IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXVI, 1984, Numero 2, Pagina 156

 

 

LIONEL ROBBINS
 
 
In occasione della scomparsa di Lionel Robbins (avvenuta il 15 maggio 1984, Robbins era nato nel 1898) Il Federalista desidera ricordare l’importanza della sua opera di economista e di federalista, singolarmente sottovalutata dal mondo accademico e della cultura.
La carriera di Robbins, sebbene egli fosse di quindici anni più giovane, si incrociò con quella di Keynes e, negli anni della grande depressione, fu inevitabile che i punti di vista divergenti dei due grandi economisti entrassero in conflitto. L’opinione corrente su questo contrasto dottrinale e politico è sommaria e scorretta. Non si mette minimamente in discussione il fatto che le opinioni di Keynes fossero adeguate alla situazione, con il risultato che Robbins viene considerato come un grande interprete e continuatore della tradizione liberale classica, ma privo di proposte teoriche innovatrici.
Le cose stanno in verità in modo differente. La divergenza di opinioni fra Robbins e Keynes si manifestò su due questioni principali: a) le misure di intervento pubblico necessarie a far fronte alla crisi economica e a ridurre la disoccupazione; b) la natura dell’ordine internazionale capace di garantire un elevato ed equilibrato sviluppo dell’economia mondiale. Orbene, mentre sulla prima questione Robbins riconobbe molto onestamente, in più occasioni, di essersi sbagliato ad opporsi alle misure proposte da Keynes, sulla seconda non cambiò mai la sua opinione.[1] Ma sono esattamente le sue riflessioni sull’ordine economico internazionale che vengono sistematicamente ignorate da quasi tutti gli economisti accademici, prigionieri, Come lo è stato Keynes, del mito che sia possibile un ordine economico internazionale, dunque lo sviluppo ed il benessere, in un mondo di Stati sovrani.
È molto significativa in proposito l’evoluzione intellettuale di Keynes. Nel 1919 egli compì un gesto coraggioso dimettendosi da rappresentante ufficiale del governo inglese alla Conferenza per la Pace di Parigi per denunciare l’insipienza delle grandi potenze vincitrici che non si proponevano altro che di umiliare la Germania con incredibili pretese di « riparazione ». Nasceva così un ordinamento europeo post-bellico già infettato dai germi della rivincita – affermava giustamente Keynes in Le conseguenze economiche della pace. Ma i rimedi proposti da Keynes furono quelli tipici ed inefficaci dell’internazionalismo liberale, cioè un appello alla buona volontà dei governi democratici, in particolare quello degli Stati Uniti, senza mai mettere in discussione la ricostruzione dell’Europa sulla base del principio della sovranità assoluta degli Stati nazionali. Come misura massima, Keynes propose, ma per pure ragioni di convenienza economica, la creazione di una Libera Unione commerciale fra i paesi europei, alla quale auspicava che anche il Regno Unito aderisse. I fatti si incaricarono di smentire questa troppo semplicistica visione della politica internazionale e negli anni trenta, di fronte alla crescente minaccia del fascismo e del nazismo, Keynes abbandonò la sua fiducia nell’ordine liberale internazionale, spingendosi sino ad abbracciare la dottrina del protezionismo e dell’autarchia. «L’età dell’internazionalismo economico – scriveva nel 1933 – non ha portato con sé la fine delle guerre, e se i suoi sostenitori replicano che ciò è dovuto alla parzialità del suo successo, è ragionevole puntualizzare che un successo più ampio è difficilmente ipotizzabile negli anni a venire ». Egli si dichiarava pertanto « più d’accordo con quelli che vorrebbero ridurre l’interdipendenza economica tra le nazioni che con quelli che la estenderebbero ».[2]
Questi orientamenti politici sono importanti per collocare nella loro giusta prospettiva le proposte di politica economica che Keynes stava elaborando in quegli anni e che costituiranno la struttura portante della Teoria Generale. Le politiche keynesiane contro la disoccupazione sono state concepite per un sistema politico chiuso entro i confini nazionali ed un mondo con pochi o pochissimi scambi fra le nazioni. Si tratta certamente di una visione antistorica dell’evoluzione dei rapporti internazionali, ma che rispecchia fedelmente la posizione del Regno Unito in quegli anni, cioè di una potenza coloniale in declino ed ormai incapace di svolgere un ruolo attivo nella politica mondiale. Da questa limitata prospettiva, in effetti, Keynes non riuscirà ad emanciparsi che parzialmente quando sarà costretto dalle pretese statunitensi ad occuparsi della riorganizzazione post-bellica dell’economia internazionale.
Ben diversa è la risposta di Robbins alla crisi del sistema politico europeo e mondiale. Per Robbins la grande depressione non venne causata dall’errore di questo o quel governo, ma dalla impossibilità per ciascuno di essi di porre sotto controllo una situazione che avrebbe richiesto provvedimenti e misure di organizzazione del mercato su scala mondiale da parte di un potere sovrannazionale. Queste riflessioni condussero Robbins a riesaminare i fondamenti stessi della teoria dell’economia internazionale e a riscoprire le verità dimenticate che ispirarono gli autori della prima costituzione federale della storia. Il suo contributo, come scrisse con una punta di orgoglio nella Autobiografia, consistette nell’estendere i principi del Federalist dal caso specifico americano alla situazione « di anarchia internazionale del ventesimo secolo ».[3]
Questo lavoro di aggiornamento contribuì a far compiere un progresso considerevole (anche se purtroppo ancora quasi del tutto ignorato) alla stessa teoria economica. Negli anni trenta si era sviluppato un dibattito di grande interesse sul significato dell’economia pianificata e sui rapporti con il mercato. La tendenza generale era (e rimane) quella di contrapporre il piano al mercato. In Economic Planning and International Order (1937) ) Robbins introdusse un punto di vista del tutto nuovo e decisivo per quanto riguarda la comprensione dei problemi internazionali. « La scelta – scriveva Robbins – non è fra un piano o l’assenza di piano, ma fra differenti tipi di piano ». Correttamente si deve parlare dell’esistenza di un piano liberale, così come si parla di un piano socialista o nazionale. «La ‘pianificazione’, nel suo significato moderno, comporta il controllo pubblico della produzione in una forma o in un’altra. L’intento del piano liberale era quello di creare un insieme di istituzioni in cui i piani dei privati potessero armonizzarsi. Lo scopo della moderna (pianificazione) è quello di sostituire i piani privati con quello pubblico – o in ogni caso di relegarli in una posizione di subordinazione ».[4]
