IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLI, 1999, Numero 2, Pagina 127

 

 

L’aspetto di potere
della programmazione europea*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
1. Nella realtà, non ci sono fatti economici puri. A rigore, non si può nemmeno dire che ci siano fatti economici, ma soltanto fatti storico-sociali con un aspetto economico rilevante. Questi fatti possono, anzi devono, essere esaminati, in sede analitica, in termini puramente economici, che sono i soli idonei a mettere in evidenza il loro aspetto specifico. Ma ciò non basta. Insieme a tale aspetto specifico, di carattere economico, questi fatti presentano sempre degli aspetti psicologici, giuridici e politici, che devono a loro volta essere esaminati in termini puramente psicologici, giuridici e politici. Ed è così, in effetti, che vengono studiati dagli storici quando si tratta di fatti del passato. Questa prospettiva teorica, che si manifesta con forme dialettiche nel lavoro storiografico, diventa una necessità operativa, che dà o dovrebbe dar luogo ad analisi interdisciplinari, quando si tratta invece di affrontare dei veri e propri progetti economici, come quello della programmazione europea, che non possono essere attuati senza risolvere, con il problema della loro coerenza economica, anche quelli della loro possibilità sotto il profilo psicologico, giuridico e politico.[1]
Ciò equivale a dire che una indagine sulla programmazione europea non può non affrontare gli aspetti non economici di questo problema economico. Io mi propongo di svolgere, al riguardo, qualche considerazione di carattere politico, ossia di prendere in esame ciò che può essere chiamato, dopo questo chiarimento, l’aspetto di potere della programmazione europea. A causa del ritardo di sviluppo della scienza politica rispetto a quella economica, le mie considerazioni non potranno avere lo stesso grado di precisione di quelle degli economisti. In sede politica, è già difficile identificare i problemi, e distinguere quelli reali da quelli immaginari. A scopo introduttivo, io vorrei perciò cercare di identificare i maggiori problemi dell’aspetto di potere della programmazione europea; e solo in via subordinata, per dare un carattere realistico a questa introduzione, dire qualcosa a proposito delle loro soluzioni.
 
2. La prima questione che si pone, a mio parere, è la seguente: la programmazione europea è un nodo giunto al pettine? Ci sono problemi politici ai quali non si sfugge perché sono posti dalla evoluzione storico-sociale, e problemi politici che dipendono da scelte volontarie. I primi restano sul campo finché non vengono risolti, i secondi possono essere tanto affrontati quanto accantonati.
lo penso che, entro certi limiti da precisare, la programmazione europea sia un nodo giunto al pettine. Non discende, da questa opinione, che saremmo in grado di prevedere i tempi della soluzione. Nessuno strumento concettuale di analisi ci permette di prevedere tempi di questo genere, di indicare la data, e la forma precisa, di eventi storici futuri. Ma gli strumenti di analisi di cui disponiamo ci permettono di identificare macroscopicamente certe tendenze storico-sociali, di valutarne la consistenza e talvolta l’irreversibilità, e quindi di concludere, in sede politico-operativa, con l’indicazione della necessità (come avrebbero fatto gli antichi, usando un termine del linguaggio politico classico che i contemporanei non sanno più usare nel suo significato tecnico e umano).
A me pare che si possa affermare che la programmazione europea sia un nodo giunto al pettine perché credo che sia corretto ritenere che abbiano carattere irreversibile tanto il processo di sviluppo dell’economia mista quanto quello dell’integrazione europea. Il nesso tra queste tendenze storiche è evidente. L’economia mista porta avanti l’economia concertata e la programmazione,[2] e questa programmazione deve acquisire una dimensione europea nella misura in cui l’economia passa dalle dimensioni nazionali a quella europea. Il nesso è evidente, ma l’irreversibilità va provata. Nel quadro di questo discorso, si può ritenere scontata quella del processo di sviluppo dell’economia mista, mentre si deve discutere l’irreversibilità dell’integrazione europea.
