IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLIX, 2007, Numero 1, Pagina 3

 

 

Energia: il «tempo» della transizione verso le fonti rinnovabili e la questione del potere europeo
 
 
Da tempo scienziati ed economisti affrontano la questione del possibile esaurimento delle fonti energetiche tradizionali (le cosiddette fonti «non rinnovabili») sulle quali si regge l’economia mondiale e che rappresentano l’insostituibile motore di crescita nei paesi in via di sviluppo. Essendo chiara la natura «non infinita» di tali fonti (petrolio, gas, carbone, uranio) il cui consumo è del tutto distruttivo, il dibattito — che ha ora raggiunto anche i grandi mezzi d’informazione — si accentra su due questioni cruciali, tra di loro collegate: a) entro quanti anni o decenni sia ragionevole attendersi un completo esaurimento delle fonti e b) quali e quante risorse tecniche e finanziarie sarà necessario impiegare (e, di nuovo, entro quanto tempo) per poter disporre di soluzioni economicamente accettabili, basate sull’utilizzo di fonti sostitutive e «rinnovabili» quali, ad esempio, il solare-fotovoltaico, l’idrogeno, i combustibili ottenibili da derrate agricole, ecc. Si tratta di un dibattito che procede in parallelo (e spesso si sovrappone) con un’altra drammatica questione del mondo contemporaneo: quella che riguarda il rischio che il continuo ed indiscriminato aumento nel consumo dei combustibili fossili, e quindi dei gas responsabili dell’«effetto serra», possa peggiorare drammaticamente, e forse irreversibilmente, le condizioni di vita sul pianeta.
È sulla questione del «tempo» ancora disponibile per realizzare questa transizione che gli esperti si dividono. È noto che le prime analisi condotte su basi scientifiche per identificare l’andamento nel rapporto produzione-consumo (sia pure limitatamente al petrolio) risalgono alla metà degli anni Cinquanta, al lavoro del geologo nord-americano M. King Hubbert che, operando nei laboratori di Houston della Shell Oil, formulò la previsione che la produzione di greggio negli Stati Uniti avrebbe raggiunto un picco (l’ormai famoso «picco di Hubbert») all’inizio degli anni Settanta per poi gradualmente ma inesorabilmente diminuire. Ex post, si sa che le analisi di Hubbert erano corrette ed in effetti il picco negli USA è stato raggiunto nel 1970.
Lo stesso Hubbert ed altri dopo di lui tentarono di ampliare l’analisi e di formulare ipotesi di esaurimento su una base mondiale. Come è ovvio qui le difficoltà, rispetto agli studi condotti negli Stati Uniti, ove erano disponibili informazioni ampie e attendibili, sono risultate ben superiori a causa della incerta o incompleta conoscenza sull’entità delle riserve effettivamente esistenti nel mondo. Cosi è, ad esempio, per i grandi paesi produttori aderenti all’OPEC, molti dei quali alla fine degli anni Ottanta, annunciarono un improvviso aumento delle riserve accertate, senza però fornire dettagli che consentissero delle verifiche. Tralasciando gli aspetti più tecnici di tali analisi, che si basano comunque su un convincente approccio scientifico (anche se prevalentemente di natura statistica) ciò che importa qui sottolineare sono le conclusioni di questi studi che, in larga misura, evidenziano che il rapporto «disponibilità/domanda» di petrolio raggiungerà, a livello mondiale, un suo «massimo» in un periodo probabilmente compreso tra l’oggi ed il prossimo decennio.
Non va ignorata l’esistenza di ipotesi più ottimistiche che spostano tale data di almeno altri venti o trent’anni o addirittura ipotizzano, come scrive Leonardo Maugeri nel suo recente The Age of Oil (Westport, Ct. 2006), che esistano nel sottosuolo del pianeta tali e tante riserve non ancora individuate di greggio, incluso il cosiddetto «greggio non convenzionale» (il cui sfruttamento sarà reso possibile dall’utilizzo di tecnologie d’estrazione più avanzate — a loro volta rese convenienti dall’aumento dei prezzi) da spostare ad un tempo lontano e indefinito il momento dell’esaurimento rendendo impensabile, almeno per un tempo «storico», il concetto stesso di «picco». Si tratta in realtà di un’equazione complessa, caratterizzata da un gran numero di variabili di carattere scientifico e tecnico-economico, senza trascurare quelle di natura squisitamente politica. Non è quindi irragionevole dare credito all’ipotesi più prudente, e ormai generalmente accettata, assumendo che in effetti esista un «tempo» in cui l’esaurimento delle fonti avrà inizio e che una tale scadenza si collochi in un orizzonte non superiore ai prossimi venti, o al massimo trent’anni. Commentando la situazione di crisi mondiale acuitasi dopo gli eventi dell’undici settembre 2001, il fondatore dell’Open Society, George Soros scrive (The Age of Fallibility, New York City, 2006): «L’aspetto cruciale della crisi è la situazione di limitata disponibilità di petrolio. Le ragioni sono in parte permanenti ed in parte cicliche. Il fattore permanente è che il consumo di petrolio supera regolarmente la scoperta di nuove riserve».
