IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVI, 1984, Numero 3, Pagina 239

 

 

LA LOTTA FEDERALISTA IN GRAN BRETAGNA
 
 
La nascita di Federal Union a Londra nel 1938 e la straordinaria storia del suo vastissimo successo pubblico nei mesi che hanno preceduto la seconda guerra mondiale è già stata raccontata altrove. E sarà oggetto di un libro che verrà pubblicato quest’anno. Esso mostrerà come alcune fra le migliori intelligenze, attive nella vita pubblica inglese, si piegarono all’idea di subordinare una sovranità nazionale illimitata ad un controllo sovrannazionale. L’idea federale accese l’immaginazione di coloro che « fanno opinione » e diede origine ad un corpo considerevole di letteratura, che circolò clandestinamente tra i movimenti della Resistenza nell’Europa occupata. Non vi è dubbio che le idee pubblicate nei libri di Lord Lothian, Lionel Robbins, Ivor Jennings, James Meade, William Beveridge, Ronald Mackay, William Curry, Kenneth Wheare, Friedrich von Hayek, Barbara Wootton, Harold Wilson e altri ancora in Gran Bretagna favorirono lo sviluppo del federalismo nel continente durante e dopo la guerra.
Il federalismo ha avuto senza dubbio qualche influenza sul pensiero di Winston Churchill. Esso era alla base dell’iniziativa elaborata da Arnold Toynbee, Jean Monnet, Arthur Salter e Robert Vansittart per l’Unione franco-inglese, che il gabinetto inglese propose al governo francese di Paul Reynaud nel giugno 1940. Queste idee federaliste costituivano il tema di discussioni, svoltesi a Londra durante la guerra, fra governi in esilio, in cui Spaak e Van Zeeland hanno giocato un ruolo molto importante. Nel 1942, nel mezzo della guerra, Churchill scrisse una nota ai suoi colleghi di governo, sostenendo che si doveva pensare alla creazione, dopo la guerra, di qualcosa sul tipo di un Consiglio d’Europa, in cui godessero di eguali diritti sia i paesi vittoriosi che quelli sconfitti.
Non vi è dubbio che il discorso di Churchill a Zurigo del 1946, che proponeva la creazione di una sorta di Stati Uniti d’Europa, ha portato decisamente l’unità europea sul terreno politico. In un breve spazio di tempo videro la luce numerose organizzazioni a sostegno di questo obiettivo, ivi inclusa l’Unione dei federalisti europei, il cui Congresso a Montreux del 1947 vide la partecipazione di numerosi federalisti inglesi, fra cui Duncan Sandys, genero di Churchill. Sandys divenne il promotore del tentativo di riunire i vari movimenti per l’unità europea al primo Congresso d’Europa all’Aja nel 1948. Ottocento delegati vennero da ogni parte del continente e decisero di lavorare per la creazione di un’unione politica, economica e culturale in Europa. Essi fondarono il Movimento europeo, che elesse Duncan Sandys come suo primo presidente internazionale.
 
 
L’ambiguità inglese.
 
