IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXVI, 1984, Numero 1, Pagina 33

 

 

Le relazioni Nord-Sud e la svolta europea
 
JOHN PINDER 
 
 
La recessione nel Sud e nel Nord e il nuovo euro-pessimismo.
 
La storia sfrutta anche le coincidenze per impartire delle lezioni agli uomini. Fu nel 1974, nel corso della sesta Sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, che le richieste del Terzo mondo per un nuovo ordine economico internazionale raggiunsero il culmine. Le proposte formulate dal Terzo mondo contenevano un certo numero di spunti interessanti. Ma esse erano viziate da una fatale debolezza. L’economia del Nord veniva considerata come una torta, dalla quale si sarebbe dovuto tagliare una fetta per darla al Sud. Fu solo nel corso del medesimo anno che la lunga stagnazione del Nord incominciò a insegnare che occorreva imboccare un altro difficile percorso: non si tratta di prendere una fetta da una data torta; sono invece la prosperità e la crescita dell’economia del Nord che consentono di trasmettere al Sud alcuni impulsi allo sviluppo.
Sebbene non fosse assolutamente necessario che gli europei apprendessero la stessa dura lezione, il Mezzogiorno d’Europa ha subìto il medesimo triste destino. Un caso tipico è rappresentato, sfortunatamente, dal Sud dell’Italia in cui, grazie in parte alle politiche italiane di sviluppo, « il progresso è evidente sino agli inizi degli anni ‘70; ma da allora, nella misura in cui l’economia nazionale incominciò ad essere tormentata da seri problemi, lo sviluppo del Sud si arrestò ».[1]
Una debole domanda del Nord ostacola le esportazioni dal Sud; e le industrie in crisi del Nord cercano protezione contro la concorrenza dei nuovi paesi in via di industrializzazione (NIC - Newly Industrializing Countries). In linea di principio, parecchi governi europei respingono il protezionismo. In pratica, con più di dodici milioni di disoccupati nella Comunità europea, c’è bisogno di una forte dose di buona volontà per riuscirci; e la buona volontà è minata dalla dominante atmosfera di pessimismo europeo.
Questo nuovo euro-pessimismo è stato ben formulato nel Rapporto del Parlamento europeo del 1982 sulla competitività dell’industria comunitaria, elaborato dopo che la Commissione sottopose al Parlamento un Rapporto sul medesimo problema.[2] Nel Rapporto si sosteneva « che è molto probabile che in pochi anni ci si trovi in difficoltà, per non dire in una posizione di inferiorità, non tanto rispetto agli USA e al Giappone, ma anche in rapporto al crescente numero di nuovi paesi in via di industrializzazione » e si riteneva che la Comunità fosse diventata « una società rinchiusa su se stessa, che ha adottato un atteggiamento difensivo nei confronti di un mondo in trasformazione ».[3]
La percezione di inferiorità nei confronti dell’America sembra fondata su fattori piuttosto soggettivi. La tabella seguente, che il Parlamento europeo usa per indicare le posizioni relative delle industrie ad alta tecnologia (utilizzando indici di specializzazione per valutare i vantaggi comparati), mostra di per sé non un declino relativo dell’Europa, ma un rapporto fra Comunità europea e USA che è praticamente immutato dal 1970 al 1980. È vero che l’Europa non può competere con Silicon Valley e con la IBM (sebbene molte delle produzioni IBM avvengano in Europa). Ma ammessa questa superiorità americana nell’area cruciale delle tecnologia dell’informazione, sembra piuttosto che gli europei abbiano raggiunto gli americani in altri campi, mantenendo così il divario medio più o meno costante; e ciò conferma l’impressione che in molti settori industriali gli europei hanno raggiunto gli USA sin dalla metà degli anni ‘60, quando Servan-Schreiber punse nel vivo gli europei con il suo libro sulla superiorità tecnologica americana.[4] Che Servan-Schreiber abbia fatto, nel 1967, una osservazione accurata, ma una cattiva previsione, è confermato dai dati statistici riportati nella tabella seguente, che mostrano una crescente superiorità americana per il periodo 1963-70, stabilizzatasi nel decennio successivo.
 