 
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Come è stato per altri eventi cruciali nella storia dell’umanità, se è la scienza che anticipa nuovi problemi e offre possibili risposte, è alla politica che compete la responsabilità delle decisioni e delle azioni. Come ricordato, gli esperti (scienziati ed economisti) segnalano da tempo l’esistenza del problema rappresentato dalla «non infinità» delle fonti di energia ed i correlati rischi ecologici, ed indicano anche, nella loro larga maggioranza, i tempi non lontani nei quali le crisi matureranno. Del pari, sono note le possibili soluzioni tecniche (il ricorso alle fonti rinnovabili) e per alcune di esse l’innovazione tecnologica già offre soluzioni valide. Ma la politica non sembra reagire con la prontezza e la determinazione necessarie. Scriveva Colin Campbell nel 1997 (The Coming Oil Crisis, Brentwood, Essex): «In un mondo ideale, i governi avrebbero condotto studi adeguati sulle risorse disponibili e sui fondamenti del loro esaurimento. Ma non lo fanno, e in società democratiche non possono farlo, poiché essi sono eletti per un breve termine e sono quindi motivati ad assicurare ai loro elettori benefici di breve termine. Di conseguenza, è del tutto improbabile che i governi degli Stati Uniti o dell’Unione europea adottino politiche energetiche con lo scopo di prepararsi all’inevitabile picco nella produzione di petrolio ed alla sua successiva penuria». Dieci anni dopo la situazione non è mutata. George Soros, nel testo già citato, osserva che talune crisi di natura occasionale (i pirati in Nigeria o gli uragani nel Texas ed in Louisiana, o l’aggravarsi dei conflitti medio-orientali, ad esempio), crisi che vengono poi risolte — o meglio, tamponate — ricreando così una maggiore disponibilità di greggio ed una relativa diminuzione dei prezzi, non incidono sulla sostanza, a medio-lungo termine, delle curve d’esaurimento ma «minano la volontà politica dei governi di affrontare il problema, come è stato in occasione della prima grande crisi energetica degli anni Settanta e come è probabile accada anche ora».
In realtà, e sia pure con un colpevole ritardo, alcuni governi si sono posti il problema ed hanno avviato qualche timida iniziativa. Non a caso, sono gli Stati Uniti che per primi hanno pubblicamente affrontato la questione. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 31 gennaio 2006, il Presidente Bush, dopo aver sottolineato che «l’America è drogata dal petrolio», ha assunto l’impegno di realizzare un grande piano di investimenti e di ricerca sulle fonti rinnovabili, con l’obiettivo di ridurre del 75% — entro il 2025 — le importazioni di greggio dall’estero ed in particolare dal Medio Oriente. Ulteriori dettagli e nuovi impegni sono contenuti nel più recente discorso sullo stato dell’Unione del 2007. Anche in Europa, sia pure più lentamente e confusamente, si è diffusa a livello politico una certa consapevolezza che bisogna affrontare la questione della dipendenza energetica da fonti non rinnovabili, adottando iniziative di lungo termine che rendano economicamente disponibili fonti alternative per la produzione di energia. È subito apparso ovvio che, per la gran parte dei paesi dell’Unione, affrontare il problema su una base puramente nazionale non avrebbe condotto molto lontano e si è quindi cercato di studiare un approccio più globale che ha condotto, nel 2002 , alla pubblicazione di un «Libro Verde» della Commissione europea. È un dibattito tuttora in corso che però non può non tenere conto della natura sostanzialmente «confederale» dell’Unione, per cui — al di là delle molte dichiarazioni di principio, ad esempio sulla desiderabilità di dar vita ad una Agenzia europea per l’ambiente e l’energia è del tutto normale attendersi che la realizzazione delle iniziative eventualmente concordate a livello di Unione sarà poi demandata alla responsabilità dei singoli Stati, come in effetti sta avvenendo.
