero di lavoratori dalle imprese che hanno adottato processi automatizzati nella produzione — la cosiddetta disoccupazione tecnologica. La disoccupazione strutturale è dovuta al fatto che oggi l’Europa sta pagando, con la perdita di competitività, quindi con la diminuzione costante del tasso di crescita, il suo appiattimento su un modello di sviluppo ormai superato dall’avvento della rivoluzione scientifica e tecnologica. La soluzione del problema non è comunque proponibile solo in termini di ammodernamento degli impianti. In effetti, la questione è molto più complessa, come mostra il dibattito sviluppatosi, a partire dagli anni ‘50,[4] sulle conseguenze sociali dell’automazione. Se l’introduzione di processi altamente automatizzati, resi possibili dalle nuove tecnologie, non si realizza nel quadro di una strategia globale di investimenti in nuovi settori di attività e nella riqualificazione della forza lavoro non specializzata, si rischia di aumentare, anziché diminuire la disoccupazione. E’ quanto sta accadendo in Europa, dove l’introduzione del progresso tecnico in alcuni ambiti produttivi non si è accompagnata ad interventi atti a colmare la «sfasatura» che dà alimento alla disoccupazione tecnologica. Come si legge nel Libro Bianco, questa sfasatura riguarda «da una parte, la velocità del progresso tecnico il quale verte essenzialmente sul ‘come produrre’ (processi di fabbricazione e organizzazione del lavoro) ed è pertanto distruttore di posti di lavoro e, dall’altra, la nostra facoltà di prevedere nuove esigenze (individuali o collettive) o nuovi prodotti che potrebbero rappresentare nuovi bacini di impiego».[5]
La questione di fondo è che il modello di sviluppo prodotto dalla rivoluzione industriale non regge più. Tuttavia, questa consapevolezza, accompagnata dalla volontà degli operatori economici di adeguarsi al cambiamento, non è sufficiente, in sé, a risolvere il problema. Occorrono dei punti di riferimento politico-istituzionali che abbiano il potere di «dare un indirizzo» nuovo allo sviluppo, poggiando su una diagnosi chiara dei caratteri che questo sviluppo deve avere.
Il Libro Bianco cerca di rispondere a questa esigenza. Vediamo come.
 
Lo scenario: economia e società verso il XXI secolo.
 
La rivoluzione industriale, i cui effetti si sono dispiegati compiutamente nel corso del XIX secolo, ha cambiato il modo di lavorare e di vivere degli uomini. Gli elementi centrali di questo mutamento sono la trasformazione dell’artigiano in operaio e quella del suddito in cittadino. Nascono non solo le fabbriche, ma anche gli Stati, le città, le comunicazioni, i consumi, la scuola, i servizi, le formazioni politiche, le tendenze culturali ed artistiche della storia contemporanea.
La seconda rivoluzione industriale, che è già iniziata e segnerà la storia del XXI secolo, è destinata a produrre mutamenti altrettanto radicali nelle forme materiali, istituzionali e culturali della vita associata.
Si possono individuare tre elementi-cardine di questa rivoluzione, che nella realtà si presentano come aspetti interrelati di un unico processo.
Il primo è la liberazione di una enorme quantità di energie e di tempo per l’uomo, grazie all’introduzione di macchine capaci di sottrarlo alle mansioni di tipo materiale e meramente esecutive: l’operaio è sostituito dal tecnico e dallo scienziato.
Il problema del tempo libero o liberato, di una diversa articolazione fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro — in cui si inserisce la questione della diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro[6] — diventa centrale in questa prospettiva. Delors ne è consapevole, benché non lo affronti esplicitamente. Nel Libro Bianco si preferisce, probabilmente per ragioni tattiche, lasciarlo sotteso ad alcune scelte dal significato comunque preciso — come quella di puntare sulla «formazione continua» che comporta interruzioni anche lunghe nel tempo di lavoro — o attraverso rapidi incisi, come quelli che si ritrovano nelle proposte su «Flessibilità e creazione di occupazione».
