IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 137

 

 

Germania 2017:
problemi e processi politici in vista
delle elezioni federali

 

UBALDO VILLANI-LUBELLI

 

 

Introduzione.

Le elezioni regionali tedesche nel Mecklenburg-Vorpommern e nella capitale di Berlino a settembre del 2016 hanno sancito la definitiva affermazione del partito nazionalista di destra Alternative für Deutschland (AfD). Dal punto di vista simbolico è stato particolarmente significativo il risultato ottenuto nel Land della Germania Est, da cui viene Angela Merkel che ha lì il suo collegio elettorale. L’AfD, con il 20,8 per cento dei consensi, ha superato la CDU (19,0) posizionandosi così al secondo posto dietro la SPD (30,6). Rilevante anche il risultato dell’AfD nella capitale Berlino (14,2 per cento), dove, tuttavia, l’elezione ha sancito la sconfitta della grande colazione uscente a favore di una maggioranza rosso-rosso-verde, ovvero composta da socialdemocratici, Sinistra e Verdi.

Le due tornate elettorali di settembre hanno concluso una serie di elezioni regionali iniziate nel marzo 2016 nei Länder del Baden-Württemberg, Rheinland-Pfalz e Sachsen-Anhalt. In tutti i casi la destra nazionalista ha beneficiato del nuovo contesto politico, dominato dal dibattito sul tema dei rifugiati, ottenendo consistenti successi elettorali: il 15,1 nel Baden-Württemberg, il 12,6 nel Rheinland-Pfalz e ben il 24,2 in Sachsen-Anhalt.

Nel 2016 il quadro politico tedesco ha così vissuto una delle fasi più controverse dalla riunificazione della Germania. In vista delle elezioni politiche del 2017 l’ascesa della destra nazionalista, se confermata nell’estensione prevista dai sondaggi (tra il 12 e il 18 per cento) e in continuità con le tornate elettorali regionali, potrebbe segnare un radicale cambiamento dell’equilibrio politico e segnare così una trasformazione importante del sistema dei partiti nella Repubblica Federale.

Dall’inizio della crisi economico-finanziaria internazionale del 2008 la Germania, rispetto ai principali paesi europei, sembrava essere immune dall’ascesa della destra nazionalista. Effettivamente le buone condizioni dell’economia tedesca e una tradizionale autorevolezza e forza delle istituzioni politiche avevano limitato tale fenomeno nel territorio federale, al cospetto di un’Europa in cui i movimenti anti-europeisti e nazionalisti mietevano (e in parte continuano a farlo) successi in serie. Tale fenomeno dimostra che l’ascesa dei nazionalismi, diversamente da quanto sostenuto spesso da un’opinione pubblica europea a volte troppo frettolosa nell’analisi dei fenomeni in corso, non dipende certo dalle politiche di austerità, come dimostra la composizione e diffusione geografica, ma da processi politici più complessi tra cui certamente va presa in considerazione anche la governance europea.[1]

Nel caso specifico della Germania, a cambiare lo scenario c’è stata la politica sull’immigrazione avviata da Angela Merkel nell’estate del 2015. Da allora l’ascesa dell’Alternative für Deutschlandè stata costante. Un partito che nei mesi precedenti era entrato in crisi e si era addirittura diviso – tanto che una parte dei fondatori (in prevalenza professori universitari e imprenditori) avevano costitutivo un nuovo movimento (ALFA) – ha visto improvvisamente aumentare i propri consensi non certamente per meriti propri, quanto per un involontario assist offerto dalla Cancelliera Merkel.

