IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 261

 

 

IL CROCEVIA TRA LE NAZIONI E L’EUROPA*
 
 
    La fine del periodo transitorio del Mercato comune è un fatto storico complesso, e non solo un fatto economico. Il suo significato va perciò cercato non solo nei suoi risultati economici, considerati in sé stessi, ma anche, e soprattutto, nel carattere della situazione politica che li ha resi possibili. Ma questo significato non è stato ancora pienamente compreso dalla classe politica dei nostri paesi, e non è ancora divenuto, proprio per questa ragione, il punto di applicazione di una volontà politica pari alle possibilità che ha creato. Esso presenta perciò un quadro di luci e di ombre, e una grande incertezza quanto alle sue conseguenze prossime e remote.
    Nel Mercato comune ha preso la forma più avanzata e più incisiva l’aspetto fondamentale della politica postbellica in Europa occidentale: la prevalenza dell’unità europea su ogni altro indirizzo di politica generale. Questo fatto, nel quale ha trovato espressione la volontà di riscossa dell’Europa, è stato decisivo non solo per l’evoluzione dei Sei, ma anche per quella dell’intera area atlantica. Esso potrebbe, d’altra parte, essere decisivo anche per il futuro, perché costituisce la base indispensabile per sviluppare una politica che si proponga, come ultimo termine, l’unificazione totale dell’Europa, il suo definitivo riscatto, e il suo contributo alla formazione di un equilibrio internazionale più aperto alle grandi trasformazioni sociali ovunque in corso.
    Se consideriamo il passato che sta ormai alle nostre spalle, dobbiamo senz’altro attribuire allo sviluppo dell’unità europea gli aspetti positivi del secondo dopoguerra. Per apprezzarli nel loro giusto valore, basta confrontarli con quelli negativi, e carichi di conseguenze tragiche, del primo dopoguerra. Abbiamo avuto la collaborazione fra gli Stati al posto del confronto di potenza e delle passioni nazionalistiche, il ridimensionamento e l’espansione dell’economia al livello continentale al posto del protezionismo, dell’autarchia e dell’impoverimento. Sono questi argini che hanno impedito a quanto c’è ancora di irresponsabile nelle nostre forze politiche di riprodurre situazioni disastrose. Ma non bisogna dimenticare che tutto è ancora in gioco. La prevalenza dell’unità europea è stata, salvo lodevoli eccezioni, più un frutto delle cose che della volontà degli uomini, e non si è ancora tradotta, a causa di ciò, in un ordine duraturo.
    Ancora oggi, nonostante l’evidenza dei fatti che mostrano la società europea in piena formazione, l’unità europea resta affidata più alle cose che alla volontà dei partiti democratici. Pur ammettendo la finalità europea, questi partiti concentrano infatti i loro sforzi verso altri scopi. Essi cercano ancora, e sempre più vanamente, di mobilitare la volontà dei cittadini sugli obiettivi, anacronistici e irrealizzabili, del rinnovamento dello Stato nazionale, della politica nazionale e della società nazionale, senza rendersi conto della contraddizione tra la costruzione dell’Europa e la restaurazione degli Stati nazionali, senza capire che la Federazione europea è l’alternativa storica alla crisi irreversibile degli Stati nazionali.
    Qui stanno le ombre, perché la spinta delle cose non basta più per assicurare la prevalenza dell’unità europea sugli altri indirizzi di politica generale, e, con questa prevalenza, un minimo di ordine evolutivo. E’ vero che l’unità europea sembra rivestire il carattere di una necessità storica. Ma questa ipotesi non esclude affatto la possibilità di eclissi periodiche nella marcia dialettica verso l’unità. Di fatto, il nazionalismo ha già rialzato la testa in Europa. Respingendo il bilancio federale della Commissione della CEE e l’elezione popolare del Parlamento europeo, esso ha già bloccato gli sviluppi federalistici della Comunità. Se non verrà sconfitto in tempo utile, esso impedirà la trasformazione dell’unione doganale in una compiuta unione economica, e il suo allargamento ai paesi via via pronti a farne parte. E, cosa ancora più grave, esso renderà impossibile la soluzione del problema che ci ha già messo di fronte ai primi segni della possibilità di una nuova crisi rovinosa del potere politico in Europa: la crisi della partecipazione politica, e soprattutto del suo aspetto più importante, anche se meno in vista.
    Dopo i colpi di spalla del movimento studentesco tutti ammettono l’esistenza di questa crisi. Ma quanti capiscono che, per risolverla, bisogna, in primo luogo, far partecipare i cittadini alla costruzione dell’Europa? Si ammette, almeno a denti stretti, che per riattivare la partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale bisogna mettere nelle loro mani, a grado a grado che se ne mostrano capaci, la loro vita di lavoro, di studio e di comunità. Ma nessuno tiene presente che si tratta anche, e soprattutto, di rimettere nelle loro mani il loro destino storico.