Variazioni dei vantaggi comparati nelle esportazioni di prodotti ad alta tecnologia
(indici relativi al totale delle esportazioni manifatturiere mondiali)
 
 
1963
1970
1980
CEEa
1,02
0,94
0,88
USA
1,29
1,27
1,20
Giappone
0,56
0,87
1,41
  

a) Si comprende il commercio intra-comunitario. Fonte: Technological Innovation in European Industry, EC Commission DG II, January 1982, citato da Leopardi, op. cit., p. 22.

  
La superiorità americana nelle tecnologie dell’informazione è certamente preoccupante, ma sembra anche legittimo ricordare che la produttività industriale ha avuto un dinamismo crescente in Europa nel corso dell’ultimo decennio, mentre è rimasta stagnante in America, e che la rivoluzione microelettronica avrà i suoi principali effetti sulla produzione industriale, e in certa misura sui prodotti, praticamente in tutta la gamma dei settori industriali in cui gli europei sono stati, sin dalla fine degli anni ‘60, più dinamici degli americani. Una prova ulteriore che gli americani sono diventati più e non meno simili agli europei si può dedurre dalla analoga risposta di entrambi alla sorprendente crescita del Giappone, come mostra la tabella e come testimoniano la penetrazione di mercato giapponese e la risposta protezionistica euro-americana. La superiorità giapponese in un numero crescente di settori manufatturieri dovrebbe evidentemente spronare gli europei alla azione: ma se essa ci debba far sentire « una società chiusa in sé stessa », che si aspetta genericamente di cadere in « una posizione di inferiorità », dipenderà non soltanto dal fatto che la nostra reazione al Giappone sia sufficientemente efficace, ma anche dal fatto che ci sia un solo Giappone o che ci siano altri importanti paesi capaci di prestazioni simili.
Questa considerazione ci riporta ai « Nuovi paesi in via di industrializzazione », nei confronti dei quali il pessimismo è un atteggiamento per gli europei meno appropriato del riconoscimento del fatto che noi dobbiamo fronteggiare la concorrenza esistente. Il Parlamento europeo si è mostrato preoccupato dal fatto che « le esportazioni di alcuni paesi membri si stiano specializzando in aree di produzione in cui sono – o potrebbero essere – in competizione con i nuovi paesi industrializzati ».[5] Ma proprio come il Nord America, l’Europa occidentale e il Giappone hanno sviluppato tutte le industrie che sorsero originariamente in Gran Bretagna, così ci si deve aspettare che il Sud sviluppi tutte le industrie che ora esistono nel Nord. Il problema perciò non è se gli europei dovranno fare concorrenza ai NIC su tutti i fronti, ma se l’Europa avrà più successo della Gran Bretagna nel conservare il suo dinamismo industriale, mentre gli altri tentano di raggiungerla. In un’epoca in cui la rivoluzione microelettronica sta sostituendo il concetto di settori maturi, – caratterizzati da tecnologie statiche, che possono essere trasferiti per l’utilizzazione nei NIC con lavoro semispecializzato a buon mercato – con quello di tecnologie dinamiche in fabbriche in cui il lavoro, inteso nel senso tradizionale, è scomparso, prevedere che gli europei siano incapaci di mantenere un sufficiente dinamismo nei confronti dei NIC è disfattismo.
Mentre è ragionevole aspettarsi che i giapponesi possano, ancora per molti anni, trarre vantaggi industriali dalla loro particolare società e cultura, le ragioni per attendersi una inferiorità europea nei confronti degli americani e dei NIC sembrano più di ordine psicologico che fondate su dati obiettivi. Non vi è un buon motivo per sostenere che gli europei non possano raggiungere un adeguato progresso economico nel lungo periodo, ammesso che il pessimismo non inibisca le loro potenziali capacità di azione. L’europessimismo alla moda sembra, tuttavia, scaturire da un senso di incapacità all’azione, che ha origini intellettuali e politiche, piuttosto che economiche, e che interagisce con il pessimismo in un circolo vizioso che potrebbe condurre ad un declino economico che può essere evitato. Senza una analisi adeguata e la capacità di trarre le necessarie conclusioni per un nuovo orientamento politico e per adeguate istituzioni politiche, gli europei rischiano di cadere nello schematismo o di provocare delle reazioni obsolete, che potrebbero rinforzare il circolo vizioso piuttosto che spezzarlo.
 
Reazioni obsolete o approccio pragmatico.
 