I pareri sono discordi. L’incertezza deriva anche dal fatto che si tratta di un processo di trasformazione che avanza lungo le linee di minor resistenza, e genera situazioni provvisorie e disparate, vale a dire un panorama confuso. Forse, come vedremo, il modo meno incerto per stabilire a quale punto sia giunta l’integrazione, e quale possa essere il suo sviluppo, è quello di accertare le linee su cui sta avanzando. Tuttavia, prima ancora di fare questo esame, io credo che si possa ragionevolmente considerare l’ipotesi dell’irreversibilità se si tiene presente la difficoltà, o l’impossibilità, del ritorno indietro. Il processo economico-sociale, segnatamente nell’ambito dei Sei, è fuoriuscito dai confini nazionali. Per ricondurlo nell’ambito nazionale bisognerebbe fare, a rovescio, il cammino del Mercato comune. Ma, al presente, salvo catastrofi politiche o sociali, nessuna forza politica sarebbe in grado di portare a termine, anche se lo volesse, una politica di questo genere. È un fatto, per esempio, che lo stesso nazionalismo rinascente è costretto a piegarsi alla logica dell’integrazione europea, anche se cerca, naturalmente, di evitarne le conseguenze ultime.
D’altra parte, la stessa ipotesi di catastrofi politiche o sociali, se da un lato serve a rimettere la prospettiva dell’irreversibilità nei limiti del carattere aleatorio, rispetto ai tempi e ai modi, delle previsioni storiche, dall’altro non muta i termini concettuali del problema. Può far pensare a una sua eclissi temporanea, non alla sua scomparsa. L’integrazione nell’ambito dei Sei non è che lo stadio più avanzato di un processo più vasto di integrazione dell’attività umana a livello mondiale che sembra rivestire il carattere di un nuovo ciclo storico al suo inizio, ossia quello di una forza storica irresistibile. Una evoluzione di questo genere non esclude, ovviamente, la possibilità di crisi, o addirittura di periodi di arresto e di involuzione, che potrebbero anche riguardare, in ipotesi, lo stesso Mercato comune. Ma esclude, in linea di principio, la possibilità di un ritorno stabile a forme di mercato nazionale chiuso. L’Europa di questo secolo ci ha già offerto, in effetti, l’esempio di periodi regressivi di carattere protezionistico e corporativo cui ha fatto seguito, in maniera così vigorosa e spontanea da apparire naturale, la ripresa di processi integrativi, che sembrano pertanto dipendere proprio dall’evoluzione stessa del modo di produrre, cioè da un fatto storico primario.[3]
 
3. La seconda questione che si pone, sempre a mio parere, è la seguente: che tipo di potere è necessario per una programmazione europea? Il fatto che la programmazione possibile e necessaria sia, grosso modo, quella «indicativa» sulla base di una economia «concertata», può, velare la natura del potere necessario.[4] Quando si mettono in evidenza i caratteri «indicativo» e «concertato», il pensiero, «portato a spasso dalle parole» (nel loro senso comune, cioè fuori dal contesto nel quale dovrebbero essere usate in questo caso),[5] corre subito all’idea di un compromesso fra diversi centri di potere politico ed economico, piuttosto che a quella di un potere politico autonomo, che agisca per conto proprio. E nella misura in cui si pensa in questo modo, si può anche ritenere che il potere della Commissione della CEE (un potere di iniziativa e di dialogo con i governi nazionali rappresentati nel Consiglio dei Ministri della stessa), sia adeguato al compito. Ma, con questa ipotesi sbrigativa, si dimenticano due cose.
a) Si dimentica che un programma «indicativo» deve includere nel suo quadro la politica economica, vale a dire che esso è indicativo solo nei confronti di certe attività degli operatori privati, mentre è, in linea di principio e ampiamente in linea di fatto (bene o male) automaticamente vincolante nei confronti delle attività economiche esercitate direttamente dal potere politico;[6] e direttamente, o indirettamente, anche nei confronti degli aspetti dell’attività economica degli operatori privati che sono condizionati, o risultano condizionati, dalla politica economica dei governi.
