IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LIX, 2017, Numero 1, Pagina 97

 

 

 

LE RAGIONI DELL’EUROPA

 

Pubblichiamo gli interventi alla sessione su Presente e futuro dell’Europa svoltasi nel quadro della giornata Le ragioni dell’Europa organizzata il 4 febbraio 2017 dalla Scuola di cittadinanza e partecipazione di Pavia in collaborazione con il Movimento federalista europeo. Alla sessione hanno preso parte: Mons. Corrado Sanguineti, Vescovo di Pavia, Marta Cartabia, vice-Presidente della Corte Costituzionale, Alberto Majocchi, Professore emerito di Scienza delle finanze dell’Università di Pavia, e Giulia Rossolillo, Professore di Diritto dell’Unione europea dell’Università di Pavia.

 

A 60 ANNI DAL TRATTATO DI ROMA,
NUOVE SFIDE PER L’EUROPA

 

 1. Il 25 marzo 1957 sono stati firmati a Roma i Trattati istitutivi della Comunità economica europea e della Comunità europea dell’energia atomica. Sono passati 60 anni da quella storica decisione, che ha rappresentato un passo avanti decisivo nel processo di unificazione europea, e da allora molti significativi risultati sono stati ottenuti. In primo luogo, la pace fra i paesi europei e la stabilità politica che ne è conseguita hanno consentito di promuovere una crescita economica che, grazie allo sviluppo degli scambi all’interno del Mercato comune, hanno trasformato l’Europa nel più forte polo commerciale a livello mondiale. Questi risultati sono stati poi rafforzati da ulteriori successi: il completamento del mercato interno, con la caduta di tutte le barriere che rendevano difficile il movimento delle merci e dei capitali, e gli accordi di Schengen con la garanzia di una completa libertà di circolazione delle persone. Infine, con il Trattato di Maastricht si è aperta la strada verso l’Unione monetaria, con l’introduzione dell’euro come moneta unica dei paesi che fanno parte dell’eurozona.

Ma, dopo che la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il successivo dissolvimento dell’Unione Sovietica hanno reso possibile l’unificazione tedesca, seguita dall’ingresso nell’Unione europea dei paesi dell’Europa centro-orientale, ormai liberi dal dominio russo — rendendo ragionevolmente concepibile la costruzione della “casa comune europea” auspicata dall’ultimo leader dell’URSS Gorbaciov —, la situazione mondiale è radicalmente cambiata con l’approfondirsi del processo di globalizzazione che ha fatto emergere nuove potenze economiche, in particolare i c.d. BRICS e fra questi soprattutto la Cina. Successivamente, a partire dal 2008, è scoppiata una crisi economica che, partita dagli Stati Uniti, ha inciso in misura significativa sulla crescita dei paesi europei, rallentando lo sviluppo e favorendo la drammatica estensione del fenomeno della disoccupazione.

2. “De quelque côté qu’on se tourne, dans la situation du monde actuel, on ne rencontre que des impasses”. Questa frase, tratta dai Mémoires di Jean Monnet, descrive perfettamente la situazione attuale. L’Europa si trova a dover fronteggiare una nuova fase di crescente disordine internazionale, con le pesanti responsabilità che emergono dopo la Brexit e l’elezione di Trump, con i rischi che gravano sulla sicurezza dell’Unione a seguito della probabile riduzione della protezione americana e con l’incapacità dei paesi europei di garantire un controllo efficace del terrorismo e di gestire in modo adeguato il flusso dei migranti. Alla fine del Consiglio europeo di Bratislava del 16 settembre 2016, una solenne dichiarazione impegnava i 27 paesi membri dell’Unione ad avviare subito la produzione di beni pubblici fondamentali, con particolare riguardo al problema delle migrazioni “per assicurare il pieno controllo dei confini esterni” e per garantire “la libera circolazione prevista dagli accordi di Schengen”; alla sicurezza interna, per una maggiore efficienza nella lotta contro il terrorismo; e alla sicurezza esterna “per rafforzare la cooperazione tra i sistemi nazionali di difesa”.