Uscita dalla seconda guerra mondiale come una delle tre grandi potenze mondiali e ancora a capo di un impero, la Gran Bretagna rimase incerta circa il suo ruolo futuro. I politici non si resero conto che il potenziale economico del paese non era più adeguato per la loro ambizione politica di tenere il passo con le due superpotenze. La fede nel suo ruolo mondiale non consentì alla Gran Bretagna di assumere la leadership in Europa, che era disponibile per chi la pretendesse. L’ampiezza dell’automistificazione fu ben dimostrata dalle diffuse proteste che si levarono contro un discorso del Segretario di Stato americano Dean Acheson nel 1952. Critico del rifiuto inglese di aderire alla Comunità europea per il carbone e l’acciaio, egli rimproverò agli Inglesi di aver perso un impero, ma di non aver ancora trovato un proprio ruolo. In realtà, dovettero trascorrere circa quindici anni dopo la fine della guerra prima che la Gran Bretagna iniziasse a riconoscere che il suo posto era in un’Europa in via di unificazione.
Se si vogliono esaminare le cause dell’ambiguità inglese verso l’Europa si deve risalire alla situazione dell’immediato dopoguerra. Churchill fu sconfitto e un governo laburista assunse il potere, impegnato all’interno a realizzare un programma di ampie nazionalizzazioni e all’esterno, sotto la guida di Ernest Bevin come Segretario agli esteri, alla difesa, con assoluta priorità, delle relazioni speciali anglo-americane. Alcuni esponenti della sinistra laburista come Michael Foot, Barbara Castle e Richard Crossman si pronunziarono nel 1947 a favore di un’unione europea, soprattutto al fine di creare una terza forza neutrale fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ma essi costituivano allora una minoranza. Paradossalmente, essi divennero in seguito i leaders dell’opposizione laburista all’adesione della Gran Bretagna alla Comunità.
La proposta di Schuman di sottoporre il carbone e l’acciaio ad un controllo sovrannazionale era del tutto antitetica rispetto alle scelte laburiste di prelevare queste industrie dalle mani private e di nazionalizzarle. Nessun governo laburista avrebbe voluto cederne il controllo, dopo averlo appena conquistato. Alcuni membri influenti dell’opposizione conservatrice criticarono il rifiuto laburista di rispondere favorevolmente alla dichiarazione di Schuman. Tuttavia la politica del governo non si modificò dopo che i Conservatori tornarono al potere alla fine del 1951.
Churchill stava invecchiando. Duncan Sandys e Harold Macmillan, i più strenui sostenitori dell’Europa all’interno del gabinetto, assunsero responsabilità di governo assai importanti, che li tennero lontani dagli affari esteri. Anthony Eden, il Segretario agli esteri, ebbe le mani libere e si vide collocato sulla scena mondiale, con poche simpatie per coloro che cercavano di condurre la Gran Bretagna più vicina all’Europa. L’incapacità di rispondere all’invito di unirsi alla Comunità europea di difesa e il rifiuto dei tentativi di creare una Comunità politica segnarono la fine definitiva di questi progetti sul continente. Il loro fallimento persuase i leaders inglesi che anche Messina e le proposte di creare una Comunità economica sarebbero probabilmente fallite.
 
 
L’avvicinamento.
 
È stato il disastro di Suez nel 1956, e la presa di coscienza del fatto che ormai la Gran Bretagna non poteva più considerarsi una potenza mondiale, che segnò un mutamento graduale nel suo atteggiamento verso l’Europa. Harold Macmillan, un europeo impegnato, divenne primo ministro nel 1957. Sotto la sua guida la Gran Bretagna prese consapevolezza della sua forza effettiva e della sua posizione nel mondo. Egli capì che il futuro della Gran Bretagna stava nell’Europa e la politica inglese iniziò a modificarsi per tener conto di questo fatto.
I federalisti europei in Gran Bretagna si resero conto di questa occasione e decisero di influenzare coloro che « fanno opinione » a favore della partecipazione inglese alla Comunità economica europea. Essi diedero incarico all’Economist Intelligence Unit, allora diretta da John Pinder, di sviluppare un progetto di ricerca sugli effetti di un’area di libero scambio e del mercato comune per l’industria manufatturiera inglese. Pubblicato nel 1957 con il titolo Britain and Europe, esso stimolò un notevole interesse nel pubblico e convinse larghi strati dell’industria e del commercio in Gran Bretagna dei vantaggi economici di un avvicinamento all’Europa. Tuttavia vi erano ancora forti dubbi sugli effetti di un tale legame nei confronti delle relazioni economiche della Gran Bretagna con il Commonwealth. L’Economist Intelligence Unit fu perciò incaricata di uno studio anche su questo aspetto. Essa pubblicò un libro su questo tema nel 1960, che eliminò molti timori sul fatto che un legame con l’Europa avrebbe significato voltare le spalle al Commonwealth.
 
 
Il primo negoziato.
 