Ora, l’ascesa dell’AfD ha avviato un cambiamento profondo della politica tedesca. Tradizionalmente la Germania si è caratterizzata per avere un sistema di partiti relativamente stabile e, per certi versi, ingessato: due grandi partiti di massa (Volksparteien), l’Unione (CDU/CSU) e l’SPD, e, inizialmente, un partito liberale (FDP), a cui si sono aggiunti i Verdi (Die Grünen) nel 1983 con il primo ingresso nel Bundestag e nel 2005 la sinistra (Die Linke). L’ascesa del partito Alternative für Deutschland, contestualmente ad un progressivo e parziale ridimensionamento dei due partiti di massa ha già portato il numero dei partiti in alcuni Länder a sei. Si tratta di un processo ancora in corso e che si dovrà valutare nel lungo periodo ma è già ora non irrilevante. Le conseguenze, infatti, potrebbero essere numerose. L’esistenza di un sesto partito nel Bundestag porterà ad una probabile difficoltà, da parte del partito che prenderà la maggioranza relativa, a formare una solida coalizione di governo. È plausibile, inoltre, che la campagna elettorale vedrà una forte polarizzazione e radicalizzazione delle due forze politiche principali (Unione e SPD) per limitare le perdite di voti sui rispettivi fronti estremi a favore di AfD e Linke. In questo senso la campagna elettorale del 2017 sarà caratterizzata da una forte contrapposizione secondo una logica tradizionale destra-sinistra o conservatori-progressisti. Non si tratta, evidentemente, di un ritorno ad una radicalizzazione ideologica, quanto di un superamento di una lunga fase in cui la “grande coalizione” è stata un “progetto politico”.

Del resto, proprio le ultime elezioni nella capitale Berlino potrebbero essere considerate come un piccolo laboratorio di un futuro equilibrio a livello nazionale. Qui, infatti, l’affermazione della AfD ha portato, paradossalmente, ad un’unione delle forze di centro-sinistra (compresa Die Linke). D’altronde, è già oggi chiaro che nessuno dei due partiti di massa ha più interesse a proseguire l’esperienza della grande coalizione, considerata, da più parti, una stagione conclusa. Non può tuttavia essere escluso che proprio tale polarizzazione possa portare all’ipotesi di un forte ridimensionamento dell’AfD che potrebbe soffrire il posizionamento della CDU su temi conservatori e la ripresa dei liberali (FDP). La FDP, infatti, dopo un periodo di profonda crisi culminata con il mancato ingresso nel Bundestagalle elezioni del 2013, è in graduale (anche se lenta) ripresa.

Il quadro politico è, evidentemente, in profonda trasformazione ed in continua evoluzione ed è impossibile fare previsioni precise; certo è che, però, nel 2017, prima delle elezioni ci saranno altri appuntamenti importanti. Prima di tutto l’elezione del Presidente della Repubblica il 12 febbraio del 2017. Il successore di Joachim Gauck è un rebus di non facile soluzione per la Cancelliera Merkel. Nell’assemblea federale riunita (Bundesversammlung), composta da 1260 membri, non c’è una maggioranza definita. Nessun partito ha i 631 voti necessari ad eleggere un suo presidente e neanche una coalizione tra socialdemocratici, Verdi e Linke (circa 628 voti) avrebbe i numeri per eleggerlo. Per l’Unione di Merkel (543 voti) sarà dunque necessario trovare un candidato condiviso che, però, al contempo, non scontenti troppo l’ala conservatrice del suo partito di cui la Cancelliera ha bisogno se vuole vincere le elezioni di settembre 2017 (tra il 17 e il 24 settembre) e continuare a governare. All’interno della Bundesversammlungbisogna tuttavia considerare che ci sono 35 rappresentanti della AfD e 12 del Piratenpartei che potrebbero rappresentare delle variabili imprevedibili nel gioco delle alleanze per l’elezione del dodicesimo Presidente della Repubblica Federale.

Gli altri appuntamenti prima delle elezioni sono le consultazioni elettorali in Saarland, nello Schleswig-Holstein e nel Nordrhein-Westfalen. Proprio in quest’ultimo Land si giocherà una partita di fondamentale importanza perché si tratta del più popoloso Land tedesco e perché qui le elezioni sono considerate delle “piccole elezioni federali”. In altri termini, sarà il principale test prima delle elezioni politiche.

Considerati tutti questi aspetti sopra evidenziati è chiara la complessità del quadro politico tedesco in questa fase storica in vista delle elezioni del 2017, per la cui comprensione è indispensabile prendere in considerazione più nel dettaglio il fenomeno AfD, la natura e lo sviluppo del terzo cancellierato di Angela Merkel ed, infine, il ruolo della SPD.