Il secondo elemento si collega al fatto che la scienza e la tecnologia costituiscono la risorsa principale dell’economia. Questo significa che la produzione, quindi il lavoro, si smaterializzano, diventano ricerca, elaborazione e scambio di informazioni. Il capitale umano è l’elemento centrale dello sviluppo. Le capacità del nuovo lavoratore ruotano attorno ai concetti di creatività, flessibilità, formazione continua.
Il primato della creazione e dello scambio dell’informazione, in primo luogo nell’ambito produttivo, rende pensabile anche la scomparsa della fabbrica, o per lo meno della fabbrica tradizionale. Per fare solo un esempio, basti riflettere sulle conseguenze, anche in termini di sviluppo urbanistico e di organizzazione del territorio, che si potrebbero produrre se,per talune mansioni, si sviluppasse il telelavoro — un’ipotesi contemplata anche dal Libro Bianco — da svolgersi a casa propria, via computer.
Il terzo elemento consiste nella progressiva estensione dell’area di interdipendenza fra gli uomini, fino a comprendere l’intero contesto mondiale e tutte le sfere di attività. Già oggi l’informazione può essere trasmessa in tempo reale da un capo all’altro del globo; la comunità scientifica ha riferimenti planetari; la mobilità degli uomini fra Stati e continenti è un fatto quotidiano; i grandi mercati di beni e capitali sono mondiali; lo stesso mercato del lavoro finirà per assumere questa dimensione.
Tutto ciò porta a configurare non solo un nuovo lavoratore, ma — esplicitando una componente che non appare, o non appare apertamente nel Libro Bianco — anche un nuovo cittadino.
La novità consiste, in primo luogo, nel fatto che il mondo intero — che costituisce il livello in cui ci si pone ormai normalmente per molti aspetti della propria vita quotidiana — diventa una comunità di destino, un punto di riferimento per il proprio senso di appartenenza. Si tratta di una comunità nella quale è altrettanto importante sentirsi uguali a persone che abitano dall’altra parte del globo e, nel contempo, salvaguardare le proprie radici culturali, quelle che ci ancorano all’ambito immediato della vita di relazione. In secondo luogo, aumentando il tempo liberato dal lavoro e le risorse personali e culturali, i cittadini possono mettere buona parte delle loro energie a disposizione di attività volontarie per la collettività, prima fra tutte la partecipazione alla vita politica, soprattutto nella comunità locale.
In questo scenario diventa chiaro perché oggi siano in crisi i sistemi educativi e formativi tradizionali, nati non solo per formare il lavoratore richiesto dal vecchio modo di produrre, ma soprattutto per creare il cittadino dello Stato-nazione, centralizzato e chiuso entro le sue frontiere.
La «pluralità di appartenenze», che vanno dalla comunità locale al mondo, comporta un assetto istituzionale adeguato alla gestione democratica delle questioni che si pongono ai diversi livelli. Il nuovo cittadino è cosmopolita, la nuova società è multiculturale. Per gestire questa realtà, occorre una nuova forma di statualità, che garantisca l’unità nella diversità e la democrazia a tutti i livelli. Dal criterio nazionale bisogna passare a quello federale — in prospettiva continentale e mondiale.
Su questo punto, tuttavia, il Libro Bianco mostra il suo limite maggiore. Da un lato, delinea un quadro che presuppone un nuovo assetto istituzionale. Dall’altro, lascia la questione sullo sfondo, generando una contraddizione fra lo scenario delle trasformazioni in atto nel mondo, tratteggiato nella prima parte, che inevitabilmente comportano la creazione di autorità di governo democratiche a livello sovranazionale e il fatto che, nella seconda parte, la responsabilità di realizzare il Piano viene attribuita agli attuali organi della Comunità. Questi organi hanno, da tempo, dato prova di inefficacia politica, imbrigliati come sono dalla loro sostanziale non democraticità: essi gestiscono gli affari europei ricorrendo allo strumento dei Trattati e degli accordi intergovernativi fondati sulla regola dell’unanimità, anziché sulla base di una costituzione e della dialettica democratica posta sotto il controllo dei cittadini.