Per soddisfare questi nuovi compiti sono necessarie risorse fiscali addizionali e conseguentemente è stata posta all’ordine del giorno la questione di una profonda riforma della struttura del bilancio dell’Unione. Presentando in un intervista a Il Sole-24 Ore il suo Rapporto su Future Financing of the EU, il Presidente Monti afferma con forza che “per legittimare l’idea di una riforma delle risorse proprie è necessario rivedere la struttura della spesa. In un contesto di bilancio redistributivo come quello attuale, il metro di giudizio è il ‘giusto ritorno’. Invece se l’obiettivo diventa la produzione di beni e servizi a livello europeo che i nostri cittadini aspettano in campi quali la sicurezza o l’immigrazione, allora è necessario dare capacità all’Unione di erogare questi servizi.”

Si tratta di un punto decisivo per avviare un processo che deve portare nel tempo al riconoscimento di un potere fiscale in capo all’Unione, cui dovrà necessariamente accompagnarsi una riforma istituzionale che riconosca il ruolo del Parlamento e della Commissione — insieme al Consiglio — nell’elaborazione delle linee fondamentali di una politica economica che superi i limiti della politica di austerità, rilanciando la crescita, riducendo la disoccupazione e le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, e favorendo la competitività della produzione europea.

3. Questo nuovo modello di politica fiscale, pur garantendo il rispetto dei vincoli imposti da un Fiscal Compact rinnovato, che preveda il pareggio del bilancio per la parte corrente, ma consentendo il finanziamento con debito dei soli investimenti pubblici, dovrà provvedere le risorse addizionali che sono necessarie per avviare una crescita capace di vincere le sfide del processo di globalizzazione e di tenere il passo con la dinamica travolgente dell’innovazione tecnologica e, al contempo, compatibile con gli obiettivi di sviluppo sostenibile.

Il punto più basso del ciclo economico è stato superato, ma in molti paesi membri dell’Unione la ripresa è ancora debole e la disoccupazione, soprattutto per le classi più giovani, ancora molto diffusa. Per rilanciare lo sviluppo, l’Europa dovrà impegnare ingenti risorse per promuovere la ricerca scientifica e per sostenere i processi di innovazione, attraverso una politica industriale finalizzata a un rafforzamento del processo di Manifattura 4.0, che rappresenta un’evoluzione in atto dei processi produttivi attraverso l’applicazione ai sistemi produttivi di Internet e delle nuove tecnologie informatiche. A questo fine, un incremento della dotazione di fondi dello European Research Council, da un lato, e il sostegno a iniziative industriali innovative nei settori ad alta tecnologia attraverso la creazione di imprese federali europee — come è stato in passato il caso di Airbus e di Galileo — rappresentano la chiave di volta per accrescere la produttività e, quindi, la capacità di competere sui mercati globali dell’industria europea.

Ma lo sviluppo deve essere reso compatibile con la tutela dell’ambiente. La recente riunione a Marrakech della COP22 non ha realizzato significativi passi in avanti rispetto all’Accordo sul clima di Parigi, anche per l’atteggiamento passivo assunto dalla delegazione americana a seguito dell’elezione di Trump, noto per le sue posizioni negazioniste rispetto all’impatto del fattore antropico sui cambiamenti climatici. Ma, al di là di questi impegni internazionali, l’Europa deve comunque impegnarsi attivamente nel processo di decarbonizzazione del sistema economico per gli effetti positivi che lo sviluppo della produzione di energie rinnovabili può esercitare non soltanto sulle condizioni ambientali, ma altresì sulla crescita di un settore — quello energetico — che può rappresentare un fattore decisivo per l’avvio di una nuova fase di sviluppo dell’economia europea, caratterizzata da innovazione, progresso scientifico e aumento dell’occupazione.

4. Anche nei primi anni che hanno seguito il lungo periodo di recessione e che sono stati caratterizzati da una timida ripresa, la crescita dell’economia europea non è stata accompagnata da un freno all’aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e, in particolare, a una riduzione della povertà. Il problema più grave è evidentemente rappresentato dalla quantità di giovani in cerca di prima occupazione, ma anche di persone già occupate che hanno perso il posto di lavoro in conseguenza degli sviluppi tecnologici che hanno ridotto la quantità di lavoro disponibile nel settore produttivo. Se appare ragionevole prendere in considerazione l’idea di Keynes che proponeva, ai tempi della grande recessione del 1929, un drastico taglio dell’orario di lavoro e una redistribuzione più equilibrata del monte ore di lavoro disponibili, si deve altresì considerare la possibilità che l’Europa compia un passo significativo sul terreno della lotta alla povertà con il riconoscimento di un diritto soggettivo a ricevere un trasferimento monetario per chi è privo di un reddito sufficiente a conseguire un livello di vita accettabile. Un’iniziativa europea per un Social Compact che preveda la generalizzazione di forme incisive di intervento, con la definizione di un reddito minimo fondato sul principio di un universalismo selettivo, subordinato alla prova dei mezzi e alla disponibilità dei beneficiari di soddisfare precisi impegni in termini di ricerca di un lavoro, e finalizzato a contrastare il rischio di povertà, sarebbe giustificata sul piano dell’equità sociale e favorirebbe una crescita della fiducia dei cittadini nei confronti dell’Unione.