Si possono ora trarre alcune conclusioni: gli strumenti scientifici e tecnologici per un’efficace soluzione «globale» del problema delle risorse energetiche esistono e postulano lo sviluppo di un sistema basato prevalentemente sull’impiego di un mix di fonti rinnovabili; ma non ci si può ragionevolmente aspettare una loro ampia disponibilità a livello economicamente accettabile prima del secondo o terzo decennio del nuovo secolo (il Presidente Bush ha parlato di 2025) e purché, in un tale arco di tempo, i poteri politici abbiano assunto le decisioni (grandi investimenti nella ricerca, un utilizzo molto più ampio e più sicuro del nucleare, una legislazione che premi l’utilizzo delle fonti rinnovabili, grandi campagne di sensibilizzazione al risparmio, ecc.) che possano consentire il passaggio dalla fase «teorica» (della scienza) a quella della realizzazione «industriale», economicamente sostenibile, avviando nel contempo il risanamento ecologico del pianeta.
 
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Ma questo non basta. Se iniziative politiche efficaci assunte oggi potranno consentire la soluzione del problema di lungo termine, la politica non può trascurare la questione non meno grave del «periodo di transizione»; quello che si può definire del «breve-medio termine». In questa fase, non sarà sufficiente preparare il futuro (le risorse rinnovabili) ma ci si dovrà impegnare per la sopravvivenza, sulla base di ciò che oggi è disponibile. Si tratta, in altre parole, di realizzare e garantire un equilibrio politico a livello mondiale che consenta un utilizzo più razionale e più equo delle risorse che esistono, pur se in diminuzione (petrolio, gas, uranio, ecc.), e senza le quali lo sviluppo economico dei vari paesi, specie di quelli più arretrati, sarebbe in pratica bloccato con conseguenze economiche e politiche non difficili da immaginare. Non solo si tratta di evitare che le attuali situazioni di crisi, o addirittura di guerra guerreggiata, si aggravino, soprattutto nelle aree ove queste risorse si trovano (Medio Oriente, Asia centrale, Africa). Occorrerebbe anche porre le premesse per avviare una sorta di «circuito virtuoso» che ne consenta una non impossibile progressiva pacificazione. Oggi invece le scelte di geopolitica delle maggiori potenze tendono ad aggravare le crisi. Gli Stati Uniti in particolare — pur intenzionati, nelle parole del Presidente, a svincolarsi nel lungo periodo dalle forniture medio-orientali — sono ben consci che nel breve-medio termine non potranno rinunciare alle forniture petrolifere dell’Arabia Saudita, degli Emirati, del Quwait e di altri paesi dell’area e, pur ammantando le loro scelte politiche e militari con la copertura ideologica della diffusione della democrazia e della difesa dal terrorismo, cercano di mantenere e sviluppare posizioni di controllo nel Medio Oriente, in Asia centrale ed ora anche in Africa. Più «morbida» (e più positiva) appare per ora la politica della Cina che, anche in rapporto alle sue attuali più ridotte capacità d’intervento, ha avviato una politica di contatti, prevalentemente di natura diplomatica e di aiuto economico nei confronti di molti paesi produttori in Asia, in Medio Oriente, in Sud America, in Africa. Sono iniziative che, pur collocandosi nella normale dimensione della «politica di potenza», potrebbero condurre — nella misura in cui si passi, come sta avvenendo, da un equilibrio unipolare ad uno bipolare (USA e Cina) — a successive «escalation» con il rischio reale di far degenerare la situazione. Qualche segnale in tal senso non può essere ignorato. In gennaio la Cina ha lanciato un missile balistico per distruggere un suo satellite meteorologico situato a più di 800 km dalla superficie terrestre. Un portavoce del Ministero degli Esteri si è affrettato a precisare che la Cina non ha alcuna intenzione di impegnarsi in una «corsa alle armi» nello spazio. Ma, come osserva l’Economist (27 gennaio 2007, «Stormy Weather»): «è difficile valutare questo test se non come una prova delle capacità cinesi di sfidare il potere americano nello spazio». E in effetti non sono mancate le reazioni nervose dell’amministrazione nord-americana e dei suoi alleati in Giappone e Taiwan. Nello stesso contesto (di potenziale «confronto») si colloca la contemporanea decisione degli Stati Uniti di far intervenire l’alleato etiope in Somalia e di costituire un comando militare con la specIfica competenza per il continente africano.