Dopo aver accettato, nel dopoguerra, l’economia mista ed aperta, che costituì la base per uno sviluppo ed una prosperità straordinari, gli europei sembrano, a causa del loro atteggiamento pessimista ed incerto, inclini ad abbandonarla a favore di una delle due direzioni: protezionismo o liberismo.
La dottrina protezionistica è caduta in discredito dopo la catastrofe degli anni ‘30 e ‘40, e in seguito ai successi degli anni ‘50 e ‘60. Quando, oltre a ciò, si consideri che ci stiamo avviando verso una nuova rivoluzione industriale, che aumenterà le necessità di specializzazione e, in alcuni settori, la loro scala, il ricorso al protezionismo è una scelta difficilmente credibile. Ma per resistere all’introduzione di misure protezionistiche ad hoc che potrebbero alla fine avere i medesimi effetti, è necessario far ricorso ad argomenti convincenti sia intellettualmente che politicamente. La versione « liberistica » di Chicago della dottrina liberale ha ormai convinto molti intellettuali e politici. Ma né la teoria, né la pratica dovrebbero portare alla conclusione che una simile dottrina abbia serie capacità di influenzare l’economia moderna.
Il monetarismo dottrinario ed il liberismo contemporaneo hanno la loro base teorica in una versione dell’economia neoclassica, che risulta di grande efficacia analitica nella sua formulazione statica, ma è del tutto inadeguata come teoria della crescita e dello sviluppo economico. Mentre, perciò, si può avere fiducia nella efficacia di politiche fondate su questo insieme di dottrine per eliminare alcune attività non economiche (sebbene anche in questo caso, una certa riluttanza a riconoscere l’importanza delle imperfezioni di mercato rende quelle politiche meno efficaci di quanto si creda), non vi sono sufficienti ragioni per credere che venga generato un numero sufficiente di attività economiche, tale da garantire il progresso tecnologico e la crescita economica. Al contrario, se nuovi concorrenti si inseriscono in mercati in cui elevati costi di ricerca, di sviluppo e di investimento sono finanziati attraverso politiche oligopolistiche dei prezzi, così come lo sono stati con successo nel periodo dell’espansione occidentale postbellica, potrebbe accadere che i profitti diventino troppo bassi per stimolare gli investimenti delle imprese nel progresso tecnologico e nella creazione di un numero sufficiente di posti di lavoro; ed il circolo vizioso di bassi profitti, bassi investimenti, lenti adattamenti e profitti sempre stagnanti descrive purtroppo molto da vicino l’esperienza europea dell’ultimo decennio.
In pratica, il solo esempio di una economia raggiunta dai suoi inseguitori nel lungo periodo è quello della Gran Bretagna. A coloro a cui le polemiche politiche contemporanee appaiono più importanti delle lezioni della storia, questo fatto può apparire come una debolezza inglese causata dal protezionismo e dal Welfare State. In pratica, il declino relativo, nei confronti prima dell’America e della Germania, e poi del Giappone, della Francia e di altri paesi europei, iniziò più di un secolo fa e durante i primi cinquanta anni di declino relativo, la Gran Bretagna fu il solo paese ad adottare una politica di totale liberismo, mentre tutti gli altri si svilupparono al riparo della protezione doganale. Anche dopo la prima guerra mondiale, l’economia inglese non fu protetta più della media; e dalla seconda guerra mondiale, il Welfare State non si è esteso più che in altri paesi, in cui crebbe a ritmi doppi.[6] L’economia inglese è ancora la più aperta fra quelle dei paesi industrializzati di medie proporzioni, sulla base della valutazione empirica costituita dal peso delle importazioni di beni e servizi, che sono circa un terzo del PIL.
Nessuna di queste considerazioni comporta un sostegno alla dottrina protezionistica, non intesa tuttavia nel senso del ricorso a singole misure protettive per facilitare processi di aggiustamento oppure per guadagnare tempo in vista di una maggior competitività internazionale. Sia la teoria che la pratica suggeriscono che la fiducia in dottrine onnicomprensive, fondata su quella che, allo stadio attuale delle conoscenze, può essere solo una inadeguata comprensione di come opera l’economia moderna, è una guida peggiore per l’azione di un approccio più pragmatico, che consideri i probabili effetti di politiche particolari di progresso tecnologico e di crescita economica, che presti maggior attenzione alla esperienza positiva di paesi come il Giappone, l’Austria, la Germania e la Francia, che non a preconcetti dottrinari. È questo approccio che ci consente di sconfiggere l’euro-pessimismo, e dunque le reazioni autolesionistiche in favore di un completo laissez-faire o del protezionismo, e di presentare una prospettiva convincente per una ripresa della prosperità economica europea.
 