5. Un significato rilevante potrebbe altresì assumere la creazione di un secondo livello europeo per l’indennità di disoccupazione, che è stato oggetto recentemente anche di una proposta da parte del governo italiano.[1] Il meccanismo proposto dovrebbe prendere in considerazione soltanto i fenomeni di disoccupazione derivanti dall’andamento ciclico, lasciando agli Stati membri la responsabilità della gestione della disoccupazione strutturale. In questo modo lo strumento potrebbe giocare un ruolo significativo di stabilizzazione a fronte di shocks asimmetrici che colpiscano l’economia di un singolo paese e la distribuzione di questa indennità supplementare verrebbe meno una volta superata la fase negativa del ciclo.

L’istituzione di un fondo di stabilizzazione regionale per far fronte a shocks asimmetrici nell’ambito di un’Unione monetaria è stata da tempo suggerita in un rapporto di un gruppo di esperti per la Commissione europea.[2] Questo fondo dovrebbe essere attivato automaticamente qualora si manifesti uno scostamento significativo tra la variazione del tasso di disoccupazione in uno Stato membro e la media europea. L’ipotesi considerata prevedeva che ogni scarto di un punto percentuale rispetto alla media europea — escluso naturalmente il paese che riceve il trasferimento — originasse un trasferimento pari all’1% del Pil dello Stato membro in recessione, con un limite superiore al trasferimento fissato pari al 2% del Pil del paese in questione. In questo modo si stimava che “the degree of stabilization of the proposed system can be assumed to be in the range of 18 to 19%”[3] e, sulla base di un esercizio controfattuale relativo al periodo 1984-1991, che il totale dei pagamenti effettuati dal fondo su base annua sarebbe ammontato in media allo 0,23% del Pil comunitario per l’anno 1990.

Nel non-paper italiano si ipotizza che il fondo europeo per l’indennità di disoccupazione trasferisca ai paesi beneficiari risorse da utilizzare esclusivamente per le politiche a favore dei disoccupati, nel rispetto degli istituti nazionali del mercato del lavoro. Le amministrazioni nazionali sarebbero tenute ad evidenziare sui singoli assegni di disoccupazione la quota riferibile all’indennità di disoccupazione europea. Questo consentirebbe ai lavoratori in difficoltà di “percepire una concreta azione europea di contrasto alla disoccupazione; si tratterebbe di un importante segnale di vitalità e integrazione da parte dell’Europa, necessario per rafforzare la fiducia nel progetto europeo”.[4]

6. Sono questi gli obiettivi che sul terreno economico l’Europa dovrà perseguire per avanzare verso il traguardo dell’unificazione federale, superando definitivamente i limiti di politiche nazionali incapaci di garantire il futuro del continente in un mondo globalizzato. Per raggiungere questi obiettivi è tuttavia necessario un deciso cambio di passo. Dopo quasi un decennio dallo scoppio della crisi la crescita dell’economia è ancora fragile e l’unico strumento che nell’Eurozona può essere utilizzato per sostenerla — evitando che si accrescano le divergenze fra i paesi più ricchi e quelli economicamente più arretrati e per garantire uno sbocco a giovani e meno giovani in cerca di un’occupazione — è costituito dalla politica monetaria. E non a caso, perché la Banca centrale europea è l‘unica istituzione di governo federale che esista in Europa. In un’istituzione federale si possono prendere decisioni anche contro la volontà degli Stati più forti, come è avvenuto quando Draghi ha deciso di promuovere il Quantitative Easing nonostante il parere contrario della Bundesbank. Ma per la politica fiscale le decisioni devono essere prese all’unanimità, con il consenso di tutti i paesi, e in particolare degli Stati più forti, che temono il default degli Stati più deboli. E proprio al fine di garantire un comportamento ispirato ai principi del rigore e della stabilità finanziaria è stato approvato il Fiscal Compact, ma le misure di austerità rischiano di fallire per gli effetti recessivi che generano se non sono accompagnate da misure per sostenere la crescita, che finora si sono limitate al varo del piano Juncker, di dimensioni limitate e i cui effetti positivi si manifesteranno lentamente nel tempo.