 
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In questi rapporti di geopolitica mondiale, anche i maggiori paesi europei cercano di ritagliarsi un qualche ruolo. La Germania in particolare sembra mirare ad un accordo di partnership privilegiato con la Russia, come rivela un recente documento del Ministero degli Esteri tedesco (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.), accordo che includerebbe addirittura una collaborazione sul piano militare con l’invio congiunto, in aree per ora non precisate, di truppe di «stabilizzazione». È invece del tutto assente l’Unione europea che, non esistendo come Stato, manca dei normali strumenti d’intervento nelle questioni internazionali: un governo che possa esprimere una politica estera unica e che disponga di un apparato politico, ma anche militare e di risorse finanziarie adeguate per una politica di sostegno e di alleanze con i paesi produttori.
Sgomberiamo il campo da un possibile equivoco: quando si evoca la possibilità che un «potere europeo» (uno Stato federale europeo) intervenga, ad esempio in Medio Oriente, a tutela dei propri interessi utilizzando tutti gli strumenti della cosiddetta politica di potenza, non si deve pensare ad un impossibile ritorno al passato coloniale, con l’invio di cannoniere e di truppe da sbarco. Si può invece ricordare, ad esempio, quanto avvenne nell’ottobre del 1956, quando truppe inglesi e francesi (oltre che israeliane) tentarono di occupare il Canale di Suez che era stato da poco nazionalizzato dal Presidente egiziano Nasser. Per bloccare l’iniziativa anglo-francese, il Presidente americano Eisenhower non dovette inviare truppe (a fini puramente dimostrativi inviò una portaerei): gli bastò telefonare al premier britannico Anthony Eden e minacciare ritorsioni economiche (la vendita massiccia delle sterline e dei franchi di cui disponeva il Tesoro americano) e ciò indusse a più miti consigli i governi di Gran Bretagna e Francia.
Proviamo ad ipotizzare cosa sarebbe potuto accadere se uno Stato federale europeo (una Federazione europea) fosse esistito nel 2003, al tempo dell’aggravamento della crisi irachena. Il Presidente della Federazione europea (o un suo autorevole rappresentante) avrebbe discusso con il Presidente nord-americano — su un piano di parità, come è possibile solo tra Stati sovrani — raccomandando» di proseguire con le ispezioni delle Nazioni Unite o con altre iniziative di natura diplomatica, e non mancando di minacciare che, qualora gli Stati Uniti avessero insistito nel loro approccio unilaterale e bellicoso, la Banca centrale europea non avrebbe esitato a porre sul mercato i buoni del tesoro americani di cui essa dispone. Si dirà che è fantapolitica; ed in effetti lo è, visto che uno Stato federale europeo ancora non esiste, ma occorre pur formulare concrete ipotesi d’azione per far comprendere le reali potenzialità positive che la fondazione di una entità statuale europea comporterebbe.
In sua assenza, sono gli Stati nazionali che prendono l’iniziativa, come nel caso già ricordato della Germania e dei suoi rapporti di rinnovata «ost-politik» con la Russia. In un’ottica federalista, non ci si può stupire più di tanto di queste scelte «nazionaliste». Che ci piaccia o meno, per la Germania e per gli altri Stati europei è tuttora il quadro nazionale quello in cui si situano gli strumenti del potere politico (per quanto limitati) di cui i governi dispongono ed è ben comprensibile che in situazioni d’emergenza essi tentino di utilizzarli a tutela, pur parziale e di dubbia efficacia, dell’interesse dei propri cittadini. Il governo tedesco, e così quello italiano o francese, hanno il problema di garantire che le forniture energetiche, dalla Russia, dall’Algeria, dall’Iran o da altrove, non vengano improvvisamente a cessare e, se da una parte comprendono che una linea unitaria (europea) sarebbe premiante ed avviano delle cooperazioni, per definizione intergovernative, in tal senso, dall’altra utilizzano tutti gli strumenti della politica nazionale, sui quali hanno un diretto controllo (e per il cui utilizzo devono rispondere, secondo i canoni della democrazia, al loro elettorato), per cercare di garantire ai propri cittadini che non mancheranno l’acqua calda o la benzina o l’elettricità. Sono ovviamente scelte contraddittorie e poco lungimiranti che tendono a rendere più difficili e antagonistici i rapporti tra gli Stati europei, rischiando addirittura di mettere in gioco l’equilibrio su cui si regge l’Unione, come dimostra il recente caso del progettato gasdotto sottomarino che dovrebbe trasferire, evitando di attraversare il territorio polacco, le forniture di gas dalla Russia alla Germania. Ma sono le uniche che, fermo restando l’attuale quadro di potere europeo, siano a loro disposizione.