Su questa base, Robbins fu allora in grado di denunciare il difetto della posizione liberale (e socialista) al livello internazionale. I liberali classici avevano sostenuto la necessità di introdurre una serie di istituzioni, come la moneta, la regolamentazione degli scambi e della proprietà, ecc. al fine di consentire il funzionamento del mercato: la mano invisibile è in verità, scriveva Robbins, la mano del legislatore. Ma gli economisti classici, mentre ritenevano indispensabili queste misure di governo all’interno dello Stato, avevano ingenuamente creduto che potesse spontaneamente crearsi un mercato ben ordinato e funzionante anche al livello internazionale, in una situazione di anarchia politica. Ne segue che al livello internazionale, dove non esiste un governo, il liberalismo (così come il socialismo) non è mai esistito.
Questa osservazione è di cruciale importanza per la comprensione dei problemi contemporanei e delle difficoltà incontrate dal pensiero politico tradizionale nell’affrontarli. Vale per questo la pena di citare per intero un commento di Mario Albertini al contributo di Robbins. « Nella discussione sulla crisi delle ideologie (che investe ormai anche il marxismo) – afferma Albertini – non è mai stata presa in considerazione una esatta osservazione di Lionel Robbins. Circa il liberalismo, egli afferma che ‘il liberalismo internazionale non è un piano che sia stato messo alla prova e che sia fallito. È un piano che non è mai stato eseguito completamente – una rivoluzione schiacciata dalla reazione prima che ci fosse stato il tempo di sperimentarla sino in fondo’, ed estende (virtualmente) questa osservazione anche al socialismo. La correzione del quadro del dibattito che ne risulta è evidente: se le cose stanno così, i mali più gravi del nostro secolo nella politica internazionale, nazionale e sociale devono ovviamente essere imputati a ciò che non è ancora liberale e/o socialista, e non al liberalismo e al socialismo in quanto tali che, non essendo ancora pienamente sviluppati, non avrebbero ancora potuto dare interamente la prova della loro validità e che tornerebbero in questione solo se si potesse dimostrare che il loro sviluppo completo è impossibile.
Il ragionamento di Robbins è inoppugnabile. Riducendolo all’osso, e riformulandolo, si può esporlo così. Egli osserva che con l’attuale sistema internazionale, fondato sulla sovranità assoluta ed esclusiva degli Stati nazionali, ogni piano economico (nel senso che egli dà al termine, cioè anche il piano liberale) non può essere che nazionale; e poi dimostra facilmente che questi piani non possono non contenere forti elementi di protezionismo e di corporativismo, perché i governi nazionali (cioè i centri di decisione che li formulano e li gestiscono) si reggono su una bilancia di potere che include tutti gli interessi protezionistici e corporativi, ed esclude gran parte degli interessi liberali e socialisti (quelli che hanno sede nazionale ma che potrebbero farsi valere solo sul piano internazionale perché è internazionale la loro scala di realizzazione). La ragione ultima di ciò sta nel fatto che mentre la sorte degli interessi protezionistici e corporativi dipende esclusivamente dai rispettivi governi nazionali, quella degli interessi liberali e socialisti in questione dipende invece dalla condotta di molti governi (al limite tutti) e non solo da quella del proprio, cioè da una situazione di potere non sottoposta al controllo elettorale diretto dei cittadini. Per questo il voto nazionale è efficace nel primo caso, inefficace nel secondo. Di fatto solo nel primo caso le decisioni favorevoli o sfavorevoli dei governi si traducono compiutamente in guadagni o perdite di voti e consenso per il partito (o i partiti) al governo. Ne segue che il liberalismo e il socialismo si possono sviluppare completamente solo con un piano internazionale (mondiale), e che un piano internazionale si può realizzare solo con un governo mondiale ».[5]
Se queste osservazioni sono corrette, il mondo contemporaneo non può rinnovarsi e risolvere i suoi drammatici problemi senza aggiungere al pensiero di Keynes anche il contributo essenziale di Robbins. Non è certamente un caso che il dibattito economico attuale mentre registra, su un fronte, la crisi delle politiche keynesiane, ormai inadeguate, se promosse su scala nazionale, a fronteggiare le ondate inflazionistiche o depressive che provengono da ogni canto del Globo, su un altro fronte prende atto della richiesta perentoria di un nuovo ordine internazionale fondato sulla eguaglianza di tutti i popoli, sulla giustizia e sulla pace. Il vecchio mondo delle chiusure nazionalistiche è agonizzante e non è possibile costruire il nuovo sulla base di un pensiero che ignora la vitale necessità dello sviluppo economico internazionale. L’ignoranza del contributo di Robbins comporta l’incapacità di progettare le riforme indispensabili al governo razionale dell’economia mondiale: l’alternativa al disordine economico e alla depressione è un piano mondiale di sviluppo.
Dopo aver parlato della grandezza di Robbins, non è tuttavia possibile tacere su di un limite del suo impegno federalista. Alla sua ammirevole coerenza intellettuale non si è accompagnato un ugual impegno nel perseguire il progetto politico della federazione europea come primo passo verso il superamento dell’anarchia internazionale. Egli concepì la soluzione federale ai problemi internazionali come un espediente tecnico per rendere possibile la realizzazione del liberalismo e non cessò di considerarsi prima di tutto un liberale. Così, quando la minaccia hitleriana si dileguò e l’Europa occidentale iniziò la sua ricostruzione a fianco degli Stati Uniti, egli sentì meno urgente l’impegno per la costruzione di una federazione europea. Solo più tardi ritornò alle sue vecchie tesi pre-belliche.[6] Ciò nonostante, il suo contributo alla storia del federalismo deve considerarsi di fondamentale importanza, come testimoniano direttamente[7] gli autori del Manifesto di Ventotene e come risulta dalle successive elaborazioni del pensiero federalista che non cessano di richiamarsi al decisivo insegnamento di Robbins sul significato e sui limiti dell’internazionalismo liberale e socialista.
 