Occorre dunque rafforzare le dimensioni finanziarie di un piano di sviluppo europeo fondato sulla crescita degli investimenti, in particolare degli investimenti pubblici destinati a promuovere le reti infrastrutturali e a sostenere la ricerca — con le sue ricadute sulla produzione — e l’innovazione tecnologica, con la formazione di imprese federali europee nei settori più dinamici e più aperti al mercato mondiale. Ma l’Europa dovrà promuovere altresì un rafforzamento del sistema di istruzione superiore, lo sviluppo di nuove tecnologie per le energie rinnovabili, la tutela dei beni ambientali e del patrimonio culturale. Tutte queste misure avranno un effetto positivo sull’occupazione e favoriranno una riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito fra redditi di lavoro e di capitale, che si sono fortemente accentuate durante il decennio della crisi. Ma per attuare questo piano occorre costruire un’Unione federale, con un governo capace di prendere decisioni nei settori della politica estera e della sicurezza e per quanto riguarda le linee generali della politica economica, e con la trasformazione del Consiglio dei ministri in una seconda camera che, così come il Parlamento, decida a maggioranza, abbandonando finalmente il principio dell’unanimità che costringe oggi l’Europa all’impotenza.

7. Nella situazione di crescita debole in cui si dibatte l’economia europea esistono tutte le condizioni favorevoli per avviare una politica fiscale espansiva al fine di accrescere la competitività della produzione europea in un mondo globalizzato, di assorbire la disoccupazione e di promuovere la transizione verso una nuova struttura del mercato compatibile con la rapidissima evoluzione tecnologica. In effetti, il basso grado di utilizzo della capacità produttiva e l’ampia disoccupazione della forza lavoro escludono vincoli dal lato dell’offerta e, insieme a un livello di tassi d’interesse prossimi al limite inferiore, fanno sì che il moltiplicatore keynesiano sia significativamente più elevato di quello prevalente in periodi normali.

Le condizioni di mercato consentono altresì di considerare ragionevolmente scongiurato il pericolo che si manifestino fenomeni di spiazzamento (crowding-out) degli investimenti privati — a seguito dell’aumento degli investimenti pubblici — che ridurrebbero il moltiplicatore a valori prossimi allo zero. Appare invece realistico pensare che la crescita generata dalla domanda pubblica, accompagnata da una politica monetaria espansiva, favorisca parallelamente, accanto alla crescita del reddito e della produzione, un progressivo e limitato aumento dell’inflazione, il che farà ridurre ulteriormente i tassi di interesse reali, con effetti positivi anche sugli investimenti privati.

Una recessione di durata decennale, quale quella che ha afflitto l’economia europea, genera inevitabilmente fenomeni di isteresi per cui la caduta ciclica dei livelli di produzione tende a perpetuarsi anche in futuro, incidendo negativamente sul prodotto potenziale di lungo periodo. In una situazione simile, una politica espansiva non manifesterà soltanto effetti sullo sviluppo di breve periodo, ma inciderà positivamente anche sui livelli di produzione futura, con una crescita conseguente della base imponibile che consentirà di far fronte al finanziamento nel medio-lungo periodo della politica espansiva, evitando così un aumento del debito. In ogni caso, i prelievi che potrebbero essere utilizzati per aumentare le risorse proprie destinate a finanziare gli investimenti previsti dal piano di sviluppo dovranno essere tali da incidere in misura prevalente sulle rendite e sui consumi, e non sul lavoro e sulle imprese. Si può pensare, in particolare, a una carbon tax che gravi sull’utilizzo di combustibili fossili, anche per favorire il controllo dei cambiamenti climatici, e a un’imposta sulle transazioni finanziare, per scoraggiare la speculazione e per promuovere l’utilizzo dei capitali per investimenti produttivi.