La risposta inglese al successo dei negoziati per il Trattato di Roma fu di creare un’area europea di libero scambio fra i sette paesi europei che non avevano aderito alla CEE. L’obiettivo era di convincere i Sei ad accordarsi per dar vita ad una più ampia area di libero scambio, che coinvolgesse tutti e tredici i paesi. Quando gli sforzi inglesi si dimostrarono vani, Harold Macmillan decise nel 1961 di proporre che la Gran Bretagna diventasse un paese membro della CEE a pieno titolo. I negoziati, condotti da Edward Heath, si conclusero nel 1963 a seguito del primo veto imposto da de Gaulle contro l’adesione inglese.
L’opinione pubblica, che era divenuta molto favorevole alla idea di un’adesione, subì un notevole contraccolpo e per alcuni anni la scelta europea cessò di giocare un ruolo significativo nella politica inglese. Tuttavia, quando alla fine del 1964 i laburisti ritornarono al potere, molti dei più giovani deputati nella Camera dei Comuni ripresero in mano con entusiasmo la causa dell’Europa. Un comitato laburista per il Mercato comune, molto attivo nel partito, presieduto da Roy Jenkins con Shirley Williams alla segreteria, giocò un ruolo di primo piano nell’assicurare un sostegno all’Europa all’interno del partito laburista. Roy Hattersley, l’attuale deputy leader del partito, divenne il direttore della Campagna per una Comunità politica europea con un forte impegno federalista.
Quando George Brown divenne Segretario agli esteri nel 1966, egli diede un’altissima priorità al secondo tentativo di aderire alla CEE. Dopo un viaggio esplorativo nelle capitali dei Sei, la seconda richiesta inglese di adesione fu sottoposta al Parlamento. Nel maggio 1967, dopo un lungo dibattito, essa fu approvata dalla più larga maggioranza mai registrata su una questione di vitale interesse, ottenendo l’appoggio dell’85 % dei votanti, di tutti i partiti politici. Questo secondo tentativo fallì quando il presidente de Gaulle impose il suo veto ancor prima che i negoziati avessero inizio.
 
 
L’aggiramento del veto.
 
I due anni seguenti furono dedicati dai federalisti al tentativo di trovare il modo di superare il veto francese. Sulla base di un suggerimento di Altiero Spinelli durante un seminario di Federal Trust tenutosi in Gran Bretagna nel 1968, fu avviata un’iniziativa per convocare una seconda conferenza di Messina, per creare, con la partecipazione a pieno diritto della Gran Bretagna, una Comunità politica europea, che avrebbe dovuto agire parallelamente alla Comunità economica. Per George Brown, che aveva allora appena lasciato il governo, furono organizzate visite presso i governi dei Sei e presso la Commissione europea. Si pensava di render pubblica la richiesta di una nuova Messina a Londra durante una visita ufficiale del governo italiano nel marzo 1969. Mentre fra i ministri inglesi e italiani venivano elaborati i dettagli, giunse notizia della sconfitta del governo francese nel referendum sulla regionalizzazione e delle dimissioni del presidente de Gaulle. La dichiarazione di Londra fu rapidamente modificata, con la richiesta di un allargamento della Comunità, di elezioni dirette del Parlamento europeo e di uno sviluppo di un ruolo politico della Comunità.
Le dimissioni del presidente de Gaulle furono il segnale che le porte erano ormai aperte per una partecipazione a pieno titolo della Gran Bretagna, e il governo laburista si preparò per i negoziati che dovevano iniziare nel giugno 1970. Questi dovevano essere condotti da George Thomson, destinato a diventare uno dei primi Commissari inglesi presso la Commissione europea. Ma in quel mese si verificò la sconfitta del governo laburista in una elezione generale e il ritorno di Edward Heath a capo di una amministrazione conservatrice. Il suo profondo impegno per una Europa unita testimoniava la determinazione del governo affinché i negoziati per l’adesione avessero successo.
 
 
Il secondo negoziato.
 
