IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno 1990, XXXII - Numero 2 - Pagina 180

 

 

IL PROCESSO DI DECENTRAMENTO NELLO STATO FEDERALE INDUSTRIALE

 

EDMOND ORBAN

 

 

Quale decentramento?

 

Il termine decentramento, come quello di federalismo stesso, possono assumere significati profondamente diversi a seconda degli autori che li usano, o dei contesti nei quali essi sono studiati o applicati.

Ad esempio, Karl Deutsch, nel suo articolo «Toward a Rational Theory of Decentralization: Some Implications of a Mathematical Approach»,[1] mostra in che misura la logistica delle organizzazioni su vasta scala soffra della mancanza di adeguati sistemi di comunicazione. Tuttavia, nei paesi industrializzati, le nuove tecnologie nel campo dei trasporti e delle comunicazioni in genere dovrebbero consentire di raggiungere un livello ottimale di decentramento, sia per organismi pubblici che per grandi industrie private. Deutsch sottolinea la necessità di assicurare iniziative più indipendenti e una più attiva partecipazione di base, intensificando i rapporti tra amministratori e cittadini. Pure, il processo di adeguamento ai nuovi problemi creati dalla modernizzazione dei mezzi di comunicazione per i quali egli ritiene vi siano ovviamente soluzioni basate sul miglioramento delle comunicazioni stesse, richiede un decentramento ancora maggiore.

Michel Crozier, con molti altri, perveniva alle medesime conclusioni in The Bureaucratic Phenomenon, quando scriveva che «il decentramento appare ora agli osservatori più illuminati del mondo degli affari americano come la condizione necessaria per qualsiasi crescita oltre una certa soglia».[2] Allo stesso tempo, benché molti autori sembrino favorevoli ad ampliare il decentramento per motivi di efficienza e democratizzazione (più stretti contatti con la gente) vi sono in proposito delle riserve, in particolare per quanto riguarda i diritti e le libertà individuali (un altro aspetto della democrazia). Alcuni autori, come Duguit in Francia, benché in teoria favorevoli al decentramento, osservano tuttavia che la protezione degli interessi e delle libertà individuali consiste più nel controllo giudiziario degli atti amministrativi che nell’autogoverno a livello locale.[3] Questo atteggiamento rivela una certa sfiducia nei confronti dell’ingerenza della politica nell’amministrazione locale.[4]

Ma in concreto, di che tipo di decentramento stiamo parlando? Procediamo per eliminazione. In questo articolo non ci occuperemo di «decentramento amministrativo», nel quale per definizione i compiti vengono assegnati a unità amministrative sotto lo stretto controllo delle autorità centrali (o statali). In questo caso, un certo numero di scelte, di adattamenti, e perciò di decisioni, viene effettuato da funzionari del governo centrale dislocati nelle regioni. Tale sistema presenta non pochi vantaggi per quanto riguarda il decentramento, in particolare se questi funzionari sono «indigeni» di quella determinata regione. Tuttavia, sono pur sempre ancora rappresentanti del governo centrale dal quale essi derivano la loro legittimazione. Questo modello si ritrova negli Stati federali, ma in particolar modo nei sistemi unitari.

Noi siamo in parte interessati al decentramento amministrativo, inteso come situazione nella quale i compiti amministrativi di cui sopra vengono affidati a funzionari e a servizi governativi non legati al governo centrale, ma piuttosto a governi che rappresentano i cittadini di una determinata regione (provincia, cantone, Land, Stato, ecc.). In questo caso, si tratta al tempo stesso di una questione di decentramento territoriale, il che implica l’esistenza di un governo nel senso più ampio del termine, vale a dire, con una o più assemblee legislative elette (bicamerali in tutti gli Stati americani tranne il Nebraska), un esecutivo, una amministrazione, Corti di giustizia ed eventualmente una costituzione (in tutti gli Stati americani, ma non nelle province canadesi).