8. La risposta che viene proposta dai governi europei è invece debole, incerta e, spesso, addirittura di segno contrario. A fronte delle sfide che l’Europa deve affrontare, sono infatti emerse forze politiche nei diversi paesi europei che propongono un ritorno al passato, attraverso chiusure nazionalistiche che prendono di mira in primo luogo la moneta europea, considerata la causa della crisi che, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti, si è poi diffusa in Europa e ha provocato contrazioni della produzione, disoccupazione e aumento delle disuguaglianze e della povertà soprattutto nei paesi più deboli dal punto di vista della finanza pubblica, e quindi più soggetti alla speculazione internazionale.

Posizioni di questo tipo, che arrivano a proporre l’uscita dall’Unione monetaria e quindi l’abbandono della moneta unica, sono presenti in molti paesi europei, e anche in Italia. Al di là delle scelte politiche che le motivano e di alcune fantasiose technicalities che cercano di giustificarle, le proposte che vengono avanzate per sostenere l’uscita dell’Italia dall’euro possono essere così riassunte, in termini sintetici: in primo luogo, uscire dall’euro significa liberarsi dai vincoli del Fiscal Compact e poter riprendere una politica di deficit spending per rilanciare l’economia e l’occupazione; in secondo luogo, il ritorno alla lira genererebbe un deprezzamento della moneta, favorendo le esportazioni e, quindi, la crescita. Ma si tratta in realtà di ipotesi del tutto prive di fondamento.

9. Trascurando tutti i problemi politici, legali e tecnici legati a un’eventuale uscita dall’euro, l’idea che si possa rilanciare lo sviluppo allentando i vincoli fiscali è del tutto irrealistica. I vincoli imposti dall’Europa riguardo alla politica fiscale sono giustificati dall’eccessiva quantità di debito accumulata dall’Italia. Ma, in realtà, il problema del debito per l’Italia è aggravato dalle dimensioni ancora significative del disavanzo. Ci sono paesi come il Giappone che hanno livelli molto più elevati di debito, ma non sono oggetti di attacchi speculativi dai mercati finanziari perché hanno una finanza solida, nonostante le politiche espansive di Abe. Per l’Italia la situazione è diversa. Il rapporto debito/Pil durante i due anni dell’ultimo governo Prodi, con Padoa Schioppa Ministro dell’economia, era sceso dal 102,6 nel 2006 al 99,8% nel 2007, ma soprattutto il disavanzo era calato dal 3,6 all’1,5 per cento, con un avanzo primario (al netto della spesa per interessi) che era salito dallo 0,3 al 3,1 per cento. I mercati finanziari erano tranquilli e lo spread fra il tasso dei Btp e i Bund tedeschi contenuto. Poi il governo Berlusconi ha rilanciato il disavanzo ed è stato punito dai mercati con un fortissimo aumento dello spread, che alla fine l’ha costretto alle dimissioni.

Oggi, quello che preoccupa i tedeschi e i mercati sono le misure che sono state recentemente proposte con l’obiettivo di rilanciare l’economia, ma soprattutto di creare consenso. Spese di dimensioni significative, che tra l’altro hanno avuto effetti espansivi molto limitati: secondo le stime di Banca d’Italia, la concessione di un bonus di 80 euro si è trasformato in un aumento dei consumi soltanto per il 40% (il resto è andato naturalmente a risparmio). Un disavanzo che si mantiene su livelli elevati non soltanto impedisce la riduzione del rapporto debito/Pil — che è in ogni caso auspicabile —, ma genera una penalizzazione da parte dei mercati finanziari attraverso una contrazione negli acquisto di titoli di debito italiani, con conseguente aumento dei tassi e un ulteriore aumento del deficit. La politica di deficit spending ipotizzata da coloro che spingono verso un’uscita dell’euro per rilanciare la crescita attraverso un aumento della spesa e una riduzione delle imposte è quindi destinata a fallire e, al limite, a spingere l’economia italiana verso una situazione di default.