Il ruolo di Alternative für Deutschland: nazionalisti, populisti, “neo-nazi” o liberal-nazionali?

Nel 1983 il leader dei cristiano-sociali bavaresi Franz-Joseph Strauß ammoniva il suo partito: “Non deve nascere un movimento alla destra della CSU!”. Allora erano i Repubblicani a rappresentare una possibile alternativa all’Unione (CDU/CSU) sul fronte destro dell’arco costituzionale. La storia andò diversamente. I Repubblicani non si sono mai radicati e i cristiano-sociali e democratici non hanno mai dovuto confrontarsi con un vero partito alla loro destra. Con l’affermazione di Alternative für Deutschland, partito fondato nell’aprile del 2013 all’Hotel InterContinental di Berlino, la paura di Strauß è diventata realtà. Oggi la politica tedesca ha visto nascere un partito nazionalista, conservatore, liberal-nazionale ed euroscettico alla destra dell’Unione (CDU/CSU). AfD potrebbe diventare ciò che Die Linke è stata nell’ultimo decennio per i socialdemocratici (SPD): un partito con il quale si preferisce non collaborare ma che erode voti indispensabili per poter governare. Esattamente come dopo l’era Schröder, in cui l’elettorato più “estremo” dei socialdemocratici non si è sentito più rappresentato dal governo rosso-verde dell’Agenda 2010, così nella fase (forse) finale dell’era Merkel i conservatori non hanno più visto difesi i loro valori di riferimento nel processo di radicale modernizzazione portato avanti dalla Cancelliera. Del resto, proprio in un tempo in cui la Germania è stata governata dalla CDU, la società tedesca è, paradossalmente, diventata più ambientalista, più femminile e, per certi versi, progressista: abolizione del servizio militare, abbandono dell’energia nucleare, possibile introduzione delle quote rosa, introduzione del salario minimo e politiche dell’accoglienza nei confronti dei rifugiati. Se a questo si aggiunge il tema del terrorismo, della sicurezza e di una mancanza di ordine sociale nella gestione delle fasi iniziali del flusso migratorio nell’estate-autunno del 2015, la conseguenza è stata che si è venuta a creare una terra di nessuno nella quale l’Alternative für Deutschland ha avuto gioco facile. L’impressione, tuttavia, è che l’AfD viva della crisi dei rifugiati, e sia, nel complesso, “impudentemente anacronistica”[2] per le soluzioni esclusivamente nazionali che propone rispetto ai problemi globali e complessi della società contemporanea.

L’inquadramento della AfD in una determinata tradizione politica sta occupando, tuttavia, gli scienziati della politica sin dalla sua nascita.[3] Il partito, nato con una forte connotazione anti-europeista ed in particolare anti-euro, si è focalizzato, nel corso del tempo, sui temi legati alla sicurezza e all’immigrazione, grazie ai quali ha potuto consolidarsi e raggiungere i maggiori successi elettorali.

In primo luogo l’AfD deve essere inquadrata in un fenomeno politico del nazionalismo e populismo che in Europa si è diffuso in modo più espansivo rispetto al passato a partire dalla crisi economico-finanziaria del 2008. Esiste indubbiamente un filo rosso che accomuna l’ascesa dei pur diversi movimenti di destra in Europa (in Francia, Polonia, Austria, Italia, Gran Bretagna, Grecia, Olanda, Ungheria ecc.) e, appunto, l’AfD. L’avversità nei confronti dei partiti tradizionali, che in molti paesi europei è crescente, rappresenta il consenso di base di cui può facilmente usufruire questo nuovo partito.

Si tratta, inoltre, di un movimento che dal punto di vista storico si richiama, seppur forse indirettamente, alla tradizione liberal-nazionale tedesca dell’Ottocento e che fino all’avvento del nazismo ebbe un chiaro profilo politico culturale in Germania ma che fu travolto dall’avvento di Hitler. Dopo il nazismo nacque sì un partito liberale ma con un approccio ben diverso rispetto alla tradizione precedente. L’AfD, per la sua retorica contro la cultura del ’68 e per un’idea di democrazia che si fonda su una presunta omogeneità culturale, sociale se non addirittura razziale, si pone, evidentemente, al limite del perimetro valoriale stabilito dalla Legge fondamentale (art. 1 delGrundgesetz:1) La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla. 2) Il popolo tedesco riconosce quindi gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo).