Una programmazione europea «indicativa» — policentrica, concertata — non rende indispensabile l’eliminazione totale della sovranità economica dei governi nazionali. Si potrà accertare, ad esempio, quali imprese pubbliche possano restare nelle mani dei governi nazionali, diventando elementi nazionali della concertazione europea e quali debbano diventare europee. Ma non si può negare che per alcune imprese pubbliche, soprattutto nel contesto della tecnologia d’avanguardia, la dimensione europea sia necessaria. Non si può negare che la politica monetaria, e molte altre componenti generali della politica economica, debbano essere stabilite a livello europeo. E non si può negare, infine, che questi presupposti indispensabili per una programmazione europea esigano un livello di forza politica, e di volontà politica, che si può manifestare solo in un potere europeo di governo, cioè in un potere di carattere statuale costituzionalmente definito. Non esiste alcuna teoria vera e propria che permetta di confutare una conclusione di questo genere, e di identificare un potere che sia nel contempo di livello inferiore e sufficiente al compito della programmazione.[7]
In mancanza di un potere europeo di governo, si può pensare solo alla «armonizzazione» delle politiche economiche nazionali. Di solito questa idea viene avanzata a caso, senza l’esame dei suoi presupposti politici, senza chiedersi se sia realistica o utopistica. Il problema che si trascura, in questo caso, è quello dell’accertamento dei gradi di «armonizzazione» compatibili con la sovranità assoluta degli Stati. E il fatto che si trascura è la persistenza di questo tipo di sovranità, che è ben lungi dall’essere scalfita, come alcuni teorici affermano incautamente. Nei limiti di un uso empirico del concetto di sovranità (facoltà di decidere in ultima istanza, non assenza di influenze esterne sui centri di decisione), si può affermare senza il timore di essere smentiti dai fatti che la sovranità assoluta degli Stati membri della CEE è rimasta intatta, perché il processo di formazione pubblica della volontà politica si arresta ancora completamente, in modo, appunto, assoluto, allivello elettorale nazionale, al di là del quale perdura ancora la «libertà selvaggia» efficacemente illustrata da Kant.[8]
In ogni caso, l’armonizzazione è incompatibile, di fatto, con la programmazione, perché esclude a priori la formazione del minimo indispensabile di punti fissi di riferimento sottratti alla concertazione, a cominciare da quello monetario, senza dei quali la programmazione indicativa di una economia policentrica non può prendere corpo. Va da sé che in una economia concertata non si può «concertare» (o «armonizzare») tutto senza rendere impossibile proprio il fine stesso che ci si propone: quello di un indirizzo economico globale largamente regolato, ma compatibile con ampie libertà di scelta degli operatori privati e dei poteri pubblici di livello inferiore a quello generale.
b) Si dimentica inoltre che la stessa formulazione tecnica del programma non è indipendente dalla situazione di potere. Non occorre scomodare la sociologia della conoscenza per rendersi conto del fatto che qualunque progettazione sociale, come qualunque conoscenza sociale, dipende dal punto di vista, e che il punto di vista dipende a sua volta dalla posizione di potere di chi progetta o esamina. Un programma europeo, anche come elaborato tecnico, sarà sempre inadeguato fino a che non emanerà da un potere europeo di governo, ossia da tecnici al suo servizio.
Resta ancora da precisare che questo potere europeo di governo non dovrebbe superare il livello della competenza federale. Una economia concertata richiede una capacità autonoma di decisione non solo da parte degli operatori privati, ma anche da parte dei centri politici di dimensione inferiore a quella generale. In pratica, in Europa, una autonomia limitata, ma reale, dei centri pubblici nazionali e regionali. In termini costituzionali, ciò comporta la divisione equilibrata del potere non solo sul piano delle funzioni (legislativa, esecutiva, giudiziaria), ma anche su quello del territorio, ossia lo schema federalistico di distribuzione del potere.