10. Il fatto che le dimensioni del debito e i livelli elevati di disavanzo impediscano di gestire una politica espansiva attraverso misure di deficit spending non significa affatto che non si possa fare nulla. Si tratta di contenere, attraverso un continuo monitoraggio dei canali di spesa (la c.d. spending review), gli interventi che non generano particolari effetti espansivi sul reddito e, d’altro lato, di proteggere le spese che o incidono positivamente sul reddito futuro come gli investimenti ovvero garantiscono livelli adeguati di welfare. Per quanto riguarda i consumi, essi sono frenati dall’incertezza sul futuro dell’economia e soprattutto da una cattiva distribuzione del reddito, con un’eccessiva concentrazione nelle fasce più alte caratterizzate da una minore propensione al consumo. Su questo si può agire con una diversa struttura del prelievo fiscale, che gravi in misura minore sulle classi di reddito più basse e, in generale, sul lavoro e sulle imprese, e maggiormente sui redditi elevati, sulle rendite finanziarie e sui patrimoni.

Ma si possono altresì ipotizzare interventi sulla spesa. L’Italia, ad esempio, è l’unico paese insieme alla Grecia che, in Europa, non prevede nel sistema di welfare interventi specifici contro la povertà. Si potrebbe prendere esempio dal Revenu de solidarité active francese e dall’Arbeitslosengeld II tedesco per introdurre anche in Italia una forma di reddito minimo, finalizzato a contrastare il rischio di povertà, fornendo protezione contro il rischio di cadere in uno stato di grave deprivazione economica e di esclusione sociale, ma pensato altresì per sostenere famiglie con bassi salari.

Toso[5] stima per l’introduzione di un reddito minimo in Italia un costo compreso fra 4 e 7 miliardi, a seconda del carattere più o meno inclusivo della riforma, mentre l’introduzione nel 2014 del bonus fiscale di 80 euro mensili è costata a regime circa 9,5 miliardi di euro. E se il flusso di reddito generato dal bonus è stato largamente destinato a risparmio, è certo che trasferimenti mirati esclusivamente alla riduzione della povertà genererebbero un flusso di nuova domanda di beni di consumo. Questa, e non la crescita indiscriminata del deficit, sembra la strada migliore per rilanciare la domanda globale attraverso una ripresa dei consumi.

11. C’è un secondo argomento che viene avanzato per giustificare l’uscita dall’euro, ed è legato agli effetti che il ritorno alla lira provocherebbe sul valore esterno della moneta. E’ evidente che il ritorno a una moneta nazionale in un paese come l’Italia afflitto da gravi problemi di disequilibrio di finanza pubblica e da un tasso di crescita inferiore alla media europea si tradurrebbe rapidamente in una svalutazione della lira. Gli effetti immediati di una svalutazione consistono in una spinta alla crescita delle esportazioni — che costerebbero meno all’estero una volta che i prezzi italiani in lire fossero tradotti in euro o in dollari — e a una contrazione delle importazioni, che costerebbero di più per i consumatori italiani. Ma questi effetti positivi sono di breve periodo e non sono destinati a persistere nel tempo. Dal lato delle importazioni, l’Italia acquista all’estero materie prime, energia e semilavorati, i cui prezzi sono espressi prevalentemente in dollari e la cui domanda è fortemente inelastica, ossia varia in misura ridotta al variare dei prezzi. Orbene, in questo caso se le quantità domandate di beni esteri rimangono sostanzialmente invariate, l’esborso in dollari non si riduce — e non si ha quindi un impatto positivo sulla bilancia dei pagamenti —, mentre aumenta la quantità di lire che occorre spendere per ottenere la quantità di dollari necessaria per pagare le importazioni.

Per quanto riguarda le esportazioni, con la svalutazione crescono per un effetto di prezzo — i prezzi dei prodotti italiani si riducono se espressi in valuta estera —, ma questo vantaggio tende ad essere rapidamente eroso perché l’aumento dei prezzi delle importazioni di materie prime e semilavorati incide sui costi di produzione delle imprese. Secondo valutazioni relative al periodo precedente l’introduzione dell’euro, in circa un anno i vantaggi in termini di competitività derivanti dalla svalutazione potrebbero essere in gran parte bilanciati dall’inflazione interna generata dai costi più elevati delle importazioni. In questo caso, con il ritorno alla lira si rientrerebbe rapidamente nella spirale perversa, già sperimentata a lungo in Italia, di svalutazioni che generano inflazione, che a sua volta richiede ulteriori svalutazioni e così via di seguito.