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I. Il liberalismo internazionale*.
 
Come consumatore, il cittadino acquista sul mercato più vantaggioso. Come produttore, vende ai prezzi più alti. In questo modo, è costantemente rafforzato il principio della massima divisione del lavoro compatibile con determinati gusti e con determinati procedimenti tecnici. In tal modo, gli abitanti delle più diverse regioni, qualunque sia l’ampiezza dei limiti raggiunti dalla giurisdizione del governo sotto cui risiedono, cooperano, come produttori, in un’organizzazione che tende ad allargare continuamente – nella misura massima consentita dall’assenza di restrizioni arbitrarie in favore della domanda interna – il loro campo di scelta reale come consumatori.
Ma tutto ciò non è la negazione assoluta dell’economia pianificata, cioè un’« economia senza piano », un « caos individualistico »?
Questa idea è diffusissima oggigiorno. E in verità, se il termine « pianificazione » dev’essere per definizione circoscritto alle operazioni di un controllo centrale, le istituzioni del liberalismo internazionale ne sono certamente escluse. Il principio del liberalismo internazionale consiste nella decentralizzazione e nel controllo per mezzo del mercato. Se diciamo che il termine « piano » non va applicato a un’organizzazione nell’ambito della quale l’iniziativa libera viene guidata verso l’esercizio della libera scelta mediante un meccanismo impersonale, allora abbiamo considerato una questione di terminologia. Ma noi non ci siamo ancora pronunciati sul significato dell’organizzazione.
Ma la terminologia è certamente infelice. L’essenza di un piano risiede nel tentativo di adeguare i mezzi ai fini. In un mondo soggetto a continui mutamenti, un piano che organizzi la produzione deve, per essere destinato al successo, essere tale da consentire un costante adattamento alle variazioni delle condizioni tecniche e delle domande dei consumatori. Ora, i diversi piani che abbiamo finora studiato non offrono garanzie di questo genere. Essi implicano una paralisi del meccanismo di adattamento; tendono a fare del piano il fine, e del sacrificio dei consumatori il mezzo; racchiudono una tendenza a ridurre il consumo in un mondo che non soffre certamente di eccessiva abbondanza. È quindi saggio il tentativo di evitare questo genere di piano, cercando di edificare un sistema mondiale capace di adattarsi ai mutamenti e tale da fornire incentivi all’adattamento. Questo è il fine del liberalismo internazionale, che è un modello istituzionale progettato per affrontare le difficoltà dell’organizzazione economica su scala mondiale. Se la pianificazione è un tentativo di creare istituzioni atte a soddisfare i bisogni dei cittadini, il liberalismo internazionale è un piano.
Esso è un piano anche nel senso che dev’essere un’emanazione del governo.
Spesso si pretende che il liberalismo neghi qualsiasi funzione al governo. Si crede che la filosofia sociale liberale poggi su una ingenua fede secondo cui l’interesse individuale, abbandonato a sé stesso, condurrebbe necessariamente al bene di tutta la società. Nulla da meravigliarsi, quindi, che il sistema venga condannato a priori da coloro che lo ritengono basato su simile assurdità.
A questo riguardo, i liberali del passato non sono del tutto esenti da colpe. Sarebbe naturalmente una grottesca calunnia quella di affermare che uomini quali Hume, Adamo Smith o Bentham considerassero il governo come un’istituzione superflua.[8] L’attribuire ai grandi filosofi utilitaristi i vacui presupposti di una filosofia sociale anarchica può essere considerato solo come retorica propagandistica. Ma può essere vero che, preoccupati di scoprire le leggi del mercato, essi abbiano talvolta pensato al mercato stesso come a qualcosa che procede da sé. Può darsi inoltre che, presi dal fervore di esporre le conseguenze dell’interferenza di forze estranee nella distribuzione della proprietà, non abbiano insistito abbastanza sul complesso delle leggi che, garantendo l’ordine, rendono possibile l’istituto della proprietà. In tal modo, i suddetti filosofi, e più ancora gli uomini politici che ne hanno volgarizzato il pensiero per metterlo alla portata del pubblico, si sono prestati a malintesi e a interpretazioni erronee.
Ma, nonostante tutto ciò che è stato detto in senso contrario, è un errore grossolano quello di credere che il governo e gli organi dello Stato non sostengano una parte molto importante e indispensabile nel quadro del piano liberale di cooperazione. Non insistiamo su questo punto per aggiungere pregi al piano. A dispetto di un corrente modo di pensare, non c’è alcuna virtù intrinseca nel governo o nella sua assenza: il calcolo dell’utilità non fa differenza tra azioni del governo e azioni non del governo. Insistiamo soltanto per attirare l’attenzione su un aspetto del piano la cui mancata comprensione condurrebbe ad un fraintendimento dell’intero sistema. Le istituzioni caratteristiche di una società liberale sono inconcepibili senza governo. Dovrebbe essere evidente che esse sono incompatibili con la mancanza di sicurezza. Se non esistesse un’autorità armata con un potere coercitivo, i piani dei cittadini sarebbero destinati, entro certi limiti, a nuocersi reciprocamente. Perciò i cittadini dovrebbero provvedersi di un’organizzazione difensiva, cosa necessariamente dispendiosa e di per sé provocatrice. I piani sarebbero inevitabilmente di breve durata: non varrebbe la pena di tracciar piani per esporli a un’incertezza di lunga durata. Ma anche in questo modo essi sarebbero soggetti a continui inconvenienti. Non può esistere né divisione mondiale del lavoro, né accumulo del risparmio, né organizzazione produttiva, se la forza dell’arbitrio non è tenuta in scacco da una forza che, pur soverchiandola, non sia arbitraria.
Ma ciò non basta. La sola assenza di violenza non è una condizione sufficiente perché un’impresa libera funzioni con efficacia. Perché la cooperazione dia realmente i suoi frutti, è necessario che essa venga contenuta entro opportuni limiti mediante un complesso di istituzioni. Né la proprietà né il contratto sono in alcun senso naturali. Essi sono essenzialmente il prodotto della legge e la loro struttura non è affatto semplice. A fini espositivi, possiamo talvolta parlare come se il diritto di proprietà e il sistema contrattuale fossero semplici e omogenei. Ma commetteremmo un errore grossolano se ci lasciassimo indurre a credere che ciò rappresenti qualcosa di diverso da una elementare semplificazione. Il sistema dei diritti legali di qualsiasi società è un fatto di estrema complessità e il risultato attuale di secoli di legislazione e di responsi giuridici. Determinare in che cosa debbono consistere questi diritti al fine di soddisfare le scelte di tutti, delimitare la loro portata e il loro contenuto: ecco un compito della più grande difficoltà. A quali oggetti si estenderanno i diritti di proprietà? Questi diritti si riferiranno alle idee e alle invenzioni? O saranno circoscritti alle risorse materiali rare e alla loro utilizzazione? E in questo caso, a qual genere di utilizzazione? Può l’uomo usare di ciò che possiede in modo da recar danno agli altri? E come definiremo il danno arrecato? Sono leciti i contratti che limitano il commercio? Se sì, in quali circostanze? Se no, qual è la definizione di limitazione? Il compito della pianificazione legale consiste appunto nel risolvere questioni di tal genere. Ed è riportando i casi particolari a un sistema normativo di questo genere che i piani così costruiti vengono costantemente messi in pratica. Il sistema dei diritti e dei doveri della società liberale ideale può essere considerato un piano buono o cattivo. Ma dire che questo sistema non è un piano significa non capire assolutamente nulla. L’idea di coordinare le attività umane per mezzo di un sistema di norme impersonali, nell’ambito del quale i rapporti spontanei che si stabiliscono tra gli individui contribuiscono al bene comune, è un concetto almeno altrettanto sottile e almeno altrettanto ambizioso di quello che consiste nel far dettare in modo preciso da un’autorità centrale qualsiasi azione o qualsiasi categoria d’azione: e, forse, non meno in armonia con le esigenze di una società spiritualmente sana. Possiamo rimproverare gli entusiasti che, nel loro interesse troppo spinto per ciò che avviene sul mercato, non hanno prestato sufficiente attenzione a quella che dev’essere la sua necessaria impalcatura. Ma che dire di coloro che discutono continuamente come se questa impalcatura non esistesse?
Ma questo non è tutto. Garantire la sicurezza e un ordinamento giuridico rispondente alle necessità è una funzione più importante e difficile di quanto si creda generalmente. Ma ciò non esaurisce il campo di attività dello Stato. Il sistema del mercato ha i suoi limiti, e fuori di questi limiti si manifestano certi bisogni generalmente riconosciuti che, se non venissero soddisfatti dall’azione dello Stato, resterebbero completamente insoddisfatti, ovvero, nella migliore delle ipotesi, verrebbero soddisfatti in modo assai inadeguato.