La programmazione ha un lungo cammino da fare. In ultima analisi, essa non riguarda solo l’economia, ma coincide con l’idea del governo moderno, con l’impostazione democratica e razionale di tutte le sue attività, ivi comprese quelle non direttamente economiche, non solo perché queste attività implicano delle spese, ma anche e soprattutto perché, procedendo alla cieca sotto il profilo dell’uso del territorio, esse comportano sia il rischio della cosiddetta «catastrofe ecologica», sia la manomissione o la distruzione delle risorse naturali e dell’organizzazione urbana (nel senso autentico del termine, con i suoi valori storici, artistici e comunitari), fino alla messa in gioco degli elementi che costituiscono l’ambiente stesso della vita fisica e civile del genere umano.[9]
Ma, nonostante questo lungo cammino da fare, la programmazione, come work in progress, esige, fin dalla partenza, una pluralità di poteri nel contempo forti e limitati, cioè una situazione di potere incompatibile con la forma dello Stato nazionale unitario, che può arrivare sino a un certo grado di decentramento, ma non sino allo stadio federalistico della pluralità di centri di potere indipendenti e coordinati.[10]
 
4. La terza questione che si pone, sempre a mio parere, è la seguente: che tipo di politica è necessaria per la formazione di un potere europeo di governo? Anche se questa verità banale non emerge chiaramente nel dibattito politico, non si può negare, in linea di principio, che, se si può parlare di un processo di formazione di tale potere europeo, non si può in effetti che parlare di un processo che non dipende solo dal concorso di volontà convergenti ciascuna per suo conto, consapevolmente o no, verso il fine (un concorso inconsapevole è sempre presente nelle grandi trasformazioni storiche, come manifestazione soggettiva delle spinte oggettive dell’evoluzione del modo di produrre), ma anche, e specificamente, da azioni umane organizzate proprio in vista del fine, ossia da ciò che si suol chiamare una linea politica.
In questo settore dell’azione umana, si formano facilmente delle illusioni, in pratica delle vie sbagliate, che possono stimolare, nella fasi iniziali, un processo, ma che non portano al traguardo senza costanti e adeguate rettifiche. E l’incidenza delle illusioni (tecnicamente dell’automistificazione ideologica) sulla conoscenza politica è tale che non ha rilevanza teorica, e neppure pratica, occuparsi di una linea politica senza un esame specifico del suo contesto ideologico di incubazione. Ciò vale, ovviamente, anche per il caso dell’integrazione europea. Non si può, in effetti, affrontare seriamente la questione identificata come «linea politica della formazione di un potere europeo di governo», senza discutere alcuni problemi pregiudiziali. Questo dei miti che impediscono il riconoscimento dei suoi termini reali, è senz’altro il primo da esaminare.
Nel contesto dell’unificazione europea, si è formato in diversi modi, secondo le diverse posizioni di potere delle forze e delle persone coinvolte, il mito della sua formazione spontanea, puramente evolutiva, senza un atto di rottura e un salto qualitativo. Questo mito è una vera e propria automistificazione ideologica, che ha la funzione di velare, a chi si propone l’unità europea sulla base di una posizione di potere nazionale, le conseguenze personali e di gruppo della necessità della distruzione del potere nazionale — come potere generale — per costruire quello europeo. In ogni caso di questo genere, l’idea di questa o di analoghe necessità, anche se è nota, resta in un limbo della conoscenza (che risulta sdoppiata), e dell’azione (che risulta inefficace rispetto allo scopo ultimo).