Integrazione europea ed economia mista.
 
Una politica di sviluppo industriale non dovrebbe essere vista solamente, o principalmente, come una politica relativa a particolari settori. Strumenti macroeconomici come i tassi di interesse e di cambio sono più importanti. Tuttavia, la Comunità europea non ha una efficace politica nei confronti dei tassi americani di interesse o dei tassi di cambio giapponesi, sebbene questi risultino cruciali per la competitività e lo sviluppo europei.
Gli alti tassi di interesse, causati dagli effetti sul mercato europeo dei capitali dei prestiti necessari a finanziare il bilancio e il deficit dei pagamenti americani, sono uno dei principali ostacoli agli investimenti industriali europei. Questa distorsione può venir eliminata in diversi modi: con ampi abbuoni di interesse comunitari sui prestiti per investimenti industriali, restringendo, come fanno i giapponesi, l’accesso al mercato dei capitali; e, ancora meglio di entrambi questi espedienti, istituendo il Fondo monetario europeo (FME) e una unità monetaria europea, per assegnare alla Comunità europea un reale potere contrattuale per influenzare la politica americana monetaria e dei tassi di cambio. Il FME, potendo disporre di una quota importante delle riserve degli Stati membri, sarebbe verosimilmente in grado di influenzare i tassi di cambio del Giappone, per esempio acquistando yen, facilitando così un miglior equilibrio fra il Giappone e l’economia internazionale, e in particolare di eliminare i fattori di distorsione nella pressione delle esportazioni giapponesi sui mercati europei.
Proposte di questo tipo potrebbero apparire al lettore prive di credibilità. Ma questi interventi sarebbero certamente presi in seria considerazione se la Comunità europea disponesse di strumenti monetari comuni adeguati. È l’assenza della Comunità sulla scena monetaria internazionale – uno degli aspetti della mancanza di un effettivo governo dell’economia comunitaria – che ci impedisce di pensare adeguatamente a ciò che è necessario fare. Può venir considerata come una alternativa non credibile riconoscere la necessità di tali strumenti e di questo governo se vogliamo davvero divenire capaci di condurre la nostra comune economia sul sentiero dello sviluppo economico?
Non dovrebbero poi venire ignorati né gli aspetti micro-economici di una politica industriale, né una azione comune della Comunità nei loro confronti. Il ruolo della finanza pubblica nella ricerca e nello sviluppo è giustificato dai vantaggi sociali delle tecnologie derivanti dalla loro diffusione al di fuori dell’impresa originaria[7] e dalla grande scala di alcuni progetti cruciali. Le politiche per promuovere la diffusione delle tecnologie e i progetti su piccola scala sono alla portata dei governi membri della Comunità europea; ma alcuni degli sviluppo di cui sono capaci americani e giapponesi possono difficilmente venir finanziati dai singoli governi europei. Il programma Esprit di ricerca in comune fra industrie d’avanguardia europee nel campo delle tecnologie dell’informazione è una risposta modesta allo sforzo giapponese di sviluppare una quinta generazione di elaboratori e a quello che gli americani possono finanziare in relazione al loro impegno per la difesa e all’interno delle loro imprese maggiori. Ma è saggio iniziare con cautela in un settore tanto impegnativo quanto l’aiuto comunitario alla ricerca e allo sviluppo multinazionali, ammesso che tutto ciò sia visto come un trampolino di lancio per sforzi più ambiziosi.
La Comunità europea ha iniziato ad aprire il settore pubblico del mercato degli Stati membri alle offerte concorrenziali degli altri paesi membri; ma nel settore vitale delle telecomunicazioni il processo è appena agli inizi. Progressi in questa politica sono una condizione dello sviluppo europeo nelle tecnologie dell’informazione.
La diminuzione di capacità produttiva nelle industrie europee in crisi è stata ritardata dalla debolezza delle istituzioni comunitarie. Per ragioni sia economiche che politiche, le imprese possono prolungare la sopravvivenza della loro capacità produttiva, indebolendo così ulteriormente il settore. Persino nell’industria dell’acciaio, dove il Trattato della CECA concedeva alla Comunità più mezzi di intervento di quanto avvenga in altri settori, i suoi strumenti finanziari e normativi sono risultati inadeguati ad assicurare una riduzione della capacità, come sarebbe certamente stata effettuata in un settore in crisi in Giappone. Nei confronti delle fibre artificiali, la Commissione ha rifiutato di riconoscere la legittimità dei piani dei produttori per una riduzione concertata della capacità, perdendo così l’occasione di stabilire un precedente per una applicazione combinata di politiche della concorrenza e politiche industriali che avrebbero potuto accelerare il ritorno di un certo numero di altri settori ad una salutare concorrenza.
Poiché gli strumenti della politica commerciale esterna appartengono alla Comunità, essa può utilizzarli anche per provocare aggiustamenti nei settori in crisi, condizionando le misure protettive ad adeguati processi di aggiustamento. La Comunità europea dovrebbe inoltre adottare misure temporanee di protezione per le nuove industrie, in particolare nel campo delle tecnologie dell’informazione, in modo da mettere le imprese in condizioni di raggiungere livelli internazionali di competitività. Se si dubita della capacità politica della Comunità di fare scelte importanti su questi fronti, si dovrebbero tentare le medesime politiche in modo sperimentale, come è stato fatto per il programma Esprit, applicandole soltanto in pochi casi finché una esperienza positiva sia stata acquisita.
Lo slogan più popolare fra gli oppositori della politica industriale è che i governi non possono stabilire chi è il migliore; ed è vero che le considerazioni politiche spesso distorcono le scelte del governo. Ma questo slogan non tiene in considerazione il fatto che in alcuni paesi, come la Gran Bretagna, le istituzioni finanziarie stesse sono poco attrezzate per scegliere gli investimenti industriali in una prospettiva di lungo periodo, ed è un legittimo obiettivo politico promuovere lo sviluppo di istituzioni adatte a questo scopo. Uno dei modi più efficaci per fare ciò potrebbe essere quello di favorire l’integrazione fra le istituzioni finanziarie dei paesi membri della Comunità europea; le conoscenze relative agli investimenti industriali possedute, ad esempio, delle grandi banche tedesche sarebbero così più facilmente trasferite a paesi come la Gran Bretagna, meno dotati in questo campo. Di nuovo, la Comunità europea è stata straordinariamente lenta nel prendere atto dei benefici derivanti da un vero mercato comune.
Lo scopo di questo breve elenco di scelte possibili per una politica industriale comunitaria è stato di mostrare che una analisi costruttiva, non ostacolata da considerazioni ideologiche o dalla accettazione di un ruolo passivo della Comunità, può consentire differenti approcci al rilancio di uno sviluppo industriale europeo, in modo che si possa sostituire un atteggiamento dottrinario o letargico con una realistica propensione all’azione.
 
