IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXVII, 1995, Numero 1, Pagina 76

 

 

L’IDEA DI NAZIONE*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
Premessa.
 
Abitualmente si pensa che un uomo possa cambiare le sue convinzioni politiche, ma non la sua nazione. Si concepisce l’umanità come composta di nazioni, divise le une dalle altre da profonde differenze, e queste differenze si pensano come insuperabili. In questa prospettiva la nazione appare come la base necessaria dello Stato, tanto che non si riesce più ad immaginare uno Stato plurinazionale.
Questa convinzione non impedisce naturalmente che si verifichino rapporti tra uomini di nazioni diverse; anzi, il progresso li intensifica ogni giorno di più; ma se le differenze nazionali fossero insuperabili, tali rapporti sarebbero destinati ad essere perpetuamente soggetti alle vicende della politica internazionale: la pace sarebbe eternamente precaria, il commercio internazionale aleatorio, le unioni economiche transitorie, le alleanze rovesciabili, le unioni di Stati impossibili.
Eppure, se vogliamo identificare queste differenze osservando la realtà senza preconcetti, ci rendiamo conto che un Francese renano e un Tedesco renano, un Lombardo del Nord e un Ticinese, un Torinese e un Lionese sono molto più simili tra di loro di quanto non lo siano un Torinese e un Palermitano, un Francese renano e un Marsigliese, un Tedesco renano e un Prussiano, ecc. E allora? E’ un fatto che tutti gli elementi che ordinariamente si indicano come segni o cause della esistenza di un gruppo nazionale non lo spiegano per nulla. Quelli di cui più comunemente si parla sono: la razza, la lingua, la religione, il territorio, lo Stato, la storia, il costume e le tradizioni.
 
Le teorie correnti della nazione.
 
L’identificazione della nazione con la razza costituisce forse il tentativo di spiegazione più frequente — malgrado il discredito in cui il razzismo è caduto nella nostra epoca — tanto che la maggior parte dei dizionari spiegano il termine «nazione» direttamente col termine «razza», oppure col termine «stirpe», che a sua volta è spiegato col termine «razza». Non è il caso di sprecare molte parole per dimostrare la falsità di questa identificazione. Basta ricordare che: 1) nella misura in cui si arriva a isolare grossolanamente gruppi umani aventi caratteristiche fisiche esteriori comuni, si trova che questi gruppi non coincidono affatto con le moderne nazioni; 2) che è quanto mai dubbio che sia possibile delimitare gruppi razziali anche dal punto di vista genetico; 3) che è scientificamente accertato che non esiste, negli uomini, alcun rapporto fisso tra caratteristiche fisiologiche e caratteristiche psicologiche.
La lingua, a sua volta, non spiega la realtà nazionale, perché esistono nazioni plurilingui (come la Svizzera, il Belgio, il Canada) e lingue parlate in più nazioni (come l’inglese, lo spagnolo e così via). D’altra parte, anche le nazioni apparentemente monolinguistiche non erano tali originariamente e spesso di fatto non lo sono tuttora: la lingua «nazionale» si è estesa a tutto il territorio solo in seguito alla azione del potere politico attraverso la scuola di Stato e la burocrazia. E’ il caso della Francia, sul cui territorio si parlavano, prima della rivoluzione, almeno tre lingue oltre il francese (lingua d’oc, basco, bretone); dell’Italia, dove, fino ad un secolo fa, l’italiano era esclusivamente una lingua letteraria che si sovrapponeva ai dialetti regionali, ecc.
Identico discorso vale per la religione. Esistono nazioni come la Germania, in cui più religioni vengono professate e religioni, come la cattolica, professate in più nazioni. E dove tutti i membri di una nazione professano la stessa religione, non di rado (per es. in Francia) l’unità religiosa è stata ottenuta con lo sterminio o l’intimidazione delle minoranze.
Lo stesso si dica per il territorio e per lo Stato. I territori e gli Stati che hanno assunto, ad un certo stadio della loro evoluzione, il carattere nazionale, non hanno mai conservato le stesse dimensioni nel corso della storia, ma hanno variato incessantemente a seconda delle vicende della politica internazionale, fino ad assumere l’estensione attuale. E le guerre, le conquiste, i trattati, i matrimoni, che li hanno portati alle loro dimensioni attuali, non furono certo determinati da esigenze nazionali, ma dal gioco degli interessi dinastici dei monarchi, da necessità politiche e strategiche.
Anche il costume e le tradizioni non sono uniformi all’interno di nessuna nazione; anzi, come già si è affermato, in generale esistono, all’interno di una nazione, differenze assai più rilevanti di quelle che esistono tra regioni vicine di nazioni diverse. La storia infine non spiega le nazioni (se non nel senso generale per cui la storia spiega tutto): non le spiega se la si intende come storia politica, perché in questo modo essa si riduce in sostanza allo Stato e va soggetta alla stessa critica; non le spiega se la si intende come storia del costume e delle tradizioni, per le stesse ragioni per cui il costume e le tradizioni sono criteri errati.
Si è infine voluto trovare il fondamento della nazione nella volontà di vivere insieme, nel « plebiscito di tutti i giorni» (Renan). A questo proposito bisogna osservare che questa idea non serve come spiegazione fino a che non si precisa il «come» di questo vivere insieme. E precisare il «come» significa semplicemente definire la nazione: quindi anche questa formulazione lascia il problema insoluto.
 