L’opinione pubblica inglese, dopo il secondo veto, aveva perso gran parte del residuo entusiasmo per un impegno della Gran Bretagna all’interno della Comunità. I sondaggi di opinione, alla fine del 1970, mostravano che il 70% si opponeva all’adesione, mentre solo il 18% era favorevole. Sulla base di questa ostilità era assai improbabile che un negoziato coronato da successo avrebbe ottenuto l’approvazione parlamentare. Il governo si trovava così di fronte ad un dilemma. Esso non poteva dimostrare che stava negoziando duramente con la Comunità e nello stesso tempo condurre una campagna presso l’opinione pubblica per persuaderla dei vantaggi della partecipazione.
Questo compito ricadde allora sul Movimento europeo, che intraprese una massiccia campagna pubblicitaria nei primi mesi del 1971, spendendo per questo scopo più di un milione di sterline. La pubblicità attraverso la stampa, accompagnata da centinaia di incontri pubblici e dalla distribuzione di milioni di volantini informativi, in tutto il paese, conseguì il suo obiettivo. Quando i negoziati stavano arrivando a conclusione nel maggio 1971, l’opinione pubblica mostrava una lieve maggioranza a favore della partecipazione. La decisione finale spettava tuttavia al Parlamento. Con un’opinione pubblica equamente divisa, i parlamentari si sentirono in grado di esprimere la loro valutazione.
La battaglia per l’adesione si trasferì allora alla Camera dei Comuni, cui dovevano essere sottoposti per l’approvazione i risultati dei negoziati, se coronati da successo. Profondamente diviso su questo tema, il partito laburista, in un congresso speciale, decise di opporsi alla partecipazione sulla base degli accordi negoziati, considerandoli pregiudizievoli degli interessi inglesi. Si pensava che questa posizione avrebbe unito i filo-europei e gli anti-europei all’interno del partito. Nel partito conservatore vi era anche una minoranza che tuonava contro l’adesione. Le prime valutazioni mostravano chiaramente che i laburisti, insieme con i conservatori ribelli, erano in grado di ripudiare gli accordi negoziati dal governo e di respingere l’adesione inglese.
Fu l’ala europeista del partito laburista, guidata dal deputy leader del partito Roy Jenkins, che salvò la situazione. In un voto di importanza cruciale sul principio dell’adesione nell’ottobre del 1971 sessantanove laburisti sfidarono la disciplina di partito e votarono insieme con il governo. Di conseguenza, il governo ottenne una larga maggioranza di 112 voti sul principio dell’adesione sulla base degli accordi negoziati. Nei mesi che seguirono i ribelli laburisti ritornarono all’ovile, ma un numero sufficiente di loro continuò ad astenersi o a votare insieme con il governo per assicurare che fosse approvata la legislazione specifica richiesta dall’adesione.
 
 
La partecipazione alla Comunità.
 
La Gran Bretagna entrò nella Comunità il l° gennaio 1973 con molte speranze, ma il paese rimase diviso. Fra i laburisti vi erano crescenti timori che il partito si potesse spaccare su questo tema, specialmente nella corsa verso le successive elezioni generali. Ma Harold Wilson seppe escogitare una soluzione che evitò questa spaccatura. Essa consisteva nel fatto che un governo laburista avrebbe cercato di rinegoziare le condizioni della partecipazione e avrebbe sottoposto i risultati direttamente, al di sopra del Parlamento, all’elettorato inglese attraverso un referendum. Questo sarebbe stato il primo referendum nazionale nella storia costituzionale britannica. Roy Jenkins si oppose a questa soluzione e diede le dimissioni da deputy leader del partito, quando essa fu adottata. I laburisti tornarono al potere nel marzo 1974. Sebbene non avessero raggiunto la maggioranza assoluta, sembrava probabile che avrebbero migliorato la loro posizione in un’altra elezione generale, il che fecero nell’ottobre 1974. Furono allora avviati dal governo i negoziati per modificare le condizioni della partecipazione in modo tale da soddisfare le richieste laburiste. Alla fine i mutamenti effettivi furono insignificanti, e quando furono sottoposti all’attenzione del gabinetto, questo si divise sul tema. In seguito a ciò, mentre il governo raccomandava di accettare le condizioni, fu concessa piena libertà di far propaganda contro questa soluzione a coloro che si opponevano all’interno del gabinetto e del Parlamento. La crisi petrolifera del 1973 e il successo dello sciopero dei minatori per ottenere salari molto più elevati, che provocò la caduta del governo Heath nel 1974, stimolarono una forte inflazione. La campagna di coloro che si opponevano al Mercato comune durante i negoziati per l’adesione si era concentrata sui prezzi, in particolare dei generi alimentari, sostenendo che essi sarebbero saliti alle stelle dopo l’ingresso nella Comunità. Per quanto riguarda i prezzi questo avvenne effettivamente, ma per ragioni diverse rispetto alla partecipazione alla Comunità. L’opinione pubblica tuttavia ritenne la Comunità responsabile. Così, un anno prima del referendum, i sondaggi di opinione mostravano una maggioranza di 2 a 1 per il ritiro dalla Comunità.
 