Nord e Sud in Europa e nel mondo.
 
Sebbene il maggior contributo alla prosperità del Mezzogiorno d’Europa derivi dalla crescita economica della Comunità nel suo insieme, la politica regionale della Comunità può svolgere un ruolo significativo. Maggiori risorse per il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) dovrebbero essere disponibili una volta che la dimensione del bilancio comunitario sia ampliata; e la politica della Comunità consiste « nel valutare gli effetti regionali delle politiche comunitarie e di trarne le logiche conclusioni ».[8] Ma la Comunità è ancora lontana da « una convergenza di opinioni sulla necessità di intraprendere ogni intervento pubblico nell’economia necessario allo sviluppo del Mezzogiorno » così come veniva fatto in Italia « agli inizi degli anni ‘70 ».[9] Ciò potrà accadere solo con lo sviluppo della Comunità in una vera e propria comunità politica, la cui condizione è che vi sia una riforma delle istituzioni comunitarie in una direzione federale.
La prosperità complessiva della Comunità costituisce anche il miglior contributo allo sviluppo del Sud del mondo. Ma, di nuovo, politiche specifiche per il Sud possono essere importanti. Il Fondo europeo di sviluppo svolge una funzione simile a quello del FESR all’interno della Comunità; la Convenzione di Lomé e il Sistema generalizzato di preferenze aprono in una certa misura il mercato comunitario alle esportazioni provenienti dal Sud. Ma la protezione comunitaria è rivolta particolarmente nei confronti dei NIC; e mentre i paesi del Sud ostacolano il trasferimento di tecnologie, nella misura in cui non fanno ciò che ragionevolmente potrebbero per trovare un modus vivendi con le multinazionali, la Comunità dovrebbe assumersi essa stessa il compito di fare il possibile affinché tale modus vivendi venga assicurato. Se la Comunità intende continuare ad avere un rapido progresso tecnologico nel futuro, è necessario che si assicuri un mercato in espansione, così come l’ampliamento dei mercati nazionali dell’Europa occidentale, grazie alla istituzione del mercato comunitario, costituì il quadro in cui si sviluppò l’industria negli anni ‘50 e ‘60. Ciò comporta la prospettiva futura di un processo di liberalizzazione reciproca fra la Comunità e non solo gli USA e il Giappone, ma anche i più progrediti dei NIC; e questo processo sarà certamente difficoltoso, perché comporta una politica estera comune della Comunità europea, capace di collocare le scelte economiche più delicate in un contesto sufficientemente ampio, così come il processo post-bellico di liberalizzazione ben si accordò con le politiche estere dell’America e dell’Europa di quel periodo.
 
