IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVII, 2015, Numero 3, Pagina 204

 

 

L’OCEANO DELLA DISCORDIA

 

 

Il 5 ottobre 2015 è stato siglato ad Atlanta, Stati Uniti, il Trattato di libero scambio nel Pacifico (TPP) tra 12 nazioni che si affacciano su questo oceano.[1] Sulla firma di questo accordo,[2] dopo oltre cinque anni di trattative, aleggia l’ombra di un grande assente: la Cina. Il Trattato viene visto da molti come il tentativo delle nazioni firmatarie, in particolare degli USA, di contenere l’espansionismo economico cinese. Tuttavia nei discorsi di chiusura dell’evento da parte di molti leader, vi sono state dichiarazioni di apertura per un futuro ingresso della Cina quale nuovo partner. Ma vi è un altro assente, la Russia, che sul piano economico viene esclusa da ogni accordo economico che includa nazioni dell’Occidente o che siano, sul piano politico, filo occidentali. Una esclusione, beninteso, che la stessa Russia sta alimentando da quando è iniziata la crisi ucraina nel 2013.

La crescita economica dell’area del Pacifico è una costante dell’ultimo decennio e non è garantita solo dall’economia cinese. E’ proprio in quest’area che si è spostato il baricentro della politica commerciale statunitense, di fronte ad un’Europa ancora bloccata da una crisi economica non risolta e dai conflitti interni all’area euro. L’ambizione degli USA è di aprire nuovi accessi al mercato transpacifico grazie a questo nuovo trattato che raggruppa paesi che nel loro insieme rappresentano il 40% del PIL mondiale, l’11% della popolazione mondiale ed il 25% del commercio mondiale.[3] In attesa di conoscere l’esito degli accordi tra USA e Europa a proposito del Trattato transatlantico, è nella regione del Pacifico che si gioca nel prossimo futuro il destino dell’economia mondiale in ansia per lo stato dell’economia cinese e per le possibili nuove bolle finanziarie.[4] Ma oltre all’importanza strategica sul piano economico e finanziario che questa regione ha assunto, vi sono altri aspetti che rendono l’area del Pacifico il centro di importanti scenari geopolitici cui gli europei assistono passivamente o del tutto ignari.

Da quando nel 2014, a seguito della crisi in Ucraina, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno dato corso ad una serie di sanzioni economiche contro la Russia, questa ha rafforzato le proprie relazioni economiche con la Cina siglando importanti accordi in ambito commerciale ed energetico.[5] Inoltre, sul piano politico, Russia e Cina, in seno al Consiglio delle Nazioni unite, non hanno mancato di sostenersi a vicenda come dimostrato in occasione delle votazioni sulla crisi in Ucraina o a proposito della annessione della Crimea alla Federazione Russa. Da parte sua la Russia non si sta opponendo alle operazioni cinesi nell’Oceano Pacifico, che hanno il chiaro obiettivo di contrastare l’influenza degli Stati Uniti nell’area.

L’aspetto più inquietante, tuttavia, risiede nel fatto che le due potenze stanno sviluppando accordi in campo militare, dando dimostrazione al resto del mondo che la loro intesa è profonda e va oltre la attuale contingenza politica in cui la Russia si ritrova al centro delle critiche da parte dell’Occidente (anche per il diretto intervento militare in Siria[6]). Nel mese di maggio 2015 vi è stata, per la prima volta nella loro storia, una esercitazione navale congiunta russo-cinese nel Mar Mediterraneo denominata “Joint Sea 2015 I”. Se la presenza di navi da guerra russe nel Mediterraneo è una costante dai tempi della Seconda guerra mondiale, disponendo per altro di porti di appoggio in Siria, ben diverso è il senso della presenza di navi da guerra cinesi. In realtà questa prima operazione congiunta voleva essere un messaggio da parte russa verso il mondo occidentale che, con il suo tentativo di isolare Putin, porta al rafforzamento dei suoi legami con la Cina e al fatto di guardare all’Asia come a nuovi mercati. Nell’ottica cinese, invece, l’operazione nel Mediterraneo era un segnale verso gli Stati Uniti in risposta alla loro presenza in acque territoriali che la Cina considera di propria influenza sia sul piano commerciale, sia sul piano militare. Non a caso nel mese di agosto del 2015 si è ripetuta una nuova esercitazione congiunta russo-cinese denominata “Joint Sea 2015 II”; e questa volta le operazioni si sono svolte a largo delle coste russe di Vladivostok e nel Mar del Giappone. Non solo: l’esercitazione ha simulato lo sbarco di marines cinesi su di un’isola. Fonti cinesi hanno dichiarato che queste esercitazioni “…non sono dirette ad alcuna terza parte e non riguardano lo status quo nella regione”; ma la versione russa, per bocca del Ministro della difesa Sergei Shoigu, è stata diversa e fa trasparire il vero senso di queste operazioni: “lo scopo principale di addestrare le nostre forze con i cinesi è di formare un sistema collettivo di sicurezza regionale, visti i tentativi americani di rafforzare la loro presa politica e militare in Asia e nel Pacifico”.[7]