Non è possibile né desiderabile enumerare per esteso questi casi. Ma non è difficile descrivere la loro natura generale. Da un lato esistono bisogni che, se non vengono soddisfatti collettivamente, non lo vengono affatto. Un esempio evidente di questo caso ci è offerto dalle misure profilattiche contro le malattie contagiose. È comparativamente inutile che l’individuo compia uno sforzo individuale in questo senso. Egli può essere disposto a pagare tutto ciò che è necessario dal punto di vista tecnico; ma a meno che gli altri non facciano altrettanto, il suo contributo resterà senza effetto. Dall’altro lato si manifestano bisogni che possono essere formulati individualmente, ma che contratti spontanei tra i proprietari privati non valgono a soddisfare. Un esempio caratteristico di questo caso ci è fornito dalla domanda per certi mezzi di comunicazione. Può darsi che gruppi d’individui offrano denaro per procurarsi mezzi d’accesso a determinate località. Ma in molti casi, in assenza di un’azione dello Stato sotto qualsiasi forma, la soddisfazione di questo bisogno si farà attendere a lungo. Non è inconcepibile che un’impresa privata crei una vasta rete stradale tale da soddisfare le necessità del traffico. Ma la cosa è poco probabile; è necessario perciò ricorrere a un piano d’altro genere.
Questa necessità è stata riconosciuta da lunga data. Adamo Smith, nella lista dei doveri del sovrano, metteva al terzo posto il dovere di « creare e mantenere certe imprese e certe istituzioni pubbliche che un solo individuo o un piccolo gruppo di individui non avrebbero alcun interesse a mantenere in vita ». Ma questa necessità è recentemente aumentata d’importanza. Lo sviluppo della tecnica ha provato che numerosi servizi di evidente utilità vengono meglio assicurati da metodi che richiedono l’uso di una rete che si stenda su vaste porzioni di territorio, rete che sarebbe difficile costruire senza l’espropriazione coatta dei terreni: ferrovie, canali, drenaggi, acquedotti, elettricità, comunicazioni telegrafiche o telefoniche, ecc.. Non è certo che il funzionamento di questi servizi venga meglio assicurato sulla base del monopolio statale o parastatale. Le discussioni in materia sono generalmente ispirate da particolari interessi o sono superficiali. Le indagini richieste da un esame minuzioso e sereno degli istituti più adatti a tale scopo sono appena incominciate. Ma è certo che, sotto una forma o sotto un’altra, l’intervento dello Stato è indispensabile. È inoltre certo che il campo di questa azione necessaria è suscettibile di ulteriori ampliamenti.
Se questo ragionamento è corretto, è dunque errato considerare le proposte del liberalismo internazionale come progetti che escludano qualsiasi piano. Esse costituiscono, al contrario, il solo piano, tra quelli finora presi in esame, che non riveli immediatamente una debolezza intrinseca quando lo si consideri dal punto di vista internazionale.
Sarebbe ugualmente errato considerare tali proposte come un piano che non sia mai stato applicato. L’ordine esistente, anche quello d’oggi, deve in gran parte la sua origine all’impresa privata e al mercato. Se non ci fossero né il mercato, né l’impresa privata, la nostra posizione sarebbe ancor peggiore di quella attuale. Infatti, uno dei pregi maggiori delle istituzioni liberali è rappresentato dal fatto che la loro vitalità, come forza organizzatrice, si manifesta anche nelle proporzioni più modeste e nelle circostanze più sfavorevoli. Ma come ci è stato insegnato dalle nostre prime indagini, il mondo d’oggi non è prevalentemente liberale. Il mondo d’oggi è nazionalista e interventista. E la catena ininterrotta di catastrofi politiche ed economiche che ne derivano attribuisce a quanto esiste ancora del sistema del mercato un compito che nessun meccanismo potrebbe assolvere. Non le istituzioni liberali, ma l’assenza di tali istituzioni è responsabile del caos in cui viviamo.
In verità, se conserviamo ancora il senso della prospettiva, il fatto evidente che balza agli occhi di chiunque dia uno sguardo d’assieme al corso della storia è ben diverso da ciò che vorrebbero farci credere i reazionari, tanto fascisti quanto comunisti. Il liberalismo internazionale non è un piano che sia fallito dopo infruttuosi tentativi, ma è un piano che non ha mai avuto la possibilità di funzionare integralmente.
[ ... ] Il liberalismo internazionale non è un piano che sia stato tentato e che sia fallito: è un piano che non è mai stato messo integralmente in pratica, è una rivoluzione soffocata dalla reazione prima di aver potuto offrire un’esauriente prova di sé.
Tutto ciò apparirebbe in modo ben più evidente se tentassimo una breve descrizione dei cambiamenti da introdurre per fare del liberalismo internazionale una realtà. Immaginare che allo stato attuale delle cose questi cambiamenti possano realmente verificarsi sarebbe altrettanto assurdo che immaginare la nascita del regno di Oceana o di Utopia. Ma è sempre utile conoscere il significato delle diverse tendenze del movimento. E se abbiamo scoperto che altri piani conducono a istituzioni che appaiono sostanzialmente inefficaci, è almeno interessante stabilire se anche questo piano sarebbe destinato al fallimento per le stesse ragioni.
Non abbiamo bisogno di spingere lo sguardo troppo lontano per arrivare all’essenziale. Secondo lo schema delle funzioni del governo già tracciato, il primo elemento essenziale è la sicurezza. Non può esistere una sistematica divisione internazionale del lavoro, come non può esistere la rete complicata dei rapporti finanziari ed economici indispensabili al normale sviluppo delle risorse mondiali se i cittadini sono perpetuamente esposti al pericolo di violenze. Allo stadio attuale della tecnica delle comunicazioni e della produzione, questo punto è più che mai importante. Senza ordine, non esiste economia. Senza pace, non vi è prosperità.
Ma è proprio rispetto a questo requisito così elementare di un piano economico su basi internazionali che la nostra attuale organizzazione presenta le lacune più evidenti. Esiste un’economia mondiale. Ma non esiste una politica mondiale. Le varie nazioni si armano le une contro le altre. Tra i loro abitanti non regna la libertà metodica dello Stato liberale, ma la brutale anarchia dello stato di natura. Le circostanze create dalla divisione internazionale del lavoro ci rendono solidali gli uni con gli altri. Ma in mancanza di un’opportuna organizzazione politica, passiamo il nostro tempo a far la guerra o a prepararla. Troveremmo assurdo che gli abitanti della contea di Londra mantenessero forze armate per difendersi dagli abitanti delle contee vicine e che questi ultimi, a loro volta, si comportassero nello stesso modo. Considereremmo questo fatto come infantile, come un ritorno al passato, come un inutile spreco, se non come un fenomeno che potrebbe realmente condurre al caos. Però, a causa della divisione del mondo in Stati nazionali, un comportamento simile tra aree ugualmente interdipendenti e non distinguibili con alcun criterio che non sia quello dell’arbitraria eredità di vecchi accordi tra governi, viene considerato non solo come normale ed inevitabile, ma addirittura come tale da contribuire al benessere generale. Sono in gioco, a questo punto, le valutazioni estreme. È male o bene uccidere senza procedimento giudiziario? Ecco un problema che viene anche oggi spesso risolto in modo diverso a seconda della nazionalità delle vittime. Ma una cosa è certa: l’anarchia nazionalista è fonte di inutili sprechi. Qualunque sia il valore che possiamo attribuire alle virtù militari in quanto tali, è indubbio che ai nostri giorni l’esistenza di un apparato per stimolare queste virtù è più costoso, in termini di altre cose da sacrificare, di qualsiasi altro lusso che si possa concedere la razza umana. Quanti affanni evitati, quante miserie impedite, se le circostanze accidentali della storia non avessero diviso la sede della sovranità!
Proprio a questo punto ci possiamo accorgere di uno dei principali difetti del liberalismo del XIX secolo. La grande impresa degli uomini di quel tempo fu quella di aver realizzato l’armonia degli interessi degli abitanti di diverse aree nazionali. Ma essi non si erano resi sufficientemente conto che non è possibile instaurare questa armonia se non nel quadro della sicurezza internazionale; pensavano che bastasse dimostrare la distruttività e l’inutilità di un’economia e di una politica di guerra. Se ogni Stato nazionale si fosse limitato a compiere le funzioni proprie di un governo liberale, sarebbe sparita qualsiasi causa di conflitto internazionale. Un’autorità al di sopra delle nazioni si sarebbe rivelata superflua.
Ma questo era un grave errore. L’armonia degli interessi, che secondo le loro previsioni sarebbe scaturita dagli istituti della proprietà e del mercato, aveva bisogno, come essi avevano dimostrato, di un apparato atto a difendere l’ordine e la legge. Ma mentre questo apparato, per quanto imperfetto, esisteva all’interno delle aree nazionali, fra le aree nazionali non esisteva nulla di questo genere. All’interno di ciascuna nazione essi facevano affidamento sul potere coercitivo dello Stato per armonizzare, mediante limitazioni adeguate, gli interessi dei vari individui. Tra le nazioni, invece, essi contavano sull’evidenza dell’interesse comune e dell’inutilità della violenza. In altre parole, a questo riguardo il loro punto di vista non era liberale, ma implicitamente anarchico. La posizione anarchica, però, è insostenibile. È vero che per il cittadino che non ama la guerra per la guerra l’astenersi dalla violenza è una questione evidente di interesse personale. È esatto che a lungo andare l’aggressione raramente ripaga l’aggressore e che anche la vittoria si accompagna all’impoverimento. Tuttavia, se simili argomenti non sono sufficienti per conservare l’ordine all’interno di una nazione, non vediamo perché dovremmo effettivamente contare su di essi per conservare l’ordine internazionale.
 