La riforma europea.
 
Sia la prosperità europea che le relazioni Nord-Sud richiedono dunque delle attive politiche monetarie, industriali ed estere per la Comunità, che possono difficilmente diventare effettive senza una riforma delle istituzioni comunitarie, sulla base dei principi stabiliti dal Progetto di Trattato per l’Unione europea del Parlamento europeo;[10] e relazioni progressive Nord-Sud, dalle quali in ultima istanza dipende la prosperità europea, richiedono a loro volta che l’Unione europea sia vista nella prospettiva di un processo di lungo periodo di integrazione nell’economia mondiale.
Queste condizioni richiedono difficili scelte politiche, per non dire scoraggianti. Ma vi è un trend di fondo che può giustificare un certo ottimismo. I disordini prolungati degli anni ‘70 indussero molti economisti a ricordare Kondratieff, con il suo concetto di ciclo lungo di fasi alterne di progresso tecnologico e di stagnazione. Dietro l’apparente ristagno degli anni ‘70 si intravvedono i primi segni della incipiente rivoluzione microelettronica; ed ora questa tecnologia fa parte del nostro mondo, insieme ad altre come le bio-tecnologie, i lasers e i nuovi materiali ad alta resistenza. Questa svolta alla Kondratieff apre la prospettiva di un ritorno del dinamismo industriale; e se l’esperienza della svolta precedente serve a qualcosa, essa dovrebbe essere seguita, nonostante alcuni timori luddistici di segno opposto, da una nuova espansione dell’occupazione. La svolta del ciclo che sta per finire ha rappresentato l’occasione per l’inserimento della Comunità nell’ordine commerciale post-bellico. Non dovrebbe forse la prossima svolta dare a tutti la fiducia necessaria per trasformare l’attuale Comunità in una Unione europea e l’attuale disordine economico internazionale in un nuovo ordine, in cui prevalgano relazioni economiche liberali?
 


[1] Aristide Savignano, « Credit Institutions and the Development of Southern Italy », Mezzogiorno d’Europa, Aprile/giugno 1983, p. 150.
[2] Il Rapporto del Parlamento europeo è stato riportato in: Silvio Leonardi, « The Competitiveness of Community Industry », in G. Leodari e S. Mosconi (a cura di), Strategies and Policies of the European Community to Improve the Competitiveness of European Industry, Venezia, CESIV - Centro europeo di studi e informazioni, 1984, pp. 17-44.
[3] Ibidem, pp. 27, 30.
[4] J.J. Servan-Schreiber, Le Défi Américain, Paris, Denoël, 1967.
[5] Leonardi, op. cit., p. 27.
[6] Per esempio, la spesa pubblica è ora del 45 per cento circa del PIL in Gran Bretagna, rispetto al 69 per cento dell’Olanda.
[7] Alcuni di questi aspetti sono stati discussi in: Andrew Schonfield, « Innovation: Does Government have a Role? », in Charles Carter (a cura di), Industrial Policy and Innovation, London, Heinemann for NIESR, PSI e RIIA, 1981.
[8] Programma della Commissione per il 1984, Bruxelles, 1984, p. 29.
[9] Aristide Savignano, op. cit., p. 149.
[10] Parlamento europeo, febbraio 1984.

 

 

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