L’AfD si inserisce, dunque, in un fenomeno politico-sociale in corso in Europa (e quindi anche in Germania) e che si contrappone radicalmente non tanto e non solo alla cultura dell’accoglienza (Willkommenskultur) – episodio temporalmente recente e limitato – quanto ai principi fondamentali su cui si è costruita l’intera cultura politica europea dal secondo dopoguerra e che vede l’apice istituzionale nella Carta europea dei diritti fondamentali. Il neo-nazionalismo si propone una rifondazione culturale che non solo restituisca sovranità agli Stati nazionali, ma che intende riproporre uno scontro già avvenuto negli anni Venti nel Vecchio Continente tra un’Europa che crede nella giustizia, nella libertà e nello stato di diritto e un’altra che distorceva l’idea di democrazia facendola corrispondere ad una società socialmente e culturale omogenea. Si tratta di un ritorno agli anni Venti del secolo scorso quando Carl Schmitt contrapponeva liberalismo e democrazia in quanto solo quest’ultima rendeva possibile tale omogeneità e richiedeva l’eliminazione e l’annientamento (Vernichtung) dell’elemento eterogeneo (che oggi potrebbe facilmente essere ricondotto allo straniero, immigrato o rifugiato che sia).[4] Sappiamo com’è andata a finire.

Esiste indubbiamente anche una componente neo-nazista nel partito, certamente marginale e minoritaria, ma della quale non si può tacere. Del resto, il partito si distingue per una visione particolaristica della società, per una radicale contrarietà alla solidarietà economica e sociale (che si tratti dei rifugiati o degli Stati del Sud Europa).

AfD risponde alle paure, alle incertezze, al risentimento e alle irritazioni, alla sfiducia nei confronti dei politici, dei media e di tutti coloro che vengono visti come “casta” (in tedesco “die da oben”) e come tutti i movimenti neo-nazionalisti sfrutta il disagio dei cittadini per le diseguaglianze sociali crescenti, per una generica (quanto a volte infondata) sensazione di insicurezza. La debolezza e il limite di questo movimento sono nella proposta politica, in quanto esso risulta de facto assolutamente inadeguato a governare e ad affrontare tematiche difficili e articolate. La semplificazione dei problemi e delle proposte politiche (dalla chiusura delle frontiere all’abbandono della moneta unica) non riesce a superare i problemi legati ad una realtà che richiede altre risposte quali appunto l’inclusione sociale, un’ulteriore integrazione economica e fiscale, una politica di difesa e sicurezza comune e misure concrete a livello europeo per contrastare la disoccupazione.

La preoccupante ascesa dell’AfD dimostra la necessità di rilanciare il progetto europeo in funzione di un superamento del nazionalismo senza dover tuttavia ricadere ancora una volta in una forma di governance tecnocratica e rilanciando l’idea di un’unione federale che possa salvaguardare le identità nazionali (intesa, però, come un sincero e inclusivo riconoscimento in una tradizione culturale), ma, al contempo, possa dare alle istituzioni europee gli strumenti per poter governare i processi e i problemi sociali e politici in corso.

Il terzo Cancellierato Merkel.