Questa ambiguità finisce per mettere in discussione la realizzabilità stessa del Piano. Lo si può vedere chiaramente a proposito della politica dell’educazione e della formazione.
 
L’educazione e la formazione nella prospettiva del XXI secolo.
 
Il Libro Bianco, coerentemente con lo scenario che lascia intravedere, annette un’importanza centrale al problema educativo e formativo. In esso troviamo sia indicazioni di intervento a breve termine — pensate per ridurre la disoccupazione di chi oggi si affaccia sul mondo del lavoro senza una qualifica adeguata — sia le linee di una strategia di lungo periodo, che collega i nuovi orientamenti educativi alle trasformazioni dell’economia, della società e dello Stato, cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente. Gli assi portanti della trasformazione che, già oggi, bisogna incominciare ad avviare nei sistemi dell’educazione e della formazione sono — estrapolando dalle indicazioni sia di breve che di lungo periodo il concetto di educazione permanente, quello di flessibilità e creatività e quello di interdipendenza — orizzontale e verticale.
Per educazione permanente — o istruzione/formazione continua, come si legge nel Libro Bianco — si intende un diverso modo di scandire, nel corso della vita, il tempo passato nella scuola (o entro un sistema di formazione, se si preferisce) e quello passato sul luogo di lavoro. Oggi, questi due tempi sono ancora concepiti come separati, con un criterio sequenziale molto netto: prima ci si forma (sui banchi di scuola, in genere), poi si chiude con questa esperienza per entrare definitivamente nel mondo del lavoro. Qualche eccezione a tale logica, in realtà, già incomincia a farsi strada. Per talune professioni (ad es. l’insegnamento) si svolgono corsi di aggiornamento, che solitamente non interrompono nettamente la fase lavorativa; in alcuni paesi europei (come la Francia e la Germania) sono previsti, a livello secondario, indirizzi (di tipo tecnico) che contemplano anche inserimenti temporanei nel mondo del lavoro (solitamente fasi di apprendistato da svolgere durante le vacanze estive o verso la fine degli studi); si stanno sviluppando iniziative di «ritorno a scuola» al termine della vita attiva, come quelle connesse, in Italia, ai corsi della cosiddetta «Università della Terza Età». L’idea di educazione (o formazione) permanente, tuttavia, comporta un mutamento molto più complesso e radicale, connettendosi ad una logica di stretta interdipendenza fra mondo dell’educazione e mondo del lavoro, fra il settore pubblico e quello privato, che oggi non si riscontra ancora in Europa.
In tema di educazione permanente, il suggerimento di fondo è quello di rivisitare i sistemi formativi «in funzione delle necessità sempre crescenti di ricomposizione e di ricostruzione permanenti delle conoscenze e del know how… Il varo di sistemi più flessibili e aperti di formazione, e lo sviluppo delle capacità di adeguamento degli individui si riveleranno infatti sempre più necessari sia alle imprese, per avvalersi al meglio delle innovazioni tecnologiche da esse acquisite o messe a punto, sia agli individui stessi, un’aliquota importante dei quali rischia di dover cambiare attività professionale quattro o cinque volte nel corso della propria vita attiva».[7]
Nel passo citato, si mette chiaramente in luce il nesso fra il concetto di formazione continua e quello di flessibilità e creatività che costituisce il secondo carattere di novità cui ci siamo riferiti in precedenza. Quanto detto sin qui giustifica in modo quasi intuitivo l’affermazione secondo la quale la trasformazione dei sistemi educativi e formativi si deve orientare a criteri che pongano in primo piano la flessibilità e la creatività. Non è quindi il caso di aggiungere molto in proposito, tuttavia va sottolineato che il riferimento alla flessibilità e creatività permette di tranciare la questione ormai pluridecennale che oppone nei paesi occidentali due orientamenti differenti per la riforma della scuola secondaria. Da un lato vi sono i fautori di una riforma modellata su criteri strettamente professionalizzanti, con scelte precoci; d’altro lato, vi è chi sostiene la necessità di privilegiare, in questa riforma, curricula formativi di base, con una posticipazione del momento della formazione professionale in senso stretto. Guardando al lungo periodo, il Libro Bianco si colloca decisamente in quest’ultima prospettiva: una formazione di base che dovrebbe caratterizzare la permanenza a scuola fino ai 18 anni, un periodo di specializzazione a livello universitario o para-universitario e, per il resto della vita attiva, una serie di ripetuti reingressi nel mondo della formazione, coincidenti con stacchi temporanei dal lavoro (formazione permanente).