Ciò che viene indicato come decentramento nella Repubblica Federale di Germania, e in misura minore negli Stati Uniti e in Canada, assume spesso questa forma. Così, ad esempio, i Länder tedeschi hanno più personale e spendono più denaro (nel complesso) che non il governo centrale, ma tali risorse vengono impiegate innanzitutto nel quadro di decisioni assunte dalle istituzioni federali centrali. Queste iniziative al più alto livello sono prese, almeno in una certa misura, in collaborazione con i rappresentanti dei Länder nell’esecutivo. In questo caso si parla di federalismo cooperativo. Questo tipo di federalismo presenta molti vantaggi, in particolare per le società caratterizzate da un alto livello di consenso politico, nelle quali le differenze economiche, culturali e sociali sono di conseguenza ridotte o non producono effetti cumulativi disgreganti per il sistema nel suo complesso.

Per molti teorici del federalismo, quali ad esempio Carl Friedrich o Ivo Duchaceck, il vero federalismo richiede, tuttavia, ben più del decentramento amministrativo appena descritto. Secondo tali autori, se ci limitiamo a questo tipo di federalismo, potremo scivolare irreversibilmente dalla condizione di Stato federale a quella di Stato unitario. Il governo centrale tenderebbe ad assumere un numero sempre crescente di decisioni importanti (soprattutto in campo economico e in politica estera) e le entità federate dovrebbero contentarsi di adattare e mettere in esecuzione la «legislazione quadro» – e ciò tanto più in quanto i tecnocrati dell’amministrazione centrale svolgono un ruolo preponderante nella sua elaborazione.

 

Un obiettivo fondamentale per il federalismo: il decentramento politico.

 

Nella prospettiva federale di autori quali Friedrich o Duchacek, e in particolare della maggior parte dei federalisti canadesi francofoni, non è possibile evitare il problema della divisione dei poteri tra i due livelli di governo.

In questo senso, possiamo parlare di dinamica, di interazione, e il federalismo viene in tal modo visto come un processo, un movimento continuo oscillante tra diversità e unità, tra centralizzazione e decentramento. In un sistema di questo tipo, è essenziale che il decentramento (quello dove la distribuzione dei poteri viene modificata, o decentramento politico) non sia statico. Vi è una oscillazione tra i due poli costituiti dai due livelli di governo di cui abbiamo detto. Va notato che ogni decentramento di poteri è tale da generare, accanto alla cooperazione, anche contrasti e tensioni: ma questo sembra essere il prezzo da pagare per evitare conflitti più profondi e destabilizzanti (conflitti del sistema).

Il federalismo nel senso di decentramento (dei poteri) diviene così un processo nel quale le comunità (regioni, province) interagiscono come unità autonome. Quanto a Carl Friedrich, egli si spinge ancora oltre quando afferma che in un vero sistema federale non può esservi sovrano. In tale ordine, autonomia e sovranità si escludono a vicenda. Così, andrà respinto il concetto di una sovranità unificata e indivisibile che è stato alla base del diritto pubblico in uno stato unitario come la Francia, da Bodin e Rousseau ai giorni nostri. Trattando del decentramento nel nostro paese, e per coloro che si ispirano al nostro modello, le premesse sono perciò molto diverse.