12. Due ulteriori considerazioni finali. La prima riguarda gli effetti derivanti da una variazione delle ragioni di scambio (i c.d. terms of trade), ossia dei rapporti fra prezzi all’importazione e all’esportazione. Se i primi aumentano e i secondi diminuiscono, in termini reali questo significa che per ottenere la stessa quantità fisica di importazioni occorre dare in cambio una maggiore quantità fisica di beni da esportare, ossia il paese che svaluta si impoverisce. La seconda, più politica, riguarda il fatto che mentre l’euro è una moneta mondiale che consente all’Europa una certa autonomia rispetto al dollaro, la lira sarebbe totalmente dipendente dalle decisioni di politica monetaria della moneta egemone, ossia del dollaro. E questa considerazione dovrebbe avere un certo peso nella valutazione dei c.d. sovranisti che sperano che il ritorno alla lira significhi riappropriarsi di una sovranità perduta con l’ingresso nell’Unione monetaria.

Queste osservazioni prescindono totalmente da una valutazione del significato politico di un’uscita dall’Unione monetaria. Un conto è l’isolazionismo di Trump, che difficilmente otterrà i risultati attesi dal nuovo Presidente, ma è comunque ipotizzabile viste le dimensioni dell’economia americana; tutt’altra è la situazione dell’Italia che rappresenta una frazione trascurabile dell’economia mondiale. E inoltre occorrerebbe valutare anche gli svantaggi che deriverebbero dall’isolamento dell’Italia rispetto agli altri paesi europei (fine della libertà di movimento garantita da Schengen, limitazioni al movimento di capitali, impossibilità di affrontare in comune i problemi della sicurezza interna ed esterna, e solitudine nella gestione dei problemi della migrazioni).

La via di uscita di un ritorno alla moneta nazionale appare quindi ragionevolmente esclusa, ma occorre al contempo uscire dalla situazione di stallo in cui si trova il processo di unificazione europea. La fase più drammatica della crisi economica è stata superata, ma i costi sono ancora alti in termini di disuguaglianze nella distribuzione del reddito, di deterioramento della situazione occupazionale e di ampliamento delle aree di povertà, di difficoltà da affrontare nella difficile transizione verso un’attività produttiva largamente automatizzata e in grado di competere con successo in un mercato ormai globale. Ma rimangono altresì da affrontare i problemi più scottanti che riguardano il tema della sicurezza, esterna e interna, e di una politica estera capace di garantire stabilità nelle aree più vicine all’Europa da cui provengono sia i rifugiati per situazioni di guerra, sia coloro che fuggono dalla povertà e dalle carestie.

13. In questa prospettiva si colloca la strategia globale elaborata dal Vice Presidente della Commissione e Alto responsabile per gli Affari esteri e per la Politica della sicurezza Federica Mogherini. Nella suaLecturealla Humboldt Universität Mogherini ricorda che “our citizens and our partners — also outside of the European Union — are asking for a stronger Europe on security and defence. And we could have launched a theoretical debate or even ideological debate on, for instance, a European army (…). We decided instead — and I take responsibility for that — to start with the Treaties we have, with the instruments we have and we have not used. We decided to start with something very concrete and make it work and on this build the next step”.[6] Questo approccio di stampo monnettiano, simile a quello adottato da Monti per il finanziamento del bilancio dell’Unione, si fonda sull’idea che occorra in primo luogo rovesciare lo stato d’animo dell’opinione pubblica con una serie di provvedimenti capaci di ottenere risultati concreti e immediatamente visibili.

Il fatto dirimente è tuttavia che l’ipotesi di uno sviluppo graduale e progressivo dall’Unione monetaria all’Unione politica è stata smentita prima dalle contraddizioni emerse con lo scoppio della crisi economica e, poi, drammaticamente, con l’esito del referendum britannico del 23 giugno 2016. Per avanzare verso un’Unione politica caratterizzata da una struttura realmente federale, che consenta di trasferire a livello europeo, al di là della moneta, le competenze in materia di politica economica (con una politica di bilancio sostenuta da risorse proprie, e non trasferite dai paesi membri), e progressivamente — partendo da un più stretto coordinamento delle politiche nazionali — di politica estera, di sicurezza e di difesa, lasciando inalterata l’attribuzione delle competenze residue a livello statale e sub-statale, è necessaria un’iniziativa politica capace di risolvere rapidamente i problemi derivanti dalla Brexit e di rilanciare il progetto europeo.