Il terzo mandato di Angela Merkel era iniziato nel segno della sua forza. Con il 41,5 per cento dei consensi ottenuti dall’Unione (CDU/CSU), Merkel era l’incontrastata dominatrice della politica tedesca. Tuttavia, l’Unione non aveva i numeri per governare da sola, in quanto le mancavano cinque seggi. L’alleanza con la SPD e l’avvio della seconda Grande Coalizione sotto la guida di Merkel non era però scontata; del resto, la stesura del contratto di coalizione con i socialdemocratici è stata lunga e complessa. La “quadratura del cerchio” si è raggiunta sulla base di tre pilastri fondamentali: il cosiddetto Schwarze Null, l’introduzione del salario minimo generalizzato e il pedaggio autostradale. Ognuno dei tre pilastri rispecchiava gli interessi di uno dei partiti di coalizione. Il pareggio di bilancio e l’assenza di nuovi debiti nel bilancio statale (Schwarze Null) era un cavallo di battaglia della CDU e del suo Ministro delle finanze Wolfgang Schäuble. Il salario minimo generalizzato a 8,50 era una richiesta della SPD che, inoltre, ha preteso i ministeri legati alla sfera sociale per cercare di contrastare l’emorragia di voti a sinistra e recuperare grande parte degli elettori delusi dai socialdemocratici. Infine, il pedaggio autostradale solo per stranieri era stato uno dei temi forti del partito gemello della CDU, la CSU. Proprio l’introduzione del pedaggio autostradale (rispetto al quale Merkel si è sempre dichiarata contraria) si è rivelato ben più complicato di quanto avesse previsto il Ministro dei trasporti Alexander Dobrindt (CSU). La Commissione UE ha fatto ricorso alla Corte europea di giustizia in quanto la scelta tedesca sarebbe discriminatoria e incompatibile con le regole del mercato interno.

Una questione a parte merita la politica estera. Il ministero è stato occupato da Frank-Walter Steinmeier (SPD), ma sui temi più spinosi e complessi (dall’Unione europea alla crisi in Ucraina, dai rapporti con gli Stati Uniti d’America alla crisi migratoria) la linea è stata sempre data dalla Cancelliera Merkel che in diverse fasi del suo terzo mandato ha plasmato il suo profilo a livello internazionale in netta continuità con una scelta fatta sin dall’inizio del suo primo governo nel 2005.

Il terzo cancellierato di Angela Merkel può essere diviso in due fasi ben distinte, la cui linea di demarcazione è rappresentata dalla politica sui rifugiati avviata nell’estate del 2015, all’incirca a metà del suo mandato.

Se fino ad allora la Cancelliera era saldamente alla guida sia della Repubblica Federale, sia del suo partito (tanto che addirittura, il Ministro-Presidente di Amburgo, Torsten Albig della SPD, sosteneva la provocatoria tesi che il suo partito non aveva bisogno di presentare alcun candidato alternativo a Merkel perché la Cancelliera faceva magnificamente il suo lavoro), nella seconda fase ha invece gradualmente perso consenso (nei sondaggi la CDU è scesa di circa 8 punti percentuali) e soprattutto all’interno del suo partito è cresciuto il malcontento.

Le molteplici crisi dell’Europa sono state al centro dell’attività della Cancelliera tedesca, nella gestione delle quali ha privilegiato sempre l’approccio intergovernativo, divenuto l’unico vero mantra dei Capi di Stato e di governo europei negli ultimi dieci-quindici anni. Per ogni crisi che l’Unione europea ha dovuto affrontare si sono formati dei sottogruppi, come vengono definiti nel recente progetto di relazione di Guy Verhofstadt, di Stati membri. L’approccio iper-realistico del governo tedesco ma anche l’urgenza di dare risposte alle continue crisi che hanno afflitto l’Europa, hanno, di fatto, reso inutile qualunque discussione su una riforma istituzionale dell’Unione europea, pur necessaria considerati i suoi evidenti limiti strutturali.[5] Il principale timore è che in una fase politica con equilibri molto precari, e di fronte al crescente consenso nei confronti del nazionalismo da parte dell’opinione pubblica, una riforma dell’Unione che dovesse poi essere approvata dai parlamenti nazionali rischierebbe di essere affossata in grandi paesi come la Francia o anche l’Italia (ma anche in paesi più piccoli come l’Olanda o l’Austria), provocando la fine dell’intero progetto europeo. Oggi vediamo che, se durante la crisi finanziaria i cittadini del Vecchio continente hanno creduto che il progetto europeo potesse fallire per l’implosione della moneta unica, in realtà, gli eventi più recenti hanno dimostrato che la fine di Schengen (con la costruzione di muri e barriere) potrebbe essere ben più grave ed avere addirittura conseguenze ben peggiori della crisi della moneta, in quanto mette in discussione non solo l’uguaglianza tra i popoli e gli Stati membri ma anche uno dei capisaldi del progetto europeo rappresentato dalla libera circolazione.