Tuttavia, mentre numerosi federalisti contemporanei parlano ancora di autonomia e di divisione dei poteri, va sottolineato che in molti Stati federali il decentramento è visto innanzitutto dal lato amministrativo o funzionale. In realtà, nella maggior parte degli attuali Stati federali, è divenuto quasi impossibile ammettere che il concetto di patto o contratto (tra i due livelli di governo o tra gli Stati membri) sia insito nel federalismo. Se vi era stato un contratto in passato, non si trattava certo di un contratto bilaterale (perché esso avrebbe dato luogo a una confederazione e non a una federazione). Il problema, nel caso del federalismo canadese, è che vi è ancora una certa ambiguità sull’argomento. Per alcuni, esso implica autonomia e poteri esclusivi per le province. Per altri, favorevoli ad una maggiore unità nazionale, il governo centrale è il solo depositario della volontà della nazione e il solo sovrano legittimo, indipendentemente dall’importanza delle regioni e delle sub-nazioni che lo costituiscono. In tale quadro, il decentramento ha naturalmente un ambito assai più limitato ed esclude i poteri essenziali poiché questi riguardano il paese nel suo complesso. Al tempo stesso l’accento è posto sulla cooperazione e sulla coordinazione che derivano dall’interdipendenza dei due diversi livelli di governo. Tuttavia, è ancora possibile in uno Stato federale che una regione, una provincia o un’altra entità politica organizzata a livello locale si proponga una maggiore protezione dei propri interessi specifici. E’ allora inevitabile che tenda ad ampliare al massimo il suo spazio di manovra e che, prima o poi, sollevi il problema della sua partecipazione alla gestione del potere; e lungi dall’essere una questione puramente accademica, come molti vorrebbero spesso indurci a credere, in alcuni casi questo si rivela l’unico strumento disponibile per una regione la cui sopravvivenza sia più o meno gravemente minacciata. Ecco che sorge allora la tendenza a rafforzare lo «Stato provinciale». E’ da questa prospettiva che alcune regioni del Canada (in particolare, Québec e Alberta) vedono il problema del federalismo.

Alcuni affermano tuttavia che a livello centrale le decisioni riguardanti l’indirizzo generale e la distribuzione delle risorse possono essere prese con un processo di tipo confederale, in quanto a tale livello sarebbero predominanti le istanze, i soggetti e le risorse regionali. Il decentramento verrebbe perciò valutato meno in termini di interpretazione di norme, di disposizioni amministrative e di distribuzione delle risorse, che in riferimento alla interazione dei vari soggetti. Tale approccio fa ovviamente da contrappeso all’ossessione liberale e marxista circa la proprietà, ma rischia di cadere in un’altra trappola sottovalutando le fonti di contrasti e le ineguaglianze che concetti quali interdipendenza, interazione e cooperazione non riescono a nascondere. Si tratta in parte del classico mito liberale secondo il quale gli interessi federali sarebbero la somma degli interessi regionali, ma nella formulazione data loro dalle istituzioni centrali.

 

Quattro prerequisiti del federalismo, o decentramento e problemi connessi.

 

A) Affari locali e governi intermedi. Negli Stati federali dei paesi industrializzati come Stati Uniti, Canada, Svizzera, Repubblica Federale Tedesca, ecc., le costituzioni distinguono chiaramente i governi centrali (in senso ampio) da quelli intermedi (province, Stati, cantoni, Länder, ecc.). Al livello più basso vi sono i governi locali che normalmente agiscono sotto la responsabilità di quelli intermedi. Ciò avviene in Canada, dove le province hanno il potere esclusivo di legiferare in materia di istituzioni municipali e affari prettamente locali. Negli Stati Uniti questa funzione è indirettamente conferita agli Stati attraverso i loro poteri residuali (quelli che la costituzione non attribuisce al governo centrale).

Il problema principale che qui si pone nasce dalla difficoltà di specificare che cosa rientri tra gli affari locali in materie che spesso coinvolgono i tre livelli di governo, ciascuno per la propria sfera di competenza (il caso classico è quello dei diritti di atterraggio del Concorde a New York, nel 1976). Inoltre, le grandi aree metropolitane spesso si estendono oltre i confini di Stati diversi e richiedono l’istituzione di un quarto livello di governo, capace di offrire servizi che non possono essere forniti né dai governi locali né dagli Stati (o dalle province). Ma sotto quale giurisdizione cadrà un governo di questo tipo?

Nella Repubblica Federale Tedesca il problema sembra essere risolto nel senso che, grazie ai poteri concorrenti, il governo centrale dispone dei mezzi per legiferare negli affari locali assieme ai Länder, e in caso di conflitto prevale la norma posta dal governo centrale.