Un più stretto contatto fra mondo della scuola e della formazione, da un lato, e mondo del lavoro, dall’altro, una maggiore interconnessione fra pubblico e privato, una forte mobilità interna del lavoro — possibilità di passare più volte ad attività professionali diverse — sono tutti elementi cui si è già accennato, che contribuiscono a caratterizzare quella che potremmo definire sinteticamente l’interdipendenza orizzontale. Questa interdipendenza dovrebbe essere favorita dalla creazione, in una prospettiva di decentramento, di «bacini d’impiego» a livello locale.
Vi è tuttavia anche un criterio di interdipendenza verticale, nel senso che la nascita di un mercato del lavoro europeo presuppone l’eliminazione di tutti gli ostacoli — culturali e professionali, oltre che normativi — che si frappongono alla mobilità geografica dei lavoratori. In questo senso vanno intese tutte le proposte atte ad intensificare gli scambi di studenti, docenti, apprendisti, a coordinare ed armonizzare le iniziative educative, a favorire il cosiddetto «insegnamento a distanza». L’interdipendenza e gli scambi sono altrettanto cruciali nel campo della ricerca, dove si deve sollecitare non solo un più stretto rapporto tra pubblici poteri, università/centri ed imprese, ma anche un trasferimento continuo di informazioni e risorse tra differenti livelli e contesti. La necessità di stimolare e organizzare tutte queste aree interrelate di attività, chiama in causa il ruolo delle autorità nazionali e sovranazionali.
 
Le responsabilità nel campo educativo e formativo.
 
Il Libro Bianco prevede l’attribuzione di precise responsabilità a più livelli di governo.
Gli organismi locali devono gestire i bacini di impiego e le aree di interdipendenza fra scuola e imprese che dovrebbero stimolare l’allocazione ottimale delle risorse umane sul mercato del lavoro locale — inteso come l’unità di base di un costituendo mercato del lavoro europeo. Ciò che il Piano non esplicita è che, in molti paesi europei, già questa innovazione richiede una profonda trasformazione istituzionale. In molti Stati le amministrazioni locali sarebbero inadeguate per questo compito, che comporta una diversa delimitazione geografica, funzionale, di potere, nonché autonomia nelle risorse.
Quanto agli Stati membri, concertandosi a livello europeo, dovrebbero, fra l’altro: 1) promuovere «lo sviluppo di autentiche politiche di formazione, che mettano insieme i pubblici poteri, le imprese e le parti sociali»;[8] 2) istituire «sistemi generalizzati polivalenti di ‘crediti alla formazione’ , sotto forma di capitali assegnati a tutti i giovani, spendibili in condizioni flessibili nel corso della loro vita attiva»;[9] 3) creare «in partnership università/pubblici poteri/imprese, …sistemi di formazione iniziale o continua nei settori corrispondenti alle competenze tecnologiche e sociali richieste dalle funzioni e dai mestieri in fase di sviluppo»;[10] 4) varare, in un secondo tempo, le «disposizioni necessarie per accrescere la flessibilità dei vari segmenti dei sistemi di insegnamento e la decentralizzazione della gestione dei sistemi educativi».[11]
Alle autorità europee competono tre tipi di intervento: a) «sviluppare ancora di più la dimensione europea dell’istruzione», con iniziative che stimolino l’interdipendenza — mobilità e scambi di informazioni ed esperienze — fra sistemi ed operatori scolastici, creando uno spazio europeo delle qualifiche e della formazione, mettendo a disposizione banche dati europee e così via; b) «in connessione con i provvedimenti adottati a livello comunitario in materia di politica sociale e di politica occupazionale, e in concertazione con gli Stati membri, la Comunità dovrebbe istituire un quadro politico per i provvedimenti, a medio e a lungo termine, di combinazione dei sistemi di formazione continua e di credito alla formazione con i provvedimenti volti ad accrescere la flessibilità e la riduzione del tempo di lavoro»;[12] c) «onde agevolare la realizzazione di un nuovo modello di sviluppo, di competitività e di occupazione… e onde garantire l’indispensabile parità delle possibilità e lo sviluppo coerente delle tre dimensioni, educativa, formativa e culturale del sistema educativo e formativo europeo, la Comunità dovrebbe fissare in maniera netta i requisiti essenziali e gli obiettivi a lungo termine delle azioni e delle politiche svolte in questo settore».[13]