Bisogna pur riconoscere, tuttavia, che, pur privilegiando il metodo intergovernativo e l’approccio a geometria variabile per cui per ogni problema si trovano soluzioni e alleanze tra Stati membri ogni volta diverse, la Cancelliera tedesca è l’unica leader europea ad affrontare le questioni e i temi attuali con un approccio europeo se non, spesso, addirittura globale come dimostra l’importante viaggio in Africa svolto nel mese di ottobre del 2015. Negli ultimi anni la Germania è stato certamente il paese che più di altri ha avuto la lungimiranza e la forza di pensare all’Europa come ad un progetto politico e culturale per il futuro. Nessun Capo di Stato e di governo europeo come Angela Merkel sottolinea da anni e con particolare vigore l’importanza dell’Unione europea in un futuro globale in cui gli Stati nazionali (anche la stessa Germania) avranno sempre più difficoltà a trovare un ruolo nel mondo in seguito ai processi demografici in corso e all’emergere di nuove economie sempre più forti rispetto a quelle dei singoli Stati europei.

Infine, un altro aspetto di fondamentale importanza per comprendere il terzo mandato di Angela Merkel è il pareggio di bilancio. In un’Europa in cui la Germania ha preteso maggiore rigore di bilancio il governo tedesco sin dal bilancio 2014 non ha fatto nuovi debiti ed entro il 2020 il debito sarà entro il 60 per cento del PIL come previsto dai trattati europei. Pervicacemente perseguito dal governo tedesco ed in particolare dal Ministro Schäuble, la Germania si ritrova oggi con un surplus di 18 miliardi di euro che verranno investiti in formazione e ricerca e, anche come strumento di campagna elettorale per la CDU, per ridurre le tasse al ceto medio, un fascia sociale tradizionalmente vicina all’Unione ma che negli ultimi anni si è allontanata dal partito della Cancelliera.

Quo vadis SPD?

Il terzo ed ultimo aspetto che deve essere brevemente affrontato per completare il quadro in vista delle elezioni politiche del 2017 è il ruolo della SPD, che tra i due partiti di massa è quello maggiormente in difficoltà in termini di consenso – sin dalle elezioni politiche del 2009 ha perso numerosi voti posizionandosi intorno al 21-25 per cento. Erosa a sinistra dalla Linke e in crisi di leadership e contenuti, la socialdemocrazia tedesca non riesce più a determinare la politica tedesca e sembra sempre rincorrere la piattaforma politica imposta dalla CDU. Del resto, è certamente vero che nell’era Merkel la SPD si è vista sfilare molti dei tradizionali cavalli di battaglia, dall’abbandono dell’energia nucleare al salario minimo fino alla politica dell’accoglienza. La crisi della socialdemocrazia tedesca, tuttavia, inizia con l’Agenda 2010 avviata dal governo Schröder, la cui eredità politica è stata pesantissima per la SPD. Se le riforme avviate dal governo rosso-verde hanno permesso di rimettere in ordine le finanze dello Stato tedesco e hanno creato i presupposti per la crescita degli ultimi anni, si sono rivelate fatali per la SPD che ha visto nascere alla sua sinistra una forza come la Linke che si è radicata e che si è stabilizzata intorno al 10 per cento dei consensi. In questo senso andrebbe anche rivisto il giudizio sull’era di Gerhard Schröder, forse sempre troppo benevolo nei confronti di un cancelliere che ha reso impossibile per il suo partito vincere le elezioni nelle tornate elettorali successive oltre che un qualsiasi dialogo politico con Die Linke. In particolare su quest’ultimo aspetto le responsabilità di Schröder sono molte e gravi.