 

B) Governi eletti e legittimazione finale. Perché possa esistere un decentramento politico, devono esservi assemblee legislative del governo intermedio elette democraticamente allo stesso modo del parlamento nazionale. Questo elemento democratico è indispensabile per una società federale del tipo appena menzionato, ma rappresenta un’arma a doppio taglio in quanto i rappresentanti eletti di una provincia che siedano in istituzioni nazionali sostengono di rappresentare sia tutto il paese che la loro provincia di origine. In caso di conflitto, potrebbe sorgere il problema della loro lealtà, come avvenne in Canada al tempo della modifica della costituzione, nel 1980-1981: i membri del Parlamento canadese originari del Québec votarono quasi all’unanimità a favore di una nuova suddivisione dei poteri, mentre la maggioranza eletta dell’assemblea del Québec vi si oppose risolutamente. Questo è un esempio classico dei profondi dissensi che possono nascere tra assemblee di diverso livello, su questioni di importanza fondamentale.

 

C) Zone grigie, poteri concorrenti o residuali. Logicamente, non possiamo parlare di decentramento politico senza accennare alle zone grigie e ai poteri concorrenti. Spesso, quando vi è conflitto tra i due livelli del governo eletto dei quali ci stiamo ora occupando, la lotta ha luogo nell’ambito dei poteri concorrenti e nelle zone grigie che ciascuno dei due livelli di governo vorrebbe veder volgere a proprio vantaggio. Il fatto che certe costituzioni (Stati Uniti, ma non Canada) accordino poteri residuali alle istituzioni del governo intermedio rappresenta, a prima vista, un fattore positivo per il decentramento, anche se andrà chiarito che cosa in realtà rimanga agli Stati, alle province, ecc. in termini di poteri reali.

Osserviamo inoltre che i governi centrali, nel nome del bene della nazione, invadono silenziosamente questa terra di nessuno grazie ai loro poteri finanziari, e attraverso programmi comuni che coprono un numero sempre più vasto di campi.

Per un autore come Wildavsky, tale sistema comporta tensioni e contrasti, ma probabilmente esso consente una reale cooperazione, mentre la cooperazione forzata (sistema cooperativo-coercitivo) rischierebbe di accelerare la polarizzazione tra i due livelli di governo, radicalizzando i conflitti.

In questo caso, il federalismo implica poteri concorrenti e perciò cooperazione, ma in contesti diversi e con significati diversi.

 

D) Autonomia finanziaria. Ogni decentramento degno di questo nome comporta una certa autonomia finanziaria, benché in misura diversa e per scopi diversi. Ad esempio, le province o gli Stati possono spendere molto denaro ma nel quadro previsto, e alle condizioni imposte, dal governo centrale. Inoltre, tale denaro viene speso in settori relativamente poco importanti (sanità, assistenza pubblica, educazione primaria) mentre il governo centrale conserva per sé le funzioni di maggiore rilievo (in particolare, quelle di natura economica).

L’autonomia finanziaria è al tempo stesso una condizione e un indice di decentramento, ma per valutarne il significato è necessario studiare le varie fonti ed i sistemi di finanziamento oltre, naturalmente, ad esaminare i campi nei quali i fondi vengono impiegati.

Infine, rimane la questione di determinare come, e a quali condizioni (più o meno vincolanti) sono state definite le norme e sono state prese le decisioni riguardo ai sussidi e ai trasferimenti perequativi attribuiti alle province o ad altri enti similari.

 

Può essere valutato il grado di decentramento?

 

A) Limiti dell’approccio quantitativo. Nel caso di microanalisi, appare possibile costruire indici di decentramento quando il numero di variabili chiave è limitato e quantificabile. Karl Deutsch (citato sopra) e molti teorici delle organizzazioni hanno effettuato tentativi interessanti ma, da questo punto di vista, limitati.[5]

Stephen Ross[6] ha determinato un continuum di centralizzazione (è possibile anche il contrario) da una serie di dati fattuali: in primo luogo, la distribuzione delle responsabilità finanziarie per livello di governo e per suddivisione di poteri. Questo autore ha preso in considerazione quindici fattori, ha stabilito un indice di servizi, ha calcolato la percentuale di fondi spesi dai governi interessati, e ha studiato le variazioni nel numero di dipendenti pubblici impiegati ai diversi livelli di governo e nei diversi settori di attività, ottenendo l’indice composito di centralizzazione.