    E’ un fatto che il nodo decisivo, la linea di confine tra la compressione e la liberazione delle energie positive si trova a questo punto; ed è un fatto che questo punto sta al crocevia tra le nazioni e l’Europa. In Europa il destino degli uomini dipende dalla possibilità di orientare l’economia europea verso fini sociali e umani, di contribuire a una distensione che non si vanifichi nell’imperialismo, di agire davvero per diminuire lo scarto crescente tra paesi ricchi e poveri. Ma la cittadinanza e il voto nell’ambito degli Stati nazionali non sono mezzi adatti per questi fini; sono, al contrario, delle paratie stagne che impediscono al popolo di partecipare attivamente, in prima persona, alle vicende cruciali del nostro tempo. Solo la cittadinanza e il voto nell’ambito di uno Stato federale europeo consentirebbe agli Europei di non subire passivamente le scelte da cui dipende il loro destino. Gli Stati nazionali, superati dalla dimensione della vita economica, sociale e culturale, schiacciati dalle potenze continentali, hanno ridotto ingiustamente gli Europei al rango di uomini inferiori ai Russi e agli Americani. Bisogna dunque andare al di là degli Stati nazionali, bisogna costruire, sulla base economica che si è già formata nella parte occidentale, il primo nucleo degli Stati Uniti d’Europa.
    L’ostacolo da superare non sta più nella situazione obiettiva, ma nella coscienza umana. L’esistenza di una base economica, cioè sociale, europea, dimostra senza ombra di dubbio che non è vero, come si ritiene persino negli ambienti europeistici, che un potere statuale europeo sarebbe un obiettivo politico ancora remoto, ancora fuori dalla portata reale della volontà umana, perché ancora estraneo agli interessi e alle lotte del popolo. La verità è che lo si considera remoto solo perché non ci si batte per raggiungerlo, perché lo si colloca al di fuori dell’orientamento della propria azione, e quindi, ipso facto, al di fuori del quadro della propria conoscenza. La verità è che lo Stato europeo, come obiettivo politico, ha carattere realistico perché si può agire per costruirlo. E’ un fatto che è possibile associare i cittadini, e le basi dei partiti, alla costruzione dell’Europa reclamando fermamente, secondo la lettera del Trattato, l’elezione popolare del Parlamento europeo, e mettendo in moto ovunque questa rivendicazione con l’elezione diretta dei propri delegati nei paesi dove nessun ostacolo serio impedisce questa elezione, per travolgere gli ostacoli esistenti altrove.
    Se non ci si colloca nella prospettiva della lotta per il potere statuale europeo, non si riesce a capire la natura e la portata di questa azione. Se ci si colloca in questa prospettiva, non si fatica invece a vedere che mettere in moto sul piano elettorale, con elezioni europee, i membri di una comunità che non è ancora uno Stato, significa proprio fare il primo passo — e nel contempo il passo più importante, quello decisivo — per costruirlo. Basta tener presente, del resto, quale sarebbe il significato storico di questo voto per la coscienza degli uomini. Con questo voto essi acquisterebbero la dignità di cittadini europei. Ciò significa che essi darebbero vita, sul piano della coscienza politica, anche se non ancora su quello della compiuta formazione giuridica, al popolo europeo: un popolo federale, un popolo di nazioni, il popolo che può esprimere le possibilità sociali e politiche del presente stadio di sviluppo dei nostri paesi. La lotta politica ritroverebbe un grande punto di riferimento, capace di guidare la nostra pigra classe politica e la nostra intellighenzia smarrita. Infiniti echi si desterebbero in tutta Europa, e nel mondo intero, stanco dell’egemonia russo-americana.
    E’ difficile pensare che questo popolo, se sarà messo in moto dalle elezioni europee, e costituito come coscienza, possa fermarsi prima di aver conquistato il suo mezzo di espressione democratico: lo Stato federale europeo. Cioè, prima di aver compiuto sul suo vero terreno, che è quello costituente, il processo di formazione dell’Europa politica, che i partiti si propongono vanamente di costruire senza l’intervento diretto dei cittadini, fuori dal terreno democratico. In ogni modo, la storia ha messo gli Europei di fronte a questa sfida. Si tratta di raccoglierla, o di essere sconfitti senza nemmeno aver avuto il coraggio di battersi.
 
Mario Albertini
 
 


* Questo testo è stato pubblicato in francese in Le Fédéraliste, X (1968), pp. 40 e segg.
 

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