Mentre la Cina, dunque, mantiene la sua cosiddetta politica del sorriso, la Russia non esita ad accusare gli USA di ingerenza nella regione, le stesse accuse che ha mosso a proposito della questione ucraina. Ma anche la Cina, nonostante le parole rassicuranti, mantiene un atteggiamento guardingo verso la potenza statunitense e infatti lo scorso mese di settembre ha presentato un sistema missilistico denominato non a caso Guam killer: Guam è l’avamposto americano nel Pacifico ove è presente la base aerea Andersen.[8] La politica del sorriso non nasconde quindi nei fatti i timori cinesi. In realtà è dal 2012 che la Cina sta agendo nell’area del Pacifico con operazioni che rasentano la fantascienza. Nel Mar Cinese meridionale da tre anni il governo cinese sta riversando tonnellate di sabbia e cemento lungo delle barriere coralline semisommerse, creando, di fatto, delle isole artificiali dove, per altro, è già stato installato un aeroporto militare in base ai rilevamenti satellitari statunitensi. Pechino rassicura i propri vicini sostenendo di star costruendo rifugi anti tifone utili a tutti. In realtà lungo queste ex barriere coralline ora trasformate in isole artificiali transitano ogni anno 5000 miliardi di dollari di merci e petrolio.[9] In quest’area del Pacifico sono stati scoperti importanti giacimenti petroliferi. L’area è strategica. Il punto è che queste acque, che la Cina rivendica come proprie, sono in realtà contese anche da Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan:[10] nazioni alleate degli USA e alcune anche firmatarie del nuovo Trattato transpacifico. E in prossimità di questi atolli sono già iniziate le polemiche a proposito del mancato rispetto del limite delle acque territoriali: la Cina ha accusato gli Stati Uniti di violare le proprie acque territoriali avendo inviato in prossimità degli atolli unità navali da guerra.[11] Da alcuni osservatori viene fatto notare come la creazione di queste isole artificiali da parte di Pechino costituisca una valida alternativa alla messa in cantiere di portaerei. Nel Pacifico gli USA possono disporre di 10 portaerei cui la Cina può oggi contrapporne una sola; le isole artificiali dotate di aeroporto, in mezzo all’Oceano, costituiscono una valida alternativa.[12]

La regione sta vivendo pertanto anni di gravi tensioni acuite di recente anche dalla decisione del governo giapponese di interpretare in un modo completamente nuovo l’art. 9 della propria Costituzione che prevedeva “…la rinuncia per sempre alla guerra… alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali”. Con il voto parlamentare del 18 settembre la Camera alta, su proposta del governo Abe, d’ora innanzi legittimerà i soldati giapponesi a combattere fuori dal territorio nazionale se “…il Giappone o un suo stretto alleato sono sotto attacco”.[13] Tra Cina e Giappone i contrasti diplomatici non si sono mai placati sin dalla fine della Seconda guerra mondiale e si stanno acuendo in coincidenza con il rafforzamento dell’esercito popolare cinese e di questa nuova linea in politica estera del Giappone. D’altro canto il Giappone per il 2015 ha stanziato 36 miliardi di dollari per la Difesa, la Cina 98 miliardi, gli USA 663 miliardi, la Russia 61 miliardi e l’Unione europea 331 miliardi.[14] Quest’ultima rappresenta in apparenza una cifra enorme, che però va suddivisa per i 28 paesi membri e che diventa, quindi, di fatto, una dispersione di risorse, anche perché, in mancanza di un governo dell’Unione che possa garantire una politica di difesa europea, ogni Stato membro mantiene un proprio standard negli armamenti.

La corsa agli armamenti vede dunque competere Stati Uniti, Cina e Russia nella ricerca di una leadership che ha oggi come scenario l’Oceano Pacifico. Nonostante gli accordi START[15] prevedano entro il 2018 una graduale riduzione delle testate nucleari e delle bombe strategiche, le due potenze stanno procedendo esattamente in senso opposto.[16] Nell’ambito degli armamenti nucleari Stati Uniti e Russia mantengono una netta superiorità rispetto alla Cina che invece ha una netta preminenza nell’ambito delle forze convenzionali. Ma una lettura degli investimenti in campo militare rivela nuovi scenari, che mostrano come Cina, Russia e Stati Uniti nel campo della difesa abbiano programmi che si svilupperanno sino all’anno 2050. L’Europa di oggi, invece, è completamente esclusa, del tutto impotente a causa della sua divisione di fronte a nazioni di dimensioni continentali che dispongono di un governo che programma gli obiettivi e le strategie da perseguire.