Questo interessante tentativo ha molti limiti, compresi quelli già menzionati circa l’autonomia finanziaria, e in particolare i limiti imposti dai trasferimenti finanziari condizionati, dai programmi con ripartizione dei costi e anche dai trasferimenti perequativi (a prima vista, un trasferimento incondizionato).

Anche Richard Bird, in uno studio quantitativo intitolato The Growth of Government Spending in Canada[7] mette in guardia contro tale approccio.[8] Egli afferma che il concetto di decentramento finanziario non è chiaro e che ad esempio lo studio dei trasferimenti, indipendentemente dal metodo impiegato, non si fonda su solide basi concettuali o empiriche. Dal canto suo, tuttavia, egli trae conclusioni abbastanza definite sull’evoluzione del centralismo finanziario.

 

B) Criteri costituzionali. Nelle costituzioni degli Stati federali vi sono disposizioni particolarmente illuminanti dal punto di vista della centralizzazione di alcuni dei poteri fondamentali. La lettura dell’articolo 1, sezione 8, della Costituzione americana, dell’art. 91 della Costituzione canadese o degli articoli economici della Costituzione svizzera (del 1947) ci forniscono significative indicazioni al riguardo.

Allo stesso modo, l’analisi delle decisioni delle Corti Supreme e delle Corti Costituzionali nel lungo periodo ci consentono di formulare un certo numero di «previsioni» concernenti l’evoluzione del processo di centralizzazione/decentramento, nella misura in cui usiamo prudentemente tali indicatori assieme ad altri, per quanto essi possano essere incompleti o criticabili.

 

C) Distribuzione delle funzioni. Nel suo volume Federalism,[9] William Riker ha studiato «il grado di centralizzazione» del federalismo americano in diciannove categorie di attività (o funzioni), distinguendo cinque livelli: massimo decentramento, decentramento predominante, uguaglianza, centralizzazione predominante, massima centralizzazione. Il quadro veniva proposto nella prospettiva di una «partita a somma zero» dove ciò che è perso da uno viene automaticamente guadagnato da un altro, per giungere alla conclusione che negli Stati Uniti non vi sono quasi più funzioni demandate esclusivamente ai governi degli Stati, mentre nel 1790 questa appariva essere la regola generale, tranne che per la politica estera e la difesa.

Tale metodo, affiancato allo studio dell’evoluzione delle istituzioni politiche centrali, consente, secondo l’autore, di porre in evidenza le tendenze generali, ma esso soffre anche di notevoli difetti. Il primo deriva dal fatto che esso si basa su un assunto aprioristico non condivisibile, secondo il quale il concetto di conflitto o competizione prevale su quello di cooperazione o interdipendenza. Ciò porta a risultati quantitativamente precisi, mentre le valutazioni sono più impressionistiche che matematiche, in un campo nel quale la statistica non può essere impiegata in modo sistematico e completo. Inoltre, è difficile pesare l’importanza relativa di ogni funzione. Ad esempio, come dobbiamo valutare il ruolo politico di un settore come quello degli affari esteri rispetto a quello dello sviluppo economico? E ciò è ancora più vero in quanto oggi essi sono strettamente connessi, soprattutto negli Stati Uniti.

Anche in Canada molti autori hanno tentato di studiare questi problemi, in particolare Claude Morin,[10] quando scrive del pendolo magnetico, o della potenza delle forze centripete.