 
Il referendum.
 
A causa dell’ambiguità laburista su questo tema, ricadde ancora una volta sul Movimento europeo l’onere di organizzare la campagna pubblica, e la pianificazione della campagna iniziò nel maggio 1974, ben un anno prima di quando si effettuò il referendum. Circa sette milioni di volantini furono distribuiti nella maggior parte delle famiglie in tutto il paese durante l’estate del 1974 per reclutare aiuti per la campagna. Circa 12.000 persone si offrirono di collaborare volontariamente e nei mesi seguenti misero in piedi 475 gruppi locali per la campagna. La strategia adottata fu di garantire la continuità della partecipazione attraverso l’aggregazione di un gran numero di diversi gruppi di interesse. Ogni partito politico aveva il suo gruppo che faceva campagna. Il Movimento europeo, sotto l’insegna di ‘Britain in Europe’, creò gruppi che facevano campagna filo-europea nella maggior parte delle professioni, nel mondo dello sport, fra gli attori, gli artisti, ciascuno sostenendo l’opportunità di votare sì fra i membri del proprio gruppo. I cristiani per l’Europa mobilitarono le chiese e attraverso di esse le loro congregazioni. I comunisti per l’Europa imbarazzarono il partito comunista ufficiale, che era contrario. Le organizzazioni giovanili tennero meetings, manifestazioni pubbliche e azioni spettacolari. Il commercio e l’industria condussero campagne di informazione fra i loro addetti, con l’aiuto di sindacalisti filo-europei.
La strategia adottata era del tutto opposta a quella di coloro che si opponevano al Mercato comune. Mentre i filo-europei si esprimevano con molte voci diverse, ma tutte in favore della partecipazione, l’opposizione proveniva in larga misura dalla estrema destra o dall’estrema sinistra dello schieramento politico e tentava di parlare con una sola voce, e quindi divenne priva di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.
L’entusiasmo suscitato presso i gruppi filo-europei fu strabiliante. Esponenti politici, che da tempo si fronteggiavano fra di loro, lavorarono insieme con armonia per la loro causa comune. Questo era vero sia a livello nazionale, dove la campagna era guidata da Roy Jenkins, sia nei 475 gruppi locali, che erano deliberatamente composti in modo tale da assicurare, nella loro direzione, un equilibrio politico fra tutti i partiti.
La campagna si concluse con un rovesciamento dell’ostilità dell’opinione pubblica. In una votazione caratterizzata da una partecipazione del 60%, alta per la Gran Bretagna se si escludono le elezioni generali, vi fu una solida maggioranza per restare nella Comunità di 2 a 1.
 
 
Le elezioni europee.
 
Il passo successivo più importante nell’evoluzione della Comunità verso una federazione sembrò essere l’elezione diretta del Parlamento europeo. In Gran Bretagna l’iniziativa fu assunta dal Movimento europeo, che preparò un rapporto attraverso un gruppo di lavoro di alto livello, composto da rappresentanti di tutti i partiti, che cooperò strettamente con Schelto Patjin, il rapporteur olandese al Parlamento europeo sulle elezioni dirette. Fu fatta un’intensa pressione sul governo e sul Parlamento. Nel luglio 1977 la Camera dei Comuni approvò lo svolgimento delle elezioni dirette con 394 voti a favore e 147 contro.
Tuttavia il governo laburista dovette pagare un prezzo per indurre i suoi seguaci a votare a favore. Fu assunto infatti l’impegno di non aumentare i poteri del Parlamento e il governo sostenne esplicitamente la sua opposizione al federalismo europeo.
Molto più difficile fu tuttavia arrivare ad un sistema uniforme di elezione. Sia i laburisti che i conservatori temevano l’introduzione della rappresentanza proporzionale in occasione delle elezioni europee, in quanto si sarebbe potuto giungere in questo modo all’introduzione di un tale sistema anche in occasione delle elezioni nazionali, ponendo termine al loro duopolio nella gestione del potere. In quel periodo i liberali decisero di sostenere il governo, che aveva perso la sua maggioranza complessiva. Il prezzo per questo sostegno fu l’impegno da parte del governo di presentare alla Camera dei Comuni proposte che prevedessero la rappresentanza proporzionale. Ma consentendo la libertà di voto, queste proposte furono naturalmente respinte grazie ad un’alleanza tra i deputati laburisti e conservatori.
Si rese perciò necessario un processo molto più lungo per definire circoscrizioni europee con un solo deputato e si provocò cosi un ritardo di un anno nelle elezioni europee. Quando esse finalmente si tennero nel giugno 1979, il risultato distorse grossolanamente le tendenze del voto. Con meno del 50% dei voti i conservatori guadagnarono il 75% dei seggi, mentre la maggior parte dei seggi residui venivano attribuiti al partito laburista. I liberali, con circa il 13% dei voti, non ebbero alcun seggio.
 