Es kann der Beste nicht in Frieden leben
Wenn es dem bosen Nachbar nicht gefällt.[9]
 
L’esistenza di un solo Stato i cui capi siano malintenzionati può rendere vana la cooperazione di un mondo di popoli pacifici. Non certo dimostrando che il brigantaggio e il gangsterismo non rendono, poniamo freno all’attività dei gangsters e dei banditi. Ciò lo otteniamo ricorrendo alle tecniche del controllo e della repressione. E non sarà senza mezzi di questo genere che il brigantaggio e il gangsterismo verranno eliminati dalla faccia della terra.[10]
« È necessario essere spinti ben addentro nel regno della speculazione utopistica per poter seriamente dubitare del fatto che... gli Stati... se fossero del tutto disuniti o uniti soltanto in confederazioni parziali, non si troverebbero in frequenti e violenti contrasti tra di loro. Invocare la mancanza occasionale di moventi per tali conflitti come un argomento contro la loro esistenza equivarrebbe a dimenticare che gli uomini sono vendicativi, ambiziosi e rapaci. Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo ».[11]
Ma come deve essere l’apparato di controllo?
Diventa sempre più evidente che la semplice associazione fra Stati sovrani è inefficace. La confederazione – Staatenbund – non ha mai avuto molto successo. E anche ai nostri giorni la sua debolezza non è che troppo penosamente manifesta. Finché i diversi Stati conservano la loro sovranità, i provvedimenti diretti contro di essi non possono in sostanza avere alcuna efficacia se non attraverso le alleanze militari degli altri Stati. Ogni parola scritta dai creatori della costituzione americana contro la forma di governo confederale trova ancora una volta conferma, ai nostri giorni, nella storia della Società delle Nazioni.
«Governare, scrisse Hamilton, significa avere il potere di emanare leggi. È insita nel concetto stesso di legge la necessità di sanzioni che ne assicurino l’efficacia... Se non c’è alcuna punizione per chi disubbidisce, le deliberazioni o gli ordini che pretendono di aver forza di legge non saranno di fatto più efficaci di un consiglio o di una raccomandazione. Questa punizione, qualunque essa sia, non può essere inflitta che in due modi: o per mezzo delle corti e dei giudici, o per mezzo della forza militare. In altre parole: o per mezzo della coercizione delle leggi, o per mezzo della coercizione delle armi. Il primo metodo può essere impiegato solo nei confronti degli individui, il secondo, invece, è necessario nei confronti degli Stati. È evidente che in quest’ultimo caso non esiste procedimento penale che possa imporre il rispetto delle leggi. Si possono pronunciare sentenze contro comunità o Stati per violazione delle leggi; ma queste sentenze non possono essere rese esecutive che con la forza della spada...
In ogni associazione politica basata sul principio di unire degli enti sovrani per mezzo di un comune interesse, si riscontrerà una spinta eccentrica negli astri di minore grandezza, una spinta che tenderà perennemente a distaccare ciascuno dal centro comune ».[12]
Solo con l’abbandono della sovranità – del diritto di fare la guerra – da parte degli Stati nazionali, questo pericolo può essere scongiurato.
Ma uno Stato mondiale completamente unitario non è né praticamente attuabile né desiderabile. La sua impossibilità dipende essenzialmente dalla vastità del territorio e dalla molteplicità degli idiomi su cui si estenderebbe la sua giurisdizione. Abbiamo già visto queste difficoltà passando in rassegna le possibilità del comunismo internazionale. Esse si presenterebbero anche in un sistema completamente liberale. Sarebbe, per esempio, assurdo che un’autorità centrale fosse responsabile delle strade e della sanità pubblica in Austria e in Australia contemporaneamente. Inoltre, non potremmo essere neppure certi che uno Stato simile costituirebbe una valida garanzia di libertà. Caligola desiderò un giorno che tutto il popolo romano possedesse una sola testa per poter conoscere l’estasi suprema di decapitarlo con un solo colpo. Questo grande Leviatano – lo Stato mondiale unitario – potrebbe suscitare le stesse tentazioni nei sadici dei nostri tempi. Se la sovranità indipendente significa caos, uno sconfinato Stato mondiale potrebbe significare morte.
Non esiste che una sola soluzione per questo problema così importante. La prima cosa di cui il mondo ha bisogno non è una rivoluzione economica, ma una rivoluzione politica. Non è necessario che uno Stato mondiale sia investito di poteri non limitati da alcuna costituzione. Ma è necessario che gli Stati nazionali trasferiscano una parte della loro sovranità a un’autorità internazionale. Il diritto di dichiarare la guerra e il potere di farla devono essere abbandonati. Ciò non comporta tuttavia che gli Stati nazionali debbano perdere tutti i poteri che assicurano l’indipendenza dei loro governi: anche i poteri dell’autorità internazionale devono essere limitati. Non si deve giungere né a un’alleanza né a una completa unificazione, ma a una federazione. Non Staatenbund, non Einheitsstaat, ma Bundesstaat.
A questo riguardo dobbiamo, ancora una volta, riconoscere la lungimirante saggezza dei creatori della costituzione americana. Essi non hanno elaborato una costituzione perfetta. La perfezione non è sperabile, e invero nemmeno concepibile nel dominio delle istituzioni politiche. È evidente che tanto nella Federazione americana esistente, quanto in qualsiasi altra federazione mondiale o parziale che ne seguisse l’esempio, restano i gravi problemi del costante adattamento della corretta divisione tra il potere degli Stati e quello federale, e della coordinazione delle aree dell’amministrazione regionale. Nessuna persona ragionevole pretenderà che la Costituzione americana offra oggi uno strumento perfettamente adatto alle esigenze del governo nelle condizioni tecniche attuali. Ma tenuto conto di tutte queste evidenti lacune, resta che i suoi ideatori hanno costruito uno strumento che ha riconciliato gli interessi di una grande massa di persone su una vasta estensione di territorio e ha creato un’area di pace, di libertà e di cooperazione economica senza precedenti nella storia. Essi hanno stabilito un principio che offre la sola speranza di fugare l’incubo della distruzione che grava oggi sull’umanità. E quando confrontiamo la pace e la prosperità di questa grande Unione con il caos e l’anarchia delle sventurate nazioni europee, noi sappiamo che si trattava di qualcosa che era degno di essere fatto, che è degno di essere preservato, e che è degno di essere difeso combattendo. Quando leggiamo la nobile dedica di Abramo Lincoln ai morti di Gettysburg, noi sappiamo che le sue rivendicazioni erano giuste.
 