 

D) L’evoluzione delle istituzioni. Lo studio dell’evoluzione e della creazione di nuove istituzioni politiche e amministrative, ai diversi livelli di governo, può fornire indicazioni quantomeno parziali. Così, ad esempio, negli Stati Uniti e in Canada nel corso degli ultimi decenni molti Stati e molte province si sono dotati di un apparato burocratico ancora più sofisticato e moderno, soprattutto nelle regioni industrializzate.[11] Nel caso del Canada, abbiamo in alcuni casi persino assistito ad un confronto diretto tra i governi federale e provinciali. In altri momenti prevale la cooperazione, ma sempre più spesso ciò avviene solo tra i vari dipartimenti di ciascun governo. D’altro canto, anche in Canada, la creazione e il sempre più frequente ricorso alle conferenze federali-provinciali costituisce un altro indicatore utile. In questo caso si tratta di una nuova forma di cooperazione tra i diversi esecutivi (primi ministri) delle province e del governo federale. In pratica, tuttavia, sembra assai difficile valutarla in un continuum di centralizzazione/decentramento.

Dobbiamo anche sottolineare l’importanza dei partiti provinciali che sono indipendenti (e valutare in quale misura sono indipendenti) dai partiti nazionali, poiché questo dato potrebbe costituire un indicatore interessante del quale pure tenere conto in un esame più generale dell’argomento. Allo stesso modo, si potrebbe includere lo studio dei partiti nazionali come vie di trasmissione efficiente (o inefficiente) delle richieste formulate a livello regionale. Quando la via di trasmissione è efficiente, essi possono contribuire all’integrazione nazionale se rafforzano i meccanismi dei partiti politici a livello nazionale.

 

E) Lo spirito delle istituzioni e osservazioni conclusive. In conclusione, osserviamo che molti costituzionalisti pongono l’accento sullo «spirito» delle istituzioni, come parte di una visione globale. A prima vista, anche ciò potrebbe gettare luce sui nostri problemi. Ma ci addentreremmo in un campo ancora più difficile dal punto di vista dei metodi di osservazione. Così, ad esempio, per Aaron Wildavsky, il vero federalismo implica ad un tempo conflitti e cooperazione, o centralizzazione e decentramento, ma come elementi di un accordo equilibrato. Quanto a Vile, egli ritiene che le tecniche costituzionali, legali, politiche, amministrative e finanziarie contribuiscano, quantomeno negli Stati Uniti, a preservare o ad erodere quello che egli chiama «l’equilibrio tra l’indipendenza e la reciproca interdipendenza dei vari livelli di governo».[12]

Questi autori, come Carl Friedrich,[13] sono perciò a favore del concetto di equilibrio o spirito federalista. Nella pratica costituzionale della Repubblica Federale di Germania (si vedano le decisioni della Corte Costituzionale di Karlsruhe), si invoca il concetto di Bundestreue (lealtà federale o equilibrio).[14] E’ un concetto di importanza pratica maggiore di quanto non saremmo portati ad immaginare, e merita perciò particolare attenzione.

Rimane il problema di come tale concetto possa essere espresso nella realtà concreta.[15] L’idea di equilibrio federale può essere interpretata nei differenti paesi, nei diversi momenti, soprattutto secondo che si sia a favore di un modello di decentramento politico o di un modello di decentramento amministrativo, per prendere questi due punti di riferimento.

Equilibrio – sì! – ma in genere con una attenzione particolare alle istituzioni centrali (in special modo le Corti Supreme) dell’integrazione nazionale, e addirittura all’unità: perciò rifiuto di qualsiasi forma di decentramento quando coloro che sono investiti del potere decisionale giudichino che ciò rappresenti una forza centrifuga capace di destabilizzare in qualche modo l’intero sistema politico federale. Nel nome dell’equilibrio e dell’integrazione, il governo nazionale avrebbe così sempre l’ultima parola nel confronto con i governi a livello intermedio, contrariamente a quanto scrive Carl Friedrich: «In un sistema federale non vi può essere alcun sovrano e nessuno ha l’ultima parola».[16] li fatto che lo Stato federale sia uno Stato, con tutti i relativi