 
Il governo della signora Thatcher.
 
Un mese prima delle elezioni europee i conservatori vinsero un’elezione generale e la signora Thatcher divenne primo ministro. La sua battaglia, condotta a lungo, « per riavere indietro il nostro denaro », è ormai parte della storia stessa della Comunità. Mentre l’opposizione della Gran Bretagna verso le eccessive contribuzioni nette al bilancio era corretta, i metodi adottati produssero un effetto profondo sull’opinione pubblica e originarono una forte impressione, anche se scorretta, che la partecipazione alla Comunità fosse contraria agli interessi inglesi. Ancora una volta si attizzarono cosi i sentimenti contrari al Mercato comune. E si consentì, all’interno del partito laburista, a coloro che si opponevano al Mercato comune di ottenere una massiccia maggioranza, nel Congresso del partito del 1980, a favore di un ritiro incondizionato della Gran Bretagna dalla Comunità europea.
Gli europeisti all’interno del partito laburista si ritrovarono completamente isolati. La maggior parte di loro si collocava alla destra di un partito che si era spostato fortemente a sinistra. L’insoddisfazione per questo spostamento a sinistra e l’elezione di Michael Foot, che si opponeva al Mercato comune, alla leadership del partito, convinsero molti di loro che era giunto il momento di rompere. Così, quando Roy Jenkins, ritornando da Bruxelles al termine del periodo trascorso alla Presidenza della Commissione, lanciò un appello per la creazione di una terza forza nella politica britannica, egli trovò un’eco immediata presso la maggior parte degli europei laburisti.
Sebbene fossero molti i motivi per cui i laburisti si divisero, l’Europa fu senza dubbio uno dei più importanti. Il nuovo partito socialdemocratico mise l’impegno a favore della Comunità europea in testa al suo programma e, insieme con i liberali, ha da allora rappresentato, fra tutti i partiti politici britannici, l’approccio più federalista al futuro della Comunità.
 
 
La lotta per la continuazione della partecipazione.
 