II. Il socialismo internazionale**.
 
Supponiamo che le autorità preposte alla pianificazione godano della più ampia libertà di disporre a loro piacimento delle risorse economiche nazionali. Anche in questo caso, l’assunto secondo cui esse si varranno di queste risorse in modo da promuovere ciò che, dal punto di vista internazionale, costituisce la forma ottimale di cooperazione tra gli Stati, riposa su basi veramente fragili.
Infatti, se la produzione è controllata da estese unità quasi monopolistiche di questo genere l’uso delle risorse che sembra più favorevole ai membri di tali unità non s’identifica necessariamente con l’uso delle risorse ottimale dal punto di vista della società come un tutto. Se un piccolo Stato crea monopoli commerciali in un mondo dominato dall’economia libera, è improbabile che le sue operazioni influiscano sensibilmente sul corso dei mercati sui quali esso agisce. Se esso segue le fluttuazioni di mercato, lo farà in base alle esigenze dell’optimum internazionale. La politica che massimizza i suoi introiti contribuirà anche a portare al massimo la produzione mondiale, espressa in termini di prezzo. Se invece la politica del suddetto Stato costituisce un elemento importante di uno di questi mercati, allora sorgono contraddizioni. Gli interessi del gruppo possono essere in contrasto con gli interessi del resto del mondo. Il gruppo può trar vantaggio dalle restrizioni, il resto del mondo dall’abbondanza. E se questo metodo d’organizzazione si generalizza, ulteriori discordanze sono probabili. Il mercato mondiale si cristallizza in una serie di monopoli geografici; la sua natura muta radicalmente. Non esiste più alcuna ragione di credere che ne risultino aggiustamenti internazionali armonici. Non vi sono più prezzi determinati indipendentemente da considerazioni strategiche. Il risultato delle operazioni di scambio è determinato da una specie di negoziazione politica. Non pare che tutto ciò debba condurre, neppure lontanamente, a qualcosa che, dal punto di vista internazionale, possa essere chiamata un’utilizzazione razionale delle risorse economiche. In effetti la supposizione che la disciplina della produzione in base alle regole di mercato conduce all’armonia generale trova una giustificazione solo nel caso in cui le unità operanti siano relativamente piccole. E non ha senso pensare che vari Stati nazionali costituiscano unità che soddisfano tale criterio.
Ma si potrebbe replicare: 1’organizzazione delle diverse aree nazionali su basi socialiste non sarebbe soltanto un preludio alla loro inclusione in un sistema socialista di portata mondiale? Non si tratta per caso di uno di quegli spiacevoli periodi di transizione attraverso i quali è necessario passare prima di raggiungere una organizzazione più efficiente? È questa la speranza che anima numerosi socialisti, i quali combattono per la nazionalizzazione dell’economia locale persuasi di rendere nello stesso tempo ipotetici servigi all’ideale internazionalista.
Non abbiamo alcuna intenzione, a questo punto, di indagare se il socialismo su basi completamente internazionali rappresenti una soluzione soddisfacente al problema di una pianificazione razionale dell’economia mondiale. Studieremo la questione in seguito, facendone oggetto di una discussione approfondita. Ma non usciremo certo dai limiti dell’analisi in corso se osserviamo che organizzare il mondo in base ai criteri del socialismo nazionale non significa necessariamente un passo in questa direzione. È invece quasi certo che ciò renderebbe ancor più difficile l’attuazione del socialismo internazionale.
In effetti il socialismo internazionale, qualunque altra cosa sia, è essenzialmente uno stato di fatto in cui le risorse economiche delle varie parti del mondo costituiscono la proprietà del mondo intero. Ciò è evidentemente incompatibile con una situazione in cui le risorse delle aree nazionali appartengono agli Stati nazionali. Ma una volta nazionalizzati i mezzi di produzione, è probabile che gli ostacoli che si oppongono alla loro internazionalizzazione divengano ancor più formidabili perché il valore dei mezzi di produzione varia grandemente di paese in paese; e varia del pari considerevolmente il reddito reale di ciascun individuo calcolato supponendo che i suddetti mezzi appartengano alla collettività. Certe aree, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, sono relativamente ricche. Altre invece, come l’Italia e il Giappone, sono relativamente povere. Supponiamo che l’economia di questi paesi subisca un processo di socializzazione integrale e che il reddito medio, così calcolato, sia quello effettivo: c’è qualche ragione per pensare che gli abitanti delle regioni più ricche sarebbero disposti a dividere le fonti dei loro redditi con i cittadini delle nazioni più povere? È certo assai improbabile che ciò possa avvenire. E già abbastanza difficile ottenere che gli abitanti di aree di governo locale nelle quali il valore della proprietà tassabile è elevato, sommino le loro imposte con quelle degli abitanti di altre aree dello stesso paese in cui il valore della proprietà tassabile è basso. Quando si tratta della messa in comune della totalità delle risorse di tutti gli Stati nazionali, gli ostacoli rischiano di essere così gravi da riuscire insormontabili, almeno con mezzi pacifici. Ma dal punto di vista internazionale, e in confronto a quanto accade in regimi di libera impresa e di proprietà diffusa, il socialismo nazionale comporta la formazione di diseguaglianze più durature, e di antagonismi più estesi. Non esistono diritti acquisiti più intrattabili di quelli dei gruppi nazionali.
È sorprendente come questa verità non sia stata ancora universalmente riconosciuta visto che, da lungo tempo, è di dominio pubblico il fatto che la proprietà collettiva di industrie singole (proprietà operaia dei mezzi di produzione per gli operai cui capita di lavorare in tali industrie) è incompatibile con l’esistenza dell’ordine socialista, e minaccia seriamente di nuocere al suo sviluppo. L’incompatibilità del socialismo e del sindacalismo industriale è un vecchio luogo comune.[13] Ma le stesse osservazioni valgono per la proprietà collettiva dei mezzi di produzione impiegati dagli abitanti di certi paesi. « Le miniere ai minatori » e « La Papuasia ai papuasi » sono in sostanza due parole d’ordine identiche. Sindacalismo industriale e socialismo nazionale sono due concetti assolutamente simmetrici. Entrambi sono incompatibili con l’attuazione del socialismo internazionale.
 