La crisi della socialdemocrazia tedesca, tuttavia, non è un caso isolato e unico. Rientra in un processo involutivo generale della sinistra socialista e democratica in Europa. Con il processo di trasformazione del socialismo europeo in terza via, la sinistra europea ha gradualmente perso la sua identità fino a sbiadirsi in un liberalismo di sinistra che alla lunga si sta rivelando fatale.[6] I movimenti e partiti di sinistra radicale, coma Die Linke in Germania, e più recentemente Podemos in Spagna, il Front de gauche in Francia o Syriza in Grecia si sono radicati non solo nelle fasce sociali più deboli ma anche nella classe dirigente e intellettuale impegnata da sempre a sinistra e che non ha mai condiviso la svolta moderata e neo-liberista della sinistra europea. Si tratta di un fenomeno complesso e di lunga durata che ha avuto un’accelerazione tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del XXI secolo. La sinistra europea non ha tratto vantaggio dall’internazionalizzazione dell’economia (il cosiddetto “turbocapitalismo[7]) e non ha saputo crearsi una nuova identità davanti alle sfide della rivoluzione tecnologica informatica, dell’emergere di nuove economie nel mercato globalizzato e della finanziarizzazione dell’economica. Davanti a tali fenomeni, che hanno radicalmente modificato se non del tutto incrinato il modello di coesione sociale in Europa, la socialdemocrazia europea si è trovata impreparata e soprattutto non ha saputo ridefinire la propria identità rispetto ad un profilo ideologico che oramai non era più adatto ai nuovi tempi. La crisi dell’SPD va inquadrata esattamente in questo contesto ed è forse il caso più esemplare e significativo di questa crisi. Le partecipazione a due grandi coalizioni (2005-2009 e 2013-2017), di per sé, non spiega la crisi del partito (che tra l’altro non si è ripreso neanche quando è stato all’opposizione tra il 2009 e il 2013) ed è, semmai, solo la conseguenza di un problema più profondo e complesso.

Germania 2017.

Sono dunque questi gli elementi di fondamentale importanza per comprendere gli sviluppi in vista delle prossime elezioni politiche in Germania. In conclusione, diversamente da quanto più volte sostenuto da numerosi commentatori, ritengo che le elezioni tedesche, nonostante la presenza crescente dell’AfD, non rappresenteranno una svolta per il generale contesto politico europeo. Non ritengo che ci sarà alcun cambiamento radicale nella politica economica né nel ruolo che la Germania avrà in Europa. I processi politici – in particolare in Germania, ma vale anche a livello generale in Europa – sono molto spesso lenti e graduali.

 


[1] Sergio Fabbrini, Quella governance che favorisce il populismo, Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2016. Rimando anche alle ricerche della Fondazione David Hume e Il Sole 24 Ore pubblicate, parzialmente, il 23 ottobre su Il Sole 24 Ore. La seconda parte dello studio, al momento in cui scrivo, non è ancora stata pubblicata.

[2] Martin Walser, Intervista a La Lettura/Corriere della Sera, 5 giugno 2016.

[3] La letteratura è molto vasta: rimando solo a Simon T. Franzmann, Calling the Ghost of Populism: The AfD's Strategic and Tactical Agendas until the EP Election 2014, German Politics, 25, 4/2016, pp. 457-479.

[4] Carl Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Berlin, Duncker & Humblot, 1985, pp. 14-15: “Der Glaube an den Parlamentarismus, an ein government by discussion, gehört in die Gedankenwelt des Liberalismus. Er gehört nicht zur Demokratie. Beides, Liberalismus und Demokratie, muß voneinander getrennt werden, damit das heterogen zusammengesetze Gebilde erkannt wird, das die moderne Massendemokratie ausmacht […] Zur Demokratie gehört also notwendig erstens Homogenität uns zweitens – nötigenfalls – die Ausscheidung oder Vernichtung des Heterogenen.

[5] Si veda a tal proposito il cosiddetto rapporto Verhofstadt in discussione al Parlamento europeo consultabile al link http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-%2f%2fEP%2f%2fNONSGML%2bCOMPARL%2bPE-585.741%2b01%2bDOC%2bPDF%2bV0%2f%2fEN.

[6] La pensa diversamente Axel Honneth, Die Idee des Sozialismus: Versuch einer Aktualisierung, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2015, che sembra sostenere la tesi di un left liberalism. Segnalo anche Giuseppe Berta, Eclisse della socialdemocrazia, Bologna, il Mulino, 2010.

[7] Edward N. Lutwak, La dittatura del capitalismo, Milano, Mondadori, 1999.

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