IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVIII, 2016, Numero 1, Pagina 3

 

 

Le grandi trasformazioni dell’era digitale e l’Europa

 

La società occidentale appare sempre più disorientata da discordant and distracted twitter, per usare l’espressione impiegata da Virginia Woolf per denunciare lo stato confusionale in cui versava l’Europa alla vigilia della seconda guerra mondiale. Se si vuole cercare di capire le radici di questa deriva che rischia di far precipitare la nostra civiltà nel disordine sociale, economico e politico, e di identificare un filo comune in grado di legare le molteplici crisi, bisogna partire dalle trasformazioni che in questo inizio secolo hanno incominciato a rimodellare i comportamenti politici, sociali ed economici della società; queste hanno come denominatore comune la rivoluzione digitale che, attraverso Internet, ha ormai compenetrato i processi produttivi, amministrativi, finanziari e i comportamenti economici.

Oggi, pertanto, appare sempre più evidente che la possibilità di offrire una prospettiva di sviluppo e di progresso al nostro continente dipende in larga parte dalle risposte che sapremo dare su come controllare, governare e sfruttare razionalmente le enormi possibilità di sviluppo che offre la rivoluzione digitale. Si tratta di risposte che richiedono innanzitutto un profondo ripensamento del ruolo e della dimensione dello Stato nel promuovere la riorganizzazione e il governo del mercato del lavoro, del sistema di redistribuzione della ricchezza, della pianificazione territoriale. Le stesse infrastrutture statali diventano fondamentali per garantire a tutti, ai vari livelli, l’accesso e l’uso alla rete digitale ed alle sue risorse. In secondo luogo, sono risposte che devono fondarsi su un’analisi del contesto socio-economico in formazione che sia aderente ai fatti ed alla realtà, e non a modelli astratti o ideologici che affondano le loro radici nel modo di pensare e governare dell’epoca precedente alla rivoluzione scientifica.

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Molti aspetti dell’attuale mondo digitale stavano già prendendo forma prima dell’avvento dei personal computer e degli smartphone. Ma la rivoluzione digitale ha enormemente accelerato il ritmo di propagazione di fenomeni che si stavano già lentamente sviluppando da decenni, trasformandoli in una potente corrente di cambiamento.

Gli effetti di questo cambiamento, solo immaginati circa mezzo secolo fa da chi, come Radovan Richta ed il suo gruppo di lavoro, aveva incominciato ad analizzare la portata politica, economica e sociale della rivoluzione scientifica e tecnologica e dell’integrazione dei processi produttivi con quelli relativi al trasferimento dell’informazione, sono entrati a far parte della vita quotidiana di ogni individuo e società. La logica di sviluppo di questo aspetto della rivoluzione è stata riassunta nel 2010 da Yann Moulier-Boutang nel suo libro L’Abeille et l’économiste[1], quando paragona il meccanismo di creazione del valore aggiunto di un prodotto attraverso Internet, a quello che regola la vita degli alveari. Come l’opera delle api non può essere ridotta alla sola produzione del miele, ma deve tener conto anche degli effetti del lavoro di impollinazione che esse compiono (che incide sull’andamento di almeno un terzo della produzione agricola mondiale), così nella rete il valore di un prodotto, di un’applicazione, diventa il risultato della interazione, delle tracce, dei click di una miriade di utenti, che modificano e arricchiscono continuamente il dato di partenza e la stessa architettura della rete. Per questo, secondo Moulier-Boutang, bisogna prender coscienza del fatto che stiamo passando da un’economia basata solo sulla produzione e lo scambio, ad un’economia basata anche su meccanismi di impollinazione e di collaborazione via Internet.

Due fatti, in particolare, sono da prendere in esame:

a) la diffusione e l’affermazione in questo ultimo decennio di comportamenti economici che finora erano stati peculiari di piccoli mercati e dell’economia del baratto, come la sharing economy, di cui Uber e Airbnb sono gli esempi più famosi e di successo, ma non i soli. Nell’era digitale, attraverso la sharing economy tutti possiamo diventare produttori e consumatori di beni e servizi, in base alla formula del consumo collaborativo, e del principio secondo cui tutto può essere condiviso ad un ragionevole costo. Non si tratta della nascita di un nuovo comportamento economico. La novità consiste piuttosto nella possibilità di esercitare questo comportamento al di là della cerchia del proprio vicinato, in modo efficiente ed affidabile sia sul fronte della domanda sia su quello dell’offerta. Non a caso, oltre ai privati cittadini, anche grandi aziende hanno incominciato ad investire in questo campo;