III. Gli Stati Uniti d’Europa***
 
Se le cose stanno così, il rimedio è semplice. La sovranità indipendente deve essere limitata. Come cittadini dei vari Stati nazionali possiamo sperare di diminuire il pericolo di conflitti opponendoci a politiche che tendono ad evocarli. Ma non è sufficiente. L’apparato della guerra moderna è così formidabile, il costo del suo mantenimento così oneroso, i pericoli di effettivi conflitti sono così grandi, che non possiamo fare affidamento sulla spontanea buona volontà come sola nostra salvaguardia contro la catastrofe. Deve esserci un’impalcatura internazionale di leggi e di ordine, sostenuta da solide sanzioni che impedisca l’emergere di quelle politiche che sono in prosieguo di tempo responsabili di conflitti. Non occorre uno Stato mondiale unitario; una tale organizzazione non sarebbe né praticabile né desiderabile. Ma ci occorre un’organizzazione federale; non una semplice confederazione di Stati sovrani come era la Società delle Nazioni, bensì una genuina federazione che tolga agli Stati di cui è composta quei poteri che generano conflitti. I fondatori della Società delle Nazioni avevano ragione nel riconoscere la necessità di un’autorità supernazionale; il loro errore fu quello di non essere andati abbastanza avanti. Non si resero conto che il funzionamento effettivo di un’autorità supernazionale è incompatibile con la sovranità nazionale indipendente. Ma oggi noi lo sappiamo bene. La storia della Società delle Nazioni è un’unica lunga dimostrazione della verità della proposizione formulata molto tempo fa da Hamilton e da Madison che non c’è nessuna sicurezza nelle confederazioni. Oggi sappiamo che se noi non distruggiamo lo Stato sovrano, lo Stato sovrano distruggerà noi.[14]
Ora, naturalmente, è del tutto utopistico sperare nella formazione ai nostri giorni di una federazione di dimensioni mondiali. Non c’è sufficiente sentimento di una comune cittadinanza. Non c’è ancora alcuna cultura sufficientemente organizzata. Nelle attuali condizioni, persino i problemi elettorali di un tale corpo presenterebbero difficoltà insormontabili: la realizzazione politica dell’unità della razza umana può essere ben considerata come l’evento divino verso cui tutto ciò che vi è di buono nell’eredità delle diverse civiltà del mondo c’invita ad aspirare. Ma qualsiasi cosa possiamo sperare per il distante futuro del pianeta, deve essere chiaro che nell’attuale momento dello sviluppo umano qualunque tentativo di formare un’organizzazione così estesa sarebbe necessariamente condannato al disastro.
Ma non è utopistico sperare nella costruzione di federazioni più limitate, in una fusione di sovranità indipendenti in territori in cui esiste la coscienza di una comune civiltà ed un bisogno di maggiore unità. In particolare non è utopistico pensare alla formazione di una struttura di questo genere in quella parte del mondo più minacciata dalle contraddizioni della sua attuale organizzazione politica, cioè fra le bellicose sovranità europee.[15] Lungi dall’essere utopistica, questa federazione è, per coloro che hanno occhi per vedere, la più urgente necessità pratica della nostra epoca.
È infatti evidentissimo che la presente organizzazione politica europea è sopravvissuta alla propria utilità ed ora non è altro che una minaccia per la stessa esistenza della civiltà che aiutò a formare. Quando gli Stati sovrani dell’Europa moderna emersero dal feudalismo del Medio Evo, le loro funzioni liberatrici e creatrici eliminarono la massa delle restrizioni locali che soffocavano lo sviluppo economico. Pacificarono i bellicosi baroni e principi e stabilirono una legge uniforme su territori prima chiusi nei loro particolarismi. Ma oggi predominanti sono diventate non le loro tendenze unificatrici, ma quelle separatiste. Esse restringono le attività di una vita economica, la quale nel suo spontaneo sviluppo si estende molto al di là delle loro frontiere Sono unità antieconomiche che per l’amministrazione di quelle funzioni positive cui adempiono e il peso del mantenimento dell’apparato di difesa necessario ad assicurarne l’indipendenza, minacciano sempre più di assorbire tutte le energie dei loro abitanti. L’esistenza di restrizioni commerciali e migratorie fra i differenti Stati europei odierni è altrettanto assurda quanto l’esistenza delle analoghe restrizioni fra differenti province in periodi precedenti. Ad uno straniero di buon senso che non conosca i precedenti della nostra storia, il mantenimento d’imponenti armate da parte degli Stati europei per difendersi l’uno contro l’altro deve essere quasi altrettanto ridicolo quanto lo sarebbe il mantenimento di eserciti per la difesa separata delle città o delle province entro questi Stati. Il sistema ha raggiunto il suo punto di rottura; e con lo sviluppo delle tecniche militari moderne non vale più la pena che sopravviva. Come la polvere da sparo ha reso antiquato il sistema feudale, così l’aeroplano rende antiquato il sistema delle sovranità indipendenti europee. Un tipo più ampio di organizzazione è inevitabile. Si realizzerà per mutuo accordo o mediante la conquista cesarea? Questa è la questione non ancora risolta. O impero o federazione: guardando le cose dall’alto non ci sono altre alternative. Ma creare una tale federazione non sarà cosa facile. Noi abbiamo una comune civiltà ma non abbiamo un linguaggio comune. Abbiamo una storia comune, ma essa è solcata da lotte fratricide. Chiunque si sia reso conto della natura degli interessi coinvolti nella perpetuazione degli attuali poteri degli Stati sovrani indipendenti, non può essere cieco verso le forze che si oppongono a qualsiasi tentativo di eliminare la nostra disunione. La federazione dei tredici Stati secessionisti del nuovo mondo quasi naufragò contro il particolarismo locale, quantunque essi fossero uniti da una lingua comune, da abiti comuni e dalla memoria di una recente azione contro un comune nemico. Quanto più duro deve essere per i bellicosi Stati europei che non hanno nessuno di questi aiuti, stabilire una base di unità. Non è impresa facile fare la nuova Europa.
Ciò nonostante, di tutti i compiti che si presentano alla nuova generazione, questo è il compito per cui vale la pena di lottare.
Il tempo in cui viviamo è un tempo in cui gli uomini hanno adorato molti idoli e seguite molte false immagini. Esso ha visto il nazionalismo furoreggiare ed il collettivismo diventare oppressore. Gli ideali della ribellione romantica si sono dimostrati nelle nostre mani noci senza gheriglio. Ma non sono stati trovati vuoti i grandi ideali di libertà, giustizia, reciproca tolleranza e il retaggio dell’arte e della scienza che ne è il frutto spirituale. Quanto più sono stati minacciati, tanto più ne abbiamo scoperto l’importanza. Ma sono proprio queste le cose che sono in pericolo a causa della disunione europea. La struttura politica in seno alla quale si sono sviluppate ha generato tensioni e pressioni che minacciano di soffocarle; se debbono essere conservate è necessario uno sforzo costruttivo. Non solo perché la guerra è così terribile, non solo perché impoverisce, ma perché minaccia tutto quel che è più prezioso nel retaggio culturale dell’Europa, noi dobbiamo provvedere ad istituzioni le quali la bandiscano dal nostro seno. È proprio perché è in gioco la civiltà di Socrate e di Spinoza, di Shakespeare e di Beethoven, di Michelangelo e di Rembrandt, di Newton e di Pascal che noi dobbiamo costruire una nuova Europa.
Ed ora che la guerra è venuta e le nostre speranze di sviluppi pacifici sono sparse al suolo infrante, questa necessità è ancora più incombente se la fine non deve essere il caos. Noi stiamo combattendo contro i tedeschi. Se la civiltà europea non vuol perire, dobbiamo distruggere la tirannide che li governa. Chiunque abbia un senso per la storia e per l’arte non negherà l’esistenza di un reale problema tedesco in Europa, l’incapacità di autogovernarsi, la tendenza alla brutalità ed al sadismo, il fascino per il motivo della morte, la grossolanità morale, il profondo senso di insicurezza spirituale che ripetutamente, dacché è sorta la Prussia, sono stati una minaccia per la pace e le libertà d’Europa. Ma nonostante tutto, i tedeschi sono europei. Sono parte della nostra civiltà, e l’Europa non sarà mai completamente sana finché anche la Germania non sarà sana. In un modo o nell’altro dobbiamo creare una impalcatura in cui il Geist tedesco possa dare all’Europa quel che ha di meglio e non quel che ha di peggio. Una pace draconiana non concluderebbe nulla. I nazisti debbono essere estirpati; ma noi non abbiamo né la forza né la volontà di tenere i tedeschi assoggettati per sempre. Quale esito più corrispondente alle nostre attuali angosciose lotte, quale più conveniente consacrazione del sangue che si sta versando, di una pace in cui questo grande popolo liberato dai suoi demonii sia costretto ad entrare nel seno della libera ed uguale cittadinanza degli Stati Uniti d’Europa?
 
(a cura di Guido Montani)