Nell’immediato, il Piano prevede anche iniziative specifiche di formazione a favore dei disoccupati che non possiedono particolari qualifiche. In particolare, si suggerisce di stornare parte della spesa destinata a sussidi di disoccupazione a favore della creazione di corsi accelerati di qualificazione per disoccupati e per giovani alla ricerca del primo impiego che abbiano lasciato la scuola prima di conseguire un diploma. Interessante è anche il suggerimento di proporre a questi giovani un periodo di apprendistato in settori di pubblica utilità in altri paesi della Comunità, da finanziare con il ricorso al Fondo sociale europeo.
Per realizzare tutto questo non basta pensare ad un intervento della Comunità, vale a dire dei Vertici dei Capi di Stato e di governo imbrigliati dalla necessità di difendere i poteri ed i particolarismi nazionali — e degli organismi burocratici di Bruxelles. Se, come si afferma ad un certo punto nel Libro Bianco, l’avvio di questa politica educativa e formativa può avvenire solo «all’interno di certi limiti ed in concomitanza con provvedimenti adottati ad altri livelli (politica industriale e commerciale, politica della ricerca, ecc.)»,[14] ci si trova di fronte ad un compito che richiede un forte consenso dei cittadini e la creazione di strumenti reali di governo a livello europeo. In primo luogo, infatti, la politica industriale e commerciale tratteggiata nel Libro Bianco esige una forte stabilità monetaria. Senza la moneta unica, viene a mancare uno dei presupposti centrali del piano, quindi anche la possibilità di incominciare a realizzare il quadro entro cui è pensabile la riforma educativa e formativa. In secondo luogo, la creazione di un mercato europeo del lavoro esige un’autorità che abbia il potere di dialogare, a quel livello, con le parti sociali. E questo è, tipicamente, il compito di un governo democratico.
Vi è comunque una considerazione più generale da tener presente. Essa riguarda il fatto che, quando si parla di trasformazione dei sistemi educativi e formativi, non si possono ignorare gli elementi di valore che ispirano l’azione educativa. E’ questo il punto in cui appare più grave la contraddizione fra la prima e la seconda parte del Libro Bianco, cui si è accennato in precedenza. Nella prima parte si adombra uno scenario che sottintende una chiara opzione a favore della trasformazione della Comunità attuale in uno Stato federale, dotato di organi di governo democratici e che comporti una cittadinanza fondata sul principio della pluralità di appartenenze, sul cosmopolitismo, anziché sulla lealtà esclusiva allo Stato nazionale. Nella seconda parte, invece, si dà quasi per scontato che le grandi trasformazioni di cui la società europea ha bisogno possano essere avviate dalle attuali strutture comunitarie. Tuttavia, anche limitandosi al problema della formazione professionale, si può ben vedere che le trasformazioni adombrate dal Piano Delors non si esauriscono in meri interventi tecnici, ma chiamano in causa un fattore ideologico che non può essere passato sotto silenzio. In effetti, ciò che si chiede ai singoli Stati è di rinunciare ad esercitare un controllo esclusivo sulla formazione del cittadino, oltre che del lavoratore. Questo significa mettere in discussione l’attuale assetto comunitario, fondato sul riconoscimento della sovranità nazionale degli Stati membri. Se mettessero veramente in pratica le indicazioni del piano Delors in campo educativo, gli Stati europei dovrebbero infatti rinunciare ad uno dei pilastri della loro stessa sopravvivenza: la creazione della lealtà esclusiva dei cittadini attraverso l’omogeneizzazione di lingua, cultura, valori, operata dalla scuola su tutto il territorio nazionale.