14. Dopo la Brexit è cresciuta la consapevolezza che il trasferimento di reali poteri a livello europeo non potrà coinvolgere tutti i paesi che fanno parte attualmente dell’Unione, ma dovrà essere portato avanti avec ceux qui voudront, secondo la nota formula ipotizzata da Mitterrand, ma mai in seguito portata avanti con determinazione. L’avanzamento verso “un’Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa”, come previsto dall’Articolo 1 del Trattato sull’Unione europea, è pensabile soltanto all’interno di un nucleo di paesi, a partire dai paesi che fanno parte dell’eurozona, ma escludendo i paesi che al momento non sono disponibili a ulteriori cessioni di sovranità al di là di quanto imposto dal mercato unico. Da questo punto di vista la Brexit ha eliminato un fattore di confusione, sancendo definitivamente che, qualunque sia l’esito dei negoziati fra l’Unione e la Gran Bretagna, questo paese non farà comunque parte del nucleo duro che sarà infine in grado di portare a compimento il processo di unificazione avviato a partire dal Manifesto di Ventotene.

L’obiettivo di una riforma istituzionale dell’Unione rimane quello indicato da Altiero Spinelli: una Comunità di valori, fondata sul modello federale, solidale e democratica. Il problema che deve essere prioritariamente risolto è quello dell’iniziativa. L’Europa non cade dal cielo e non si può sperare che venga presa la decisione di avviare un processo costituente se non si delinea preliminarmente un’iniziativa di un paese — o di un gruppo di paesi —, sostenuta da un consenso consapevole nell’opinione pubblica,[7] volta a realizzare un rafforzamento della struttura federale dell’Unione, garantendo alla Commissione un’effettiva capacità di governo, controllata dal Parlamento eletto dai cittadini europei e da un Consiglio dei ministri trasformato in una Seconda camera che rappresenti gli Stati al livello dell’Unione.

Hic Rhodus, hic salta. Se i governi saranno capaci di offrire questa risposta con misure capaci di promuovere — in tempi brevi — passi in avanti verso una vera Unione politica, anche il referendum britannico avrà almeno prodotto l’effetto positivo di favorire lo sviluppo di un’Europa più efficace, ma anche più democratica, giusta e solidale. Nel caso contrario, sui governi ricadrà la colpa storica di aver avviato l’Europa sulla strada di un declino storico inarrestabile, aprendo la strada al successo del populismo e, in ultima istanza, a una rinascita del nazionalismo.

Alberto Majocchi

 


[1] Ministero dell’economia e delle finanze, European Unemployment Benefit Scheme, Rome, August 2016, http://www.mef.gov.it/.

[2] European Commission, Stable Money, Sound Finances. Community Public Finance in the Perspective of Emu, European Economy, n. 53 (1993).

[3] A. Italianer, M. Vanheukelen, Proposal for Community Stabilization Mechanisms: Some Historical Applications, European Economy, Reports and Studies, n. 5 (1993), pp. 493-510.

[4] Ministero dell’economia e delle finanze, Un fondo europeo per l’indennità di disoccupazione (EUBS): nove chiarimenti, Roma, 6 settembre 2016.

[5] S. Toso, Reddito di cittadinanza. O reddito minimo?, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 102.

[6] F. Mogherini, United we must stand. The European Union in testing times, Humboldt Universität, December 2016.

[7] Nel dibattito corrente la posizione di una larga maggioranza nell’opinione pubblica favorevole all’Europa viene spesso sottovalutata o travisata. In un recente lavoro (M. Ferrera, A. Pellegata, Can Economic and Social Europe Be Reconciled? View on Integration and Solidarity, REScEU, University of Milan, 2017) un sondaggio svolto in sei grandi paesi della UE (Francia, Germania, Italia, Polonia, Svezia e Regno Unito) mostra che la grande maggioranza del campione interrogato (89,1%) è favorevole a garantire che i paesi in gravi difficoltà vengano aiutati e più del 77% ritiene che la UE dovrebbe disporre di un bilancio che consenta di fornire assistenza finanziaria a un paese in cui cresca sensibilmente il tasso di disoccupazione. Anche sul tema scottante dell’immigrazione una buona maggioranza (65,7%) è favorevole al fatto che i controlli sulle frontiere esterne e la politica dell’accoglienza debbano essere affidati a Bruxelles. Per quanto riguarda l’esito di un possibile referendum sull’uscita dall’Unione due risposte su tre risultano favorevoli al remain, con la percentuale più alta per il remain in Germania (75%) e la più alta per il leave in Svezia (35%).

 

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