[1] Su queste vicende si diffonde ampiamente Robbins nella sua Autobiography of an Economist, Macmillan, London, 1971. Richard F. Kahn (in The Making of Keynes’ General Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1984, p. 184) ricorda che in un discorso alla Camera dei Lords il 28 luglio 1966, Robbins dichiarò: « Nel periodo fra le due guerre mondiali, quando si impose il problema della disoccupazione di massa, mi schierai sul fronte sbagliato: mi opposi a misure di riflazione che oggi penso avrebbero potuto contribuire ad alleggerire la situazione ».
[2] J.M. Keynes, National Self-Sufficiency, in The New Statesman and Nation, 8/15 -7 -1933; trad. it. in Come uscire dalla crisi, Laterza, Bari, 1983, p. 96 e 97.
[3] L. Robbins, Autobiography of an Economist, op. cit., p. 160.
[4] L. Robbins, Economic Planning and International Order, Macmillan, London, 1937, pp. 6 e 7.
[5] M. Albertini, «Cultura della pace e cultura della guerra », in Il Federalista, Anno XXVI, n. 1, Luglio 1984, pp. 27-8.
[6] In una prefazione, scritta nel 1968, ad una ristampa di The Economie Causes of War (1939), è lo stesso Robbins a chiarire il suo atteggiamento nei confronti del problema dell’unificazione europea. « Il saggio qui riprodotto – afferma Robbins – termina con una sezione, scritta durante la prima settimana di guerra, in cui si auspica con fervore la creazione degli Stati Uniti d’Europa, entro i quali la creatività e l’energia della Germania avrebbero potuto servire il bene comune piuttosto che minacciarlo periodicamente. Esso include anche una nota riguardante il piano per una più ampia Unione Atlantica proposto da Clarence Streit e altri, verso il quale esprimo un cordiale apprezzamento dell’idea ma un considerevole scetticismo sulla sua praticabilità. A quel tempo, non concepivo la possibilità che gli Stati Uniti, ancora isolazionisti, si lasciassero coinvolgere di nuovo nelle micidiali dispute europee.
Molte cose sono accadute da allora. L’aggressione nazista e giapponese distrussero l’isolazionismo durante la guerra; e da allora, fortunatamente per tutti noi, l’ostilità dell’Unione Sovietica e più tardi della Cina – fossero basate sul timore o su ambizioni espansionistiche non è qui il caso di indagare – ha prevenuto ogni seria minaccia di ripiegamento. Con i loro massicci armamenti e con il loro incomparabile potere economico, gli Stati Uniti sono oggi l’attiva guida e difesa della civiltà occidentale.
Questi giganteschi mutamenti non possono non influenzare le prospettive di pensiero riguardanti il futuro e le sue possibilità. Negli anni immediatamente successivi la fine della guerra, non potendo più fare affidamento sulla stabilità e sulla lealtà politica di alcuni degli Stati dell’Europa occidentale e disgustato dall’anti-americanismo di moda fra alcuni influenti uomini politici ed intellettuali del Continente, la cui stessa esistenza era dovuta all’intervento americano, abbandonai le mie primitive posizioni e mi schierai contro l’ingresso della Gran Bretagna in una semplice Unione Europea, riponendo le mie speranze in una più ampia struttura da svilupparsi gradualmente all’interno dell’Alleanza Atlantica. Ora penso di essermi sbagliato, non nella mia convinzione della fondamentale necessità di mantenere un legame con gli Stati Uniti e il Canada, ma nella mia incapacità di comprendere le potenzialità sia della creazione, in queste circostanze, di un’Europa Occidentale Unita, sia del ruolo che avrebbe potuto giocare in essa la Gran Bretagna. Sottovalutai l’incapacità dei responsabili della politica inglese di scorgere dove stesse il loro reale interesse – in un vigoroso sviluppo di qualche cosa simile all’Unione Atlantica – e fui incapace di prevedere la grossolana follia di Suez, che pose fine alla nostra posizione fra le principali potenze, con la conseguente libertà di assumere iniziative influenti. Attualmente, perciò, sostengo di nuovo il progetto di una più limitata unione con l’Europa occidentale. Così mi trovo di nuovo in uno stato d’animo in cui non intendo affatto respingere le proposte contenute in questo saggio » (L. Robbins, The Economie Causes of War, New York, Fertig, 1968, pp. 6-8).
[7] Ricorda Spinelli nelle sue memorie (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 307-8): « Sollecitato da Rossi, che come professore di economia aveva da tempo l’autorizzazione a corrispondere con lui, Einaudi gli mandò due o tre libretti della letteratura federalista inglese fiorita sul finire degli anni ‘30 per impulso di Lord Lothian. Salvo il libretto di Lionel Robbins, The economie causes of war, che poi tradussi e fu pubblicato dalla casa editrice Einaudi, non ricordo né i titoli né gli autori degli altri. Ma la loro analisi del pervertimento politico ed economico cui porta il nazionalismo, e la loro presentazione ragionata dell’alternativa federale, mi sono rimaste fino ad oggi nella memoria come una rivelazione. Poiché andavo cercando chiarezza e precisione di pensiero, la mia attenzione non fu attratta dal fumoso e contorto federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano, ma dal pensiero pulito e preciso di questi federalisti inglesi, nei cui scritti trovai un metodo assai buono per analizzare la situazione nella quale l’Europa stava precipitando, e per elaborare prospettive alternative ».
*Passi tratti da Economic Planning and International Order, Macmillan, London, 1937, cap. IX; trad. it. in M. Albertini, Il Federalismo, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 193-200 e pp. 204-210.
[8] Il celebre pamphlet di Keynes, La fine del lasciar fare (in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di A. Campolongo, Torino, UTET, 1971) è stato considerato dal suo autore e dal gran pubblico come un notevole progresso rispetto agli economisti classici, come l’ultimo passo (o il penultimo? dovremmo dire noi) verso l’emancipazione definitiva dalla tirannide del loro pensiero. Sarà forse più facile stimare nel suo esatto valore il debito che abbiamo verso Keynes, confrontando, parola per parola, la sua descrizione dei compiti spettanti allo Stato con la descrizione di Adamo Smith, che costituisce la base della posizione classica. Cominciamo con qualche piccolo chiarimento: « L’azione più importante dello Stato non riguarda quelle attività alle quali gli individui provvedono già da sé stessi, ma quelle decisioni che nessuno prenderebbe se non ci pensasse lo Stato. La cosa importante, per il Governo, non è di fare ciò che gli individui fanno già, e di farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma di fare ciò che per il momento nessuno fa » (Keynes, op. cit., p. 99). E ora la parola ai classici: « In terzo luogo il sovrano deve creare e mantenere in vita certe imprese e certe istituzioni pubbliche che né l’interesse individuale né quello di piccoli gruppi di persone potrebbero giammai creare e conservare; il profitto infatti, non potrebbe mai ricompensare della spesa sostenuta né un individuo né un piccolo gruppo di persone, mentre può spesso offrire ben altro che una rifusione di spese a una grande società nel suo complesso » (Adamo Smith, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. Bagiotti, Torino, UTET, 1975, p. 187). Da quali pastoie siamo stati liberati!
[9] Anche l’uomo migliore non può vivere in pace se il cattivo vicino non glielo consente (N.d.T.).
[10] È questo un punto di vista che Cannan fece suo moltissimo tempo prima che diventasse un soggetto di discussione politica. Vedi, in particolare, il suo discorso d’addio alla London School of Economics: Adam Smith as an Economist: An Economist’s Protest, in E. Cannan, op. cit., pp. 417 e ss. Vedi, inoltre, la conferenza « International Anarchy from the Economic Point of View », ripubblicata nello stesso volume, pp. 65 e ss.
[11] Hamilton, The Federalist (Everiman Edition), p. 20.
[12] Ibidem, pp. 71-72.
** Da Economic Planning and International Order, op. cit., cap. III; trad. it. in M. Albertini, Il Federalismo, op. cit., pp. 222-225.
[13] Ne fa fede la celebre arguzia dei fabiani: « The sewers for the sewage men? » (Le fogne ai fognaioli?).
*** Da The Economic Causes of War, Jonathan Cape, London, 1939; trad. it. Le cause economiche della guerra, Einaudi, Torino, 1944, pp. 101-105.
[14] Per una più ampia elaborazione di questi argomenti vedi il mio Economic Planning and International Order, capp. IX, X e XI. L’argomento generale del libro Union now di Clarence Streit dovrebbe essere altresì consultato.
[15] Forse è necessaria qualche parola circa il rapporto fra il suggerimento qui fatto e quello presentato da C.K. Streit. Il progetto di Streit, si ricorderà, è quello di una unione delle democrazie atlantiche includente gli Stati Uniti e l’Impero britannico. Io non ho nulla da obiettare a ciò. Se Streit potesse indurre i suoi concittadini a far loro la proposta, sarei felice di vedere il nostro governo accettarla; quanto più grande è la federazione, tanto più piccola è l’area di future guerre. Ma penso che sia molto improbabile che ciò accada. Non sembra probabile che, almeno nella nostra generazione, i cittadini degli Stati Uniti sentano quell’urgente bisogno di unione con altri popoli, necessario a realizzarla. D’altra parte, la disunione europea è così grande ed i mali originati dal suo perdurare sono così spaventosi da far sembrar possibile che dalla stessa gravità del nostro pericolo possa sorgere un movimento per l’unità. Malgrado tutto c’è una comune coscienza europea; e fa sicuramente parte della logica della storia che prima o poi essa venga incastonata in comuni istituzioni politiche. Non vedo alcuna insormontabile difficoltà nelle relazioni dei Dominions inglesi con un’Europa federale. Essi potrebbero entrare nella federazione come membri a pieni diritti; o potrebbero mantenere, attraverso la corona britannica, le stesse libere relazioni che esistono attualmente. Molto maggiore difficoltà vedo nella inclusione della Russia, poiché essa non è europea di spirito e la dittatura totalitaria è incompatibile colla federazione di popoli liberi.

 

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