È invece ovvio che una reale tutela dei cittadini europei potrebbe essere realizzata da un’Europa che si costituisca come Stato, come una Federazione, ipotizzata da Altiero Spinelli a Ventotene e dai fondatori delle Comunità negli anni Cinquanta. Spetterebbe allo Stato federale europeo, che disporrebbe degli strumenti necessari per farlo, avviare un negoziato con la Russia — di nuovo su un piano di parità tra Stati sovrani — per garantire eque condizioni per la continuità di forniture non per la sola Germania ma per tutti gli Stati della Federazione. Del pari, un Federazione europea che facesse parte di una più ampia Unione confederale avrebbe non solo il potere, ma anche una naturale predisposizione a tutelare gli interessi degli altri Stati membri dell’unione.
Sempre (e solo) uno Stato federale europeo potrebbe infine promuovere ed attivare, anche attraverso le Nazioni Unite, quel «grand bargain», quel grande negoziato di cui, secondo un’opinione ormai diffusa, vi è assoluta necessità in Medio Oriente, se si vuole che questa area, così prossima all’Europa, possa uscire dal circolo vizioso nel quale è precipitata (e le cui radici storiche risalgono in gran parte alle scelte compiute dagli europei a Versailles nel 1919). Così l’Europa, se da un lato provvederebbe alla tutela dei legittimi interessi dei propri cittadini (assicurandosi anch’essa un accesso più equo e regolamentato alle forniture di fonti energetiche almeno per l’inevitabile periodo di transizione), dall’altro potrebbe avviare una reale politica «multilaterale» di pacificazione, possibile con il ricorso agli strumenti della diplomazia e con l’avvio di un serio piano di aiuti economici, realizzando una vera coincidenza tra il proprio interesse e il dovere — l’impegno morale che le deriva dal riconoscimento degli errori del suo passato coloniale.
È chiaro che queste scelte comporterebbero il rischio di una contrapposizione con gli interessi degli Stati Uniti (e in parte delle altre potenze mondiali), dovuta almeno in parte a fatti oggettivi; tuttavia l’Europa, dotata di una struttura statuale (federale e non accentrata) avrebbe la possibilità di utilizzare un potere sovrano reale ma più «soft» di quello prevalentemente militare degli Stati Uniti. Potrebbe, ad esempio, dare un seguito concreto alle proposte iraniane di creare una nuova Borsa, ove le transazioni sul greggio e sul gas siano negoziate in euro; ma, al tempo stesso, sarebbe nelle condizioni di imporre all’Iran, come contropartita, il riconoscimento dello Stato d’Israele e di promuovere l’avvio di un negoziato diretto tra palestinesi ed israeliani che si concluda con il riconoscimento reciproco dei due Stati, la certezza dei confini ed un sistema di garanzie internazionali al quale partecipino sia lo Stato europeo, sia gli Stati Uniti d’America (ed eventualmente anche Cina, India e Russia), sia le potenze regionali, aprendo così la via anche ad una non impossibile de-nuclearizzazione dell’intera area medio-orientale.
Ma tutto questo comporta la fondazione di un «potere europeo», di uno Stato continentale che, anche se dotato all’inizio di un più ridotto potenziale militare, sia pur sempre in grado di far sentire la propria presenza nel quadro dei rapporti mondiali, così come avviene anche per gli altri Stati continentali. Non dispone di questo potere l’Unione attuale, né l’avrà anche se l’attuale Trattato costituzionale — pur utile per una più efficace gestione della struttura confederale dell’Unione — sarà approvato così come esso è o con le modeste modifiche di cui si parla, che non intaccano la sua struttura decisionale e non le consentono di esercitare un potere statuale e sovrano.
Il tempo è poco. La crisi energetica e quella, non meno grave, ecologica sono già in atto e scienza ed economia hanno già formulato da tempo le loro ricette, indicando con chiarezza le scelte ineludibili di fronte alle quali il mondo e l’Europa si trovano. Forse il picco lo si raggiungerà solo nel 2025, come sembra postulare il Presidente Bush, o nel 2030 (o addirittura oltre) e forse il confronto tra le potenze asiatiche emergenti (la Cina in particolare) e gli Stati Uniti si manterrà su di un piano prevalentemente diplomatico. Ma quel che è certo è che tutti i grandi attori mondiali — che dispongono di un potere sovrano statuale — sono già oggi all’opera, non solo per preparare le soluzioni di più lungo termine ma anche per tutelarsi di fronte alle scadenze del breve-medio termine (della transizione). Mentre l’Europa, condizionata dalla sua divisione, potrebbe presto trovarsi in una situazione di sostanziale asservimento alle potenze esterne, rendendo quanto mai attuale la profezia inutilmente predicata da Luigi Einaudi più di cinquant’anni fa.
 
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