Privo della sua frazione filo-europea il partito laburista rimase solidamente impegnato per il ritiro dalla Comunità. Questo divenne uno dei punti più importanti nella sua piattaforma elettorale, quando si avvicinarono le successive elezioni generali. Giudicando sulla base dei sondaggi di opinione che mostravano una variabile, ma chiara, maggioranza contro la partecipazione, il partito vide la sua piattaforma anti-europea come uno strumento per guadagnare voti.
I federalisti si resero conto che la continuazione della partecipazione inglese era di nuovo seriamente in pericolo. Era necessaria una nuova campagna per evitare questo rischio. Questa volta fu sviluppata un’indagine sulla misura in cui l’economia britannica dipendeva dalla Comunità. Stime autorevoli mostrarono che circa 2,5 milioni di posti di lavoro dipendevano direttamente dal commercio con la Comunità. Le esportazioni inglesi verso la Comunità e verso i suoi associati europei erano cresciute enormemente e rappresentavano circa il 60% di tutto il commercio estero. Si dimostrò anche che gli investimenti stranieri in Gran Bretagna erano cresciuti enormemente dal momento dell’ingresso nella CEE, specialmente dagli USA e dal Giappone, che utilizzavano la Gran Bretagna come una base conveniente per produrre beni da destinare al Mercato comune.
Una intensa campagna di informazione fu lanciata dal Movimento europeo in cooperazione con l’industria e il commercio e con gli altri tre partiti politici più importanti. Dal momento che la crescita della disoccupazione giocava un ruolo sempre più rilevante nella lotta politica, si dimostrò che il ritiro dal Mercato comune avrebbe messo in pericolo milioni di posti di lavoro. Così il partito laburista, che aveva concentrato il tiro sulla disoccupazione e aveva promesso una massiccia creazione di nuovi posti di lavoro, si rese conto che la sua politica di ritiro, con le prospettive di perdite più massicce di posti di lavoro, era controproducente.
La campagna di informazione fu coronata da successo. Circa otto mesi prima delle elezioni generali del giugno 1983, i sondaggi dell’opinione pubblica mostravano una chiara maggioranza a favore del ritiro. Mentre le elezioni si avvicinavano, questa maggioranza scomparve e al tempo delle elezioni i risultati mostrarono una maggioranza di 2 a 1 a favore della continuazione della partecipazione.
Le elezioni generali del 1983 videro una massiccia sconfitta dei laburisti, che ottennero soltanto il 28% dei voti contro il 43% dei conservatori e il 26% dell’alleanza dei socialdemocratici e dei liberali. Questa massiccia sconfitta ha provocato un profondo ripensamento dell’attitudine dei laburisti verso l’Europa. Il partito laburista sta gradualmente accettando la partecipazione inglese e l’idea che il ritiro non è più un’opzione credibile.
 
 
Verso l’Unione europea.
 
Ora che le interminabili dispute intorno all’adesione della Gran Bretagna alla CEE sono finalmente accantonate, i federalisti inglesi hanno potuto rivolgere la loro attenzione alla trasformazione della Comunità in un’Unione europea. Una pressione consistente sui membri del partito conservatore al Parlamento europeo ha portato al voto sorprendente del Gruppo in favore del progetto di Trattato per l’Unione europea nel febbraio 1984. Dei 60 conservatori inglesi, 22 hanno votato a favore, 5 contro e 6 si sono astenuti, mentre gli altri, consapevoli della disapprovazione del governo conservatore, si sono assentati al momento del voto. La signora Thatcher si era impegnata a sostenere la solenne dichiarazione in favore dell’Unione europea approvata al vertice di Stoccarda del 1983, ma il governo non è ancora convinto della necessità di un nuovo Trattato, ovvero della soppressione del diritto di veto.
La prossima battaglia per i federalisti britannici è quindi sul punto di essere avviata al più presto. La dichiarazione di Stoccarda e il progetto di Trattato sono stati considerati complementari ed essi vengono collegati con una campagna ad hoc per il completamento del Mercato comune, a cui il governo conservatore è irrevocabilmente impegnato. Nello stesso tempo una pressione crescente verrà esercitata sul governo per aderire pienamente al Sistema monetario europeo.
È chiaro, tuttavia, che la Gran Bretagna difficilmente sarà alla testa della lotta per l’Unione europea. Come diceva solitamente Jean Monnet, gli Inglesi non amano le idee, ma rispondono ai fatti. Se la maggioranza degli altri governi della Comunità si dichiarerà pronta a formare l’Unione europea, senza la Gran Bretagna se necessario, è improbabile che la Gran Bretagna ripeterà gli errori del passato, quando si rifiutò di aderire alla Comunità europea per il carbone e l’acciaio o alla Comunità economica europea.
Il compito per i federalisti in Gran Bretagna sarà allora. di dimostrare chiaramente al governo e all’opinione pubblica i pericoli dell’esclusione inglese dalla nascente Unione, e il suo isolamento dalla corrente principale degli avvenimenti. Tutta la storia della Gran Bretagna mostra che questa non è una scelta che il paese non ha mai fatto. Quindi, se vi sarà una pressione da parte del continente, la Gran Bretagna sarà presente quando l’Unione verrà finalmente creata.
 
Ernest Wistrich

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