b) l’irruzione dell’automazione in diversi settori della vita, oltre che nella produzione di beni materiali, la crescente co-presenza di robot in attività come la chirurgia, la guida di veicoli e velivoli, oppure l’analisi di controversie legali e di profili finanziari, sta mettendo a dura prova le politiche di gestione del mercato del lavoro nel quadro del tradizionale welfare state. Politiche che si rivelano inadeguate rispetto ai nuovi ritmi di creazione e distruzione delle occupazioni, oltre che al trend di sviluppo demografico. La robotizzazione della società, oltre che dell’industria manifatturiera, dopo una fase di stagnazione durato fino ai primi anni Duemila, ha ricominciato prepotentemente a crescere. Al punto che la Cina resta sì un grande serbatoio di manodopera, ma è anche diventato uno dei primi mercati mondiali, insieme a USA, Giappone e Germania, di robot industriali.

Le implicazioni politiche, sociali e fiscali di questo fenomeno sono evidenti. Storicamente i governi hanno già dovuto affrontare passaggi epocali analoghi, anche se non così dirompenti ed accelerati. Basti ricordare l’indagine della Blue-Ribbon National Commission on Technology, Automation and Economic Progress insediata dal Presidente USA Lyndon B. Johnson negli anni Sessanta, per studiare le conseguenze occupazionali della prima fase dell’automazione e rispondere alle paure, che già allora si manifestavano, dei processi di cambiamento in fase di gestazione. Oppure quanto è successo in Gran Bretagna, dove è nata la rivoluzione industriale, e dove la produttività – l’unità di prodotto per ora lavorata – è mediamente aumentata di un terzo ogni generazione dal 1800 in poi.

Per venire al presente, nel nostro continente la Commissione europea ha recentemente diffuso delle guidelines rivolte agli Stati membri dell’Unione europea, nelle quali si evidenziano le potenzialità della nuova economia collaborativa (che in Europa ha fruttato circa trenta miliardi di euro in utili nel 2015) e la necessità di regolamentarla, non di bandirla, come alcuni vorrebbero. Perché le nuove tecnologie per sé non aboliscono il lavoro. Esse producono dinamiche nel cambiamento delle occupazioni che devono essere di volta in volta governate.

Ora, mentre in altre parti del mondo, come negli USA, il problema all’ordine del giorno è diventato quello di approntare per via legislativa le misure fiscali ed assicurative per tutelare produttori e consumatori, creando ricchezza per i cittadini, a livello europeo non ci sono ancora gli strumenti istituzionali per farlo su scala continentale. Inoltre gli Stati continuano a muoversi in ordine sparso, e in modo contraddittorio, rispetto a quanto indicato dalla Commissione, come mostrano i casi di Germania, Francia, Italia ed il ricorso presentato dai governi spagnolo e belga alla Corte di giustizia europea, a cui è stato chiesto di decidere se Uber debba essere classificata come compagnia di trasporto oppure come servizio digitale.

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Il grande cambiamento indotto dalla rivoluzione digitale, come dalle precedenti grandi innovazioni, non può essere arrestato illudendosi di poter ripristinare barriere, frontiere e sistemi di protezione e regolamentazione nazionali. Certamente si può cercare di mantenere ad ogni costo e il più a lungo possibile lo status quo per difendere specifici interessi o privilegi economici, oppure per mantenere un determinato ordine politico e sociale. Questa è la strada per favorire il radicamento e l’ascesa delle componenti più retrive e demagogiche della società. In Europa questo significherebbe un ritorno al passato ed ai suoi mali e non metterebbe certo gli europei al riparo dalle conseguenze del propagarsi dell’innovazione scientifica e tecnologica.

Per governare il cambiamento introdotto dalle nuove tecnologie, bisogna dunque creare un sistema di governo federale europeo, legittimato rispetto ai cittadini, e superare quello fondato sulla cooperazione volontaria tra governi nazionali. Realizzare questo governo è la specifica responsabilità politica e storica di tutti quegli europei che hanno già rinunciato alla sovranità monetaria. Perché la battaglia tra conservazione e progresso, sia sul piano politico, sia su quello del governo della nuova economia e della nuova società, oggi si può vincere solo sul terreno della costruzione dell’Europa.

Il Federalista

 


[1] Yann Moulier-Boutang, L'abeille et l'économiste, Parigi, Ed. Carnets Nord, 2010.

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