Se si analizza il recente National Military Strategy degli Stati Uniti,[17] si vede che parte dagli scenari geopolitici che li coinvolgeranno insieme a Russia e Cina in una competizione militare che avrà al proprio centro il Pacifico imponendo agli USA un minor impegno in ambito NATO. In questo contesto viene anche ribadita la necessità che gli alleati europei provvedano all’onere della propria difesa.[18] Nel settore degli investimenti è interessante osservare come nei prossimi tre anni gli USA investiranno in ricerca e sviluppo oltre 21 miliardi di dollari, a favore della aviazione (oltre 15 miliardi) e della marina (6 miliardi). A questi investimenti vanno aggiunti quelli che riguardano un nuovo e strategico settore: quello aerospaziale, in particolare per lo sviluppo dei satelliti militari. Se una presenza militare agguerrita nei mari o lungo le frontiere garantisce l’immagine di potenza di una nazione, è altrettanto vero che oggi il controllo dello spazio è ugualmente importante. Si stima che ammontino a circa 35 miliardi di dollari le spese militari globali nel settore satellitare con USA e Russia che ne coprono circa l’80%. La Cina in questo campo è in ritardo, ma rapporti dell’intelligence statunitense informano che Pechino dispone ormai di sistemi anti satellitari in grado di distruggere il 90% dei satelliti USA (ne dispone di 150 nello spazio, a fronte dei 70 della Russia).[19] E per capire la delicatezza della situazione bisogna tenere presente che colpire i sistemi satellitari, in primis quelli militari e poi quelli civili, significherebbe oggi interrompere le comunicazioni a livello mondiale riportando il mondo indietro di due secoli e scatenando un caos dalle conseguenze inimmaginabili.

In questo contesto è evidente come l’Europa resti ai margini di ogni questione cruciale. Se sino agli anni Ottanta attraverso il nostro continente transitava il 50% del commercio internazionale, ora il baricentro del mondo si è spostato verso l’Asia e le coste americane del Pacifico. Nel campo dei sistemi satellitari, l’Europa sta tentando con il progetto Galileo di predisporre un proprio sistema (per quanto pensato per integrarsi con quello statunitense, il GPS)[20] ma è in ritardo sui tempi. Il gap degli investimenti nel settore resta comunque incolmabile rispetto agli USA e alla Russia. Mentre, in campo militare, abbiamo ricordato come la mancanza di un governo e di una difesa comune europea disperda una grande quantità di denaro pubblico senza alcuna possibilità di rendere l’Unione europea capace di intervenire con efficacia nei vari scenari internazionali. In caso di missioni all’estero sono ancora i singoli paesi ad agire o intervenire, avendo anche grandi difficoltà a coordinarsi in caso di operazioni congiunte: le vicende in Libia e quelle più recenti in Siria ne sono una triste testimonianza. Di fronte ad un mondo che sta rapidamente mutando nei rapporti di forza economici, militari e finanziari è indispensabile che al più presto l’Unione europea agisca per definire una struttura istituzionale che le garantisca competenze e poteri reali nei campi della difesa e della politica estera. La cessione della sovranità è il totem che deve essere abbattuto da parte degli Stati disponibili all’interno dell’Unione: sarebbe sufficiente che un nucleo di paesi compisse il primo passo, come è già accaduto per dar vita all’euro.

Stefano Spoltore



[1] Stati Uniti, Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Brunei, Vietnam, Malesia e Singapore.

[2] TPP trade deal: seven things you need to know, Financial Times, 5 ottobre 2015.

[3] Negoziati commerciali e nuovi equilibri tra Usa, Area del Pacifico e UE, Agriregioni, n. 39, 2014.

[4] E’ sintomatico comunque che si parli di crisi cinese, con ripercussioni a livello mondiale, quando la crescita del suo PIL nel 2015 è di circa il 7% mentre nella UE si stenta ad arrivare all’1,5%.

[5] Si veda: S. Spoltore, L’Ucraina tra est ed Ovest, Il Federalista, 56 n. 1-2 (2014), pp. 87-98.

[6] L’atteggiamento verso il ruolo della Russia in Siria è però mutato dopo l’abbattimento dell’aereo di turisti russi nei cieli dell’Egitto e i tragici attentati di Parigi nel novembre 2015. Si sono anzi attivati accordi per svolgere operazioni militari congiunte in Siria tra la Russia e la Francia in primis. La crisi siriana ha ridato alla Russia un ruolo primario che sta migliorando i rapporti con la UE e con gli Stati Uniti, consci che senza una partecipazione russa nella lotta contro l’estremismo islamico è impossibile pensare di stabilizzare l’area medio orientale.

[7] Corriere della Sera, 21 agosto 2015.

[8] Aeronautica&Difesa, n. 348, ottobre 2015.

[9] Corriere della Sera, 16 aprile 2015.

[10] La Difesa, Padova, 15 maggio 2015.

[11] Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015.

[12] Corriere della Sera, 28 ottobre 2015.

[13] Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015.

[14] Fonte: Stockholm Int. Peace Research Institute.

[15] Strategic Arms Reduction Treaty(START), siglato l’8 aprile 2010 tra i presidenti Obama e Medvedev.

[16] Aeronautica&Difesa, n. 346, agosto 2015.

[17] The United States Military’s Contribution to National Security2015.

[18] Si veda Aeronautica&Difesa, n. 346, agosto 2015.

[19] Avvenire, 29 agosto 2015.

[20] Agenzia Spaziale Italiana, www.asi.it.

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