 

attributi, rispetto agli Stati embrionali che costituiscono entità politiche quali le province, pone limiti invalicabili al processo e alle politiche di «decentramento», anche in società ove tali entità politiche godano di un grado abbastanza elevato di autonomia. Fino a che punto possono spingersi questo processo o queste politiche senza destabilizzare l’equilibrio, e perciò senza provocare disgregazione? Anche qui, la risposta dipende dalle specifiche esigenze delle società nelle quali il quadro politico assume un carattere federalista. E prima di tentare una valutazione del grado di decentramento, è necessario capire il contesto specifico di quella determinata società, per non distorcerne l’interpretazione, soprattutto quando si tratti di dati quantificabili, che a prima vista sembrerebbero più precisi di tutti gli altri tipi di dati. Nonostante tutti i loro limiti (se presi singolarmente) i criteri ai quali abbiamo accennato, e nella misura in cui essi vengono combinati gli uni con gli altri, sono tali da consentirci di elaborare finalmente una serie di ipotesi (in mancanza di meglio) sull’evoluzione del centralismo, sia come processo che come politica, deliberata o casuale.

 


[1] American Political Science Review, 63 (1969), pp. 734-749.

[2] Michel Crozier, Le phénomène bureaucratique, Parigi, Editions du Seuil, 1963.

[3] Léon Duguit, L’Etat, Tomo I e Traité de droit constitutionnel, Tomo III, Parigi, 1923.

[4] Troviamo simili esitazioni (sebbene in un contesto politico-amministrativo del tutto diverso) per quanto riguarda l’amministrazione di certi Stati americani, soprattutto del Sud. A questo riguardo cfr. il mio articolo «Droits de la personne et processus de centralisation: rôle de la Cour suprême des Etats-Unis», in Canadian Journal of Political Science / Revue canadienne de science politique, 20:4 (1987), pp. 711-729.

[5] Karl Deutsch, op.cit. (alla nota 1), p. 743.

[6] Stephen Ross, «State Centralization and the Erosion of Local Autonomy», in Journal of Politics, 36 (1974).

[7] Richard Bird, The Growth of Government Spending in Canada, Toronto, Canadian Tax Foundation, 1970, p. 37.

[8] Per l’approccio quantitativo allo studio di introiti e spese dei diversi livelli di governo negli Stati federali, vedi anche Krane Dale «The Evolutionary Patterns of Federal States», in C. Lloyd Brown-John, Centralizing and Decentralizing Trends in Federal States, New York, University Press of America, 1988, pp. 39-62.

[9] William Riker, Federalism: Origin, Operation, Significance, Boston, Little Brown, 1964. Vedi in particolare la tipologia delle funzioni e la tabella «The Degree of Centralization by Substantive Functions», pp. 82-83, nel capitolo 3, «The Maintenance of Federalism: The Administrative Theory».

[10] Claude Morin, Le combat québécois, Montréal, Boreal Express, 1973, pp. 57-75.

[11] Vedi il concetto di «regionalismo imprenditoriale» in Raymond Breton, Regionalism and Supranationalism, Montréal, Ed. Cameron, Institute for Public Policy Research, 1978.

[12] M.J.C. Vile, Politics in the USA, Londra, Hutchinson, 1987, p. 15.

[13] Vedi il capitolo l di Carl Friedrich «Théorie du fédéralisme en tant que processus», in Tendances du fédéralisme en théorie et en pratique, New York, Praiger, 1968, p. 19.

[14] H.A. Schwartz-Liebennann von Wahlendorf, «Une notion capitale du droit constitutionnel allemand: la Bundestreue», in Revue du droit public et de la science politique, 1973, pp. 769-792.

[15] Per gli antefatti, si veda il nostro articolo «La Cour constitutionnelle fédérale et l’autonomie des Länder en R.F.A.», in La revue juridique Thémis, 22:1 (1988), pp. 42,58.

[16] C. Friedrich, op. cit., p. 19.

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