E’ molto probabile che l’ambivalenza del Piano rispetto al problema cruciale delle trasformazioni istituzionali — un governo democratico per una struttura statuale di tipo federale che disegni una forma di cittadinanza fondata sul cosmopolitismo — necessarie per la sua reale attuazione, sia il prezzo che Delors ha dovuto pagare per far accettare il Libro Bianco al Consiglio dei Capi di Stato e di governo. Sarebbe ingeneroso quindi negare a Delors ed ai suoi collaboratori il merito di aver comunque compiuto uno sforzo coraggioso e lungimirante. Essi hanno assolto il loro compito, consegnando agli Europei un piano di governo. Spetta ora agli stessi Europei, in primo luogo alle forze politiche, il compito di creare il governo capace di realizzare il Piano.
La realizzazione dell’Unione politica, con una costituzione ed un governo democratico è il nodo che bisogna incominciare a considerare prioritario: esso va sciolto al più presto per consentire alla società europea di affrontare con successo le sfide poste dal passaggio dall’era industriale a quella post-industriale.
 
Marita Rampazi


[1] Questa tesi sembra particolarmente cara, ad esempio, ad Alain Minc (cfr. Nouveau Moyen Age, Parigi, Gallimard, 1993).
[2] Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. Libro Bianco, Bollettino delle Comunità europee, Supplemento 6/93.
[3] Si tratta di dimensioni che, insieme alla uguaglianza rispetto alle opportunità, vengono esplicitate in particolare nel cap. 7 («Adeguamento dei sistemi d’istruzione e formazione professionale») del Piano.
[4] Il dibattito sulle conseguenze sociali dell’automazione si è incominciato a sviluppare negli Stati Uniti verso la fine degli anni ‘50, come si legge nel libro di Pollock (Automation. Materialen zur Beurteilung der ökonomischen und sozialen Folgen, Francoforte, Europäische Verlagsanstalt, 1956/1964; trad. it. Automazione, Conseguenze economiche e sociali, Torino, Einaudi, 1970). Questo lavoro è diventato, nel corso dei decenni successivi, il punto di riferimento per le tesi dei cosiddetti «pessimisti», che nel dibattito si sono venute contrapponendo a quelle degli «ottimisti», la cui diagnosi poggiava inizialmente sulla visione proposta da R. Richta (Civilzace na rozcesti, Rozmnozeno proakastniky konference “Clovek a spolecnost ve vedeckotechnicke revoluci”, v Marianskych Laznich 1-6 dubna, 1968; trad. it. Civiltà al bivio, Milano, F. Angeli, 1972).
[5] Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. Libro Bianco, cit., p. 11.
[6] Per il punto sullo stato della questione, intorno alla quale si è sviluppato un dibattito alimentato inizialmente da uno studio promosso dallo stesso Delors a cavallo degli anni ‘80 (Echanges et Projets, La révolution du temps choisi, Parigi, Albin Michel, 1980; trad. it. La rivoluzione del tempo scelto, Milano, F. Angeli, 1986), cfr. il lavoro di A. Gorz, Métamorphose du travail. Quête du sens. Critique de la raison économique, Parigi, Ed. Galilée, 1988; trad. it. Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
[7] Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. Libro Bianco, cit., p. 126.
[8] Ibidem, p. 128.
[9] Ibidem, p. 128.
[10] Ibidem, p. 128.
[11] Ibidem, p. 128.
[12] Ibidem, p. 129.
[13] Ibidem, p. 129.
[14] Ibidem, p. 123.

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