Per quanto riguarda il suo contenuto empirico, potenzialmente descrittivo, non immaginario, il mito della formazione spontanea dell’Europa confonde due fasi strategiche diverse: quella dei tentativi di provocare situazioni nelle quali sia possibile creare un governo europeo, o di fare dei passi in questa direzione, e quella del fatto, necessariamente costituzionale e costituente, della sua creazione. In breve, confonde la politica di avvicinamento e quella della realizzazione.
Nel passato recente, la forma più diffusa di questo mito è stata quella dell’evoluzione spontanea dall’integrazione economica a quella politica. In termini schematici, questo era il contenuto pseudorazionale del mito: «Mettiamo in cantiere il processo di formazione del mercato comune. Ad un certo momento, sarà necessaria una moneta europea. Ma una moneta implica un governo. Il mercato comune ci porterà dunque, necessariamente, a un governo europeo». Il vizio stava, come si constata subito, in questo «necessariamente», che scambiava una conseguenza logica per una conseguenza pratica, come nel caso classico di colui che creda di avere cento talleri in tasca perché ha in mente l’idea di avere cento talleri in tasca.
Negli ambienti federalistici si replicò subito che, restando in termini schematici, il ragionamento corretto era quello inverso: «Non c’è mercato comune senza moneta comune, e moneta comune senza governo comune, dunque il punto di partenza è il governo comune». Si fece inoltre presente che, in linea di fatto, la liberalizzazione degli scambi compatibile con la sovranità assoluta degli Stati avrebbe trovato in questa sovranità, e nella corrispondente mancanza di un governo europeo, il suo limite di sviluppo. E infine che, in ogni modo, la formazione di un governo europeo non poteva utopisticamente essere considerata come il sottoprodotto di altre attività, ma come un’attività specifica. La classe dirigente europea non tenne alcun conto di queste osservazioni federalistiche. Ma i fatti hanno ormai smentito, con la loro durezza, non solo l’illusione del passaggio automatico dall’integrazione economica a quella politica, ma anche — almeno nell’opinione dei dirigenti più consapevoli — quella del compimento dell’unione economica senza una base politica adeguata (in questi termini si è espresso recentemente, ad esempio, il ministro Emilio Colombo).
È la storia di ieri. Un nesso del nodo (un nodo dialettico, non un grado evolutivo) tra integrazione economica e politica si è presentato effettivamente, come è noto, con la proposta del cosiddetto bilancio federale. Sul terreno della politica agricola comune e del suo finanziamento, e in vista della eliminazione completa delle tariffe doganali interne come della creazione della tariffa esterna comune, la Commissione della CEE propose il trasferimento, di per sé logico in termini economici, delle entrate doganali comuni dagli Stati alla Comunità. Ma questo trasferimento si collocava sul piano inclinato del trasferimento di parte della sovranità economica, in ultima istanza di parte del potere politico, dagli Stati alla Comunità (restando sul versante della politica di avvicinamento), e per questo venne respinto. In mancanza di una politica orientata verso l’obiettivo del potere europeo, il primo nodo giunto al pettine, invece di rafforzare la Comunità secondo la logica mitica dell’evoluzione continua dall’economia alla politica, l’ha invece, come risulta dai fatti, indebolita.[11]
Oggi, proprio con l’emergenza dell’idea di una programmazione europea, mentre resta ancora attivo, soprattutto nei settori della sinistra nazionale, il mito della formazione del governo europeo come sottoprodotto dell’auspicata convergenza delle politiche estere degli Stati su una posizione indipendente dagli USA (secondo la logica del carro davanti ai buoi), rischia di formarsi un secondo mito economico: quello appunto della formazione evolutiva di un governo europeo come sottoprodotto dell’avvio del processo di formazione della programmazione europea. Ma, ancora, è piuttosto vero il contrario. Il processo di formazione della programmazione europea è davvero in corso; ma solo per quanto riguarda una fase preliminare, quella dell’affermazione astratta del principio, che non può essere scambiata, da chi tenga la testa fredda, con l’affermazione del fatto, e che è destinata senz’altro ad esaurirsi rapidamente, lasciando sul campo uno dei tanti feticci politici, se la mancanza di successi pratici la ridurrà a una pia intenzione.[12]
 