L’origine dei comportamenti nazionali.
 
Che cos’è allora la nazione? In altri termini, che cosa sta dietro all’idea che il genere umano sia costituzionalmente diviso in gruppi assolutamente separati? Abitualmente gli uomini spiegano la nazione, come abbiamo visto, con la razza, la lingua, i costumi, ecc. e noi sappiamo ormai che si tratta di rappresentazioni teoricamente inadeguate. Ma per mezzo di questi simboli a quale realtà pensano, sia pure deformandola? La nazione non può essere che questo.
Di fatto la realtà di cui si parla col linguaggio nazionale è genericamente costituita: a) dal fatto che un gran numero di comportamenti, riguardanti quasi tutte le sfere dell’esperienza umana, presentano, accanto alla loro motivazione specifica, una seconda motivazione, quella del riferimento alla «Francia», alla «Germania», all’«Italia» e così via (ciò può sembrare astratto, ma basta un esempio per chiarirlo. Un Tedesco in Germania, o un Francese in Francia, e così via, si trova di fronte ad un monumento d’arte o ad un bel paesaggio e pensa: «Come è bella la Germania!». Va da sé che questo o quel bello di natura o d’arte non è una specie del genere estetico «Germania», che non esiste, bensì del genere gotico, romanico, montuoso, lacustre, ecc. Ciò mostra appunto che alla motivazione specifica del comportamento estetico se ne è aggiunta un’altra: quella della fedeltà, o almeno del riferimento, alla «Germania»); b) dal gruppo che risulta dal fatto che questi comportamenti, grazie al comune riferimento, si collegano fra di loro.
Basta questa considerazione per mettere in luce che tutto ciò non esisteva nel Medioevo. La società agricola, tipica di quell’epoca, non presentava nemmeno, salvo che per una ristrettissima élite, comportamenti di dimensioni uguali a quelli delle nazioni attuali (ossia complementari e interdipendenti su tale scala). La vita di circa il 90% della popolazione si svolgeva quasi esclusivamente nell’ambito di piccole unità territoriali, al di là delle quali non si manifestavano rapporti sociali concreti, stabili e diretti. Ne segue che tutti coloro che pensano che le nazioni europee esistessero, almeno virtualmente, anche nel Medioevo, non tengono conto del fatto che le popolazioni insediate sui territori corrispondenti a quelli delle nazioni attuali, anche se in parte si trovavano talvolta sotto lo stesso re, erano in realtà divise socialmente da barriere territoriali praticamente invalicabili, e non potevano perciò avere alcuna esperienza, nemmeno embrionale, di un’integrazione che non sussisteva e non si profilava.
Queste barriere incominciarono a cadere con l’inizio della rivoluzione industriale, ossia con la trasformazione qualitativa e l’espansione irresistibile del settore mercantile delle società agricole (introduzione della macchina a vapore, dei telai meccanici, ecc.). Dove l’attività produttiva assunse questo carattere industriale, i comportamenti economici acquisirono rapidamente una dimensione uguale a quella delle attuali nazioni europee. E non solo quelli economici. Non c’è atto economico che non sia anche giuridico, amministrativo, sociale, politico, e via dicendo. Di conseguenza un numero sempre crescente di comportamenti, sino a quelli politici, acquistarono il riferimento alla dimensione in questione e perciò si collegarono, in modo diverso a seconda della diversità delle situazioni, fra di loro.
 
La natura dei comportamenti nazionali.
 
Ma fin qui risulta in evidenza soltanto il fenomeno storico-sociale che sta alla base dello sviluppo non solo del nazionalismo, ma anche dello Stato moderno, e delle sue componenti liberale, democratica e socialista. Ciò di cui si parla specificamente con il linguaggio nazionale si manifestò dove e quando acquistarono il riferimento allo Stato moderno, e perciò una seconda motivazione, non solo i comportamenti economici, giuridici e politici, ma anche quelli costitutivi del sentimento intimo della personalità e dell’affinità fondamentale di gruppo.
Si tratta di una situazione che alterò profondamente l’assetto sociale cui gli Europei erano ormai abituati da secoli. Il quadro del potere politico supremo, e quello della vita ordinaria, che avevano cessato, per gran parte della popolazione, di coincidere a partire dalla fine della città-Stato, tornarono di nuovo a legarsi. Ciò si riscontra anche nel fatto che alle nazioni incipienti venne applicata la terminologia patriottica tipica del patriottismo greco ed ebraico, ivi compresa l’applicazione dei termini religiosi alla vita politica (altare della patria, sacri confini, martiri della patria, e via dicendo, come se ciascun popolo avesse il suo dio).
C’è tuttavia un’enorme differenza tra le esperienze «nazionali» greca, ebraica e simili, e quelle moderne. Le prime, date le loro ridotte dimensioni, che rendevano possibili un gran numero di rapporti personali tra i membri del gruppo, si mantenevano anche quando non erano sorrette da un potere politico. D’altra parte, il fatto che la religione e la politica non si erano ancora differenziate faceva sì che, al di sopra di questa rete di rapporti quasi personali, non ci fosse praticamente nient’altro cui partecipare quotidianamente. Così, nascendo nelle città-Stato, si acquisiva effettivamente, per il solo fatto di nascervi, il sentimento genuino della propria personalità e del proprio legame di gruppo (nazionalità nel senso etimologico, che noi chiameremo nazionalità spontanea).
Le seconde invece, date le loro dimensioni che non consentono affatto lo stabilimento di rapporti personali, hanno creato sì il sentimento della personalità nazionale e del legame nazionale, ma in maniera del tutto artificiale e coatta, grazie al potere politico. Di fatto, in Europa, le grandi nazioni attuali sono il risultato dell’estensione forzata, da parte dello Stato, a tutti i suoi cittadini, della lingua di una nazionalità spontanea preesistente nel suo quadro (la lingua d’oïl per la Francia, il toscano per l’Italia, e così via) e dell’imposizione dell’idea, anche se non compiutamente della realtà, dell’esistenza di un costume unico.
 
Che cosa è la nazione.
 
Per giungere ad una vera e propria definizione della nazione e dello Stato nazionale non ci resta che da rispondere a due domande:
1) Come mai questa fusione si è raggiunta negli Stati del continente europeo e non in Gran Bretagna? E’ un dato di fatto: a) che in Gran Bretagna si sono legati allo Stato i comportamenti economici, giuridici e politici, ma non quelli costitutivi della personalità e del sentimento fondamentale di gruppo; b) che, nonostante l’esistenza di un patriottismo britannico, gli Scozzesi, i Gallesi e gli Inglesi si considerano appartenenti rispettivamente alle nazioni Scozia, Galles e Inghilterra; c) che essi distinguono pertanto ancora, anche se imperfettamente, la nazione dallo Stato. Come mai, in altri termini, le nazioni si sono formate compiutamente nel continente, ma non in Gran Bretagna?
Il fatto è che il sistema europeo degli Stati ha costretto gli Stati del continente alla centralizzazione, e non l’ha promossa in Gran Bretagna. E lo Stato centralizzato non poteva sussistere senza creare l’idea di un gruppo tanto omogeneo quanto era concentrato il potere. D’altra parte ne aveva i mezzi: la scuola di Stato, la leva militare universale, i grandi riti pubblici, l’imposizione a tutte le città, per diverse che fossero, dello stesso sistema amministrativo e della tutela prefettizia e così via. La base delle moderne nazioni è pertanto costituita in sede economica dalle prime fasi della rivoluzione industriale e in sede politica dallo Stato burocratico nella versione accentrata.
2) Perché questo Stato è stato pensato con i simboli deformanti dell’idea di nazione, e non con l’idea, corrispondente alla realtà obiettiva, di un certo tipo di comunità politica? Il fatto è che ogni situazione di potere viene pensata dagli individui che la subiscono non con rappresentazioni eguali alla realtà, ma con rappresentazioni deformate dai pregiudizi e dalle passioni politiche, le ideologie.
Basta por mente al fatto che nello Stato burocratico accentrato, protagonista di guerre continue e terribili, si è verificata non solo una grande fusione di interessi a rilievo individuale (economici, politici, ecc.), ma anche una situazione militare che ha preso nella sua morsa tutti i cittadini anche in tempo di pace, e che in guerra li ha educati in massa al dovere di uccidere e al rischio di morire non per la difesa delle proprie libertà individuali ma per il gruppo concepito come un’entità trascendente, per capire che questo gruppo doveva essere pensato come una realtà a sé stante, come superiore agli individui, come naturale, sacro, eterno e via dicendo.
A questo punto si può dire che la nazione è, in senso specifico, l’ideologia dello Stato burocratico accentrato. Stante tale carattere ideologico, nell’idea di nazione, più che il contenuto rappresentativo, che varia secondo le situazioni, conta il fatto che comunque esso si riferisce sempre ad uno Stato burocratico centralizzato.
 
Il superamento delle nazioni.
 
Lo stesso fattore che ha creato le premesse delle nazioni le distruggerà. Abbiamo osservato che la rivoluzione industriale incide sulla dimensione dei comportamenti economici nel senso che tende costantemente ad allargarli. Negli USA, dove non esistevano barriere statali, i comportamenti economici hanno assunto da tempo una dimensione continentale. Nell’Europa la stanno assumendo ai giorni nostri. Va da sé che ciò darà luogo alla formazione di un popolo e alla distruzione della sovranità esclusiva dei vecchi Stati nazionali. E, siccome l’evoluzione della produzione è inarrestabile, ciò si verificherà anche negli altri continenti, e finirà per scavalcare le stesse dimensioni continentali, fino a unificare il genere umano.
Tuttavia, se andranno così distrutte le nazioni, non verrà però distrutto ciò che abbiamo chiamato «nazionalità spontanea». Le nazioni, essendo solo il riflesso ideologico dello Stato burocratico accentrato, non sopravviveranno alla sua fine. Le «nazionalità spontanee» che dipendono dalla spontaneità del costume («nazionalità spontanee» di territorio) e della cultura («nazionalità spontanee» di cultura) no. Dante, Descartes, Cervantes, Shakespeare, Kant, Dostoevskij non sono stati generati dal potere politico e nessun potere politico potrà distruggerli.


* Questo articolo è stato pubblicato in francese su Le Fédéraliste, VII (1965).

 

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