5. L’idea della programmazione europea può contribuire alla formazione della volontà di fondare un governo europeo. Se ciò favorirà l’impostazione di una vera e propria linea politica diretta a questo obiettivo, e se questo potere verrà costituito, il suo consolidamento, e il progresso della programmazione europea, potranno andare di pari passo. C’è un precedente storico illuminante. La politica economica con la quale Hamilton ha consolidato il governo federale americano nei suoi primi anni di vita è proprio un esempio di questo genere, che manifesta, nei termini dell’economia di allora, la stessa logica politica. Ma non bisogna dimenticare che Hamilton ha potuto consolidare in questo modo il governo federale dell’Unione perché la Convenzione di Filadelfia l’aveva ideato come formula costituzionale, e la ratifica del popolo degli Stati lo aveva realizzato togliendo, secondo lo schema di Filadelfia, una parte di potere agli Stati, e attribuendolo all’Unione. E non bisogna dimenticare, per non raffigurarsi illusoriamente questo processo dialettico come un fatto semplicemente evolutivo, che la classe dirigente legata ai tredici Stati della costa atlantica oppose una tenace resistenza che non sarebbe stata spezzata senza scavalcare gli Stati con il ricorso diretto al popolo americano grazie al meccanismo della ratifica popolare.
Allo stesso modo, la programmazione europea non potrà mai passare dallo stadio dei progetti a quello dei fatti, e quindi anche del suo concreto sviluppo, senza la creazione del suo presupposto politico. A questo riguardo, va notato ancora che il mito del mercato comune come processo di formazione del potere politico europeo ha potuto tenere il campo per molto tempo perché proiettava in un punto molto lontano da quello di partenza il momento della sua verifica, e perché il periodo transitorio, grazie al carattere limitato dei suoi provvedimenti economici, poteva essere portato a compimento senza un governo europeo. Ciò equivale a dire, in termini di strategia della lotta per l’Europa, che il mercato comune (in realtà una unione doganale con un embrione di unione economica nel settore agricolo), pur essendo falso come strada diretta per il potere politico, ha coinciso tuttavia con una politica di avvicinamento.
Ma la programmazione europea non può avere alcuno sviluppo realmente efficace (salvo quello preliminare della formazione di un consenso generico di principio) senza un governo europeo, perché programmare è ben più che eliminare gradualmente le tariffe doganali nell’ambito di un gruppo di Stati, o mercanteggiare dei prezzi agricoli comuni. Programmare è governare nel senso moderno della parola, con un governo all’altezza del compito. L’inizio della programmazione europea non può perciò coincidere con l’inizio di una nuova fase di avvicinamento al governo europeo. Può coincidere soltanto, quando il nodo politico dell’integrazione economica sarà sciolto, con l’effettiva inizio dell’attività di un governo federale europeo.
 
6. Sgombrato il terreno dal mito della formazione spontanea dell’Europa, resta ancora da affrontare un problema particolare di tecnica politica, prima di esaminare, con l’ausilio delle premesse indispensabili, la questione dell’azione specifica per la formazione di un governo europeo. Questa azione, come si è detto, deve avere un carattere politico proprio, ma si dà il fatto che l’azione politica, nella misura in cui riguarda l’integrazione europea, si presenta con caratteristiche molto diverse da quelle normali, cui il pensiero si riferisce abitualmente.
C’è un aspetto delle fasi trascorse dell’integrazione europea che mette bene in evidenza la diversità tra l’azione politica nel suo corso normale e l’azione politica che riguarda l’integrazione europea. Si tratta di un aspetto noto, ma non riconosciuto nel suo rilievo teorico e pratico, perché il corso normale della politica viene abitualmente sentito come qualcosa di organico, di naturale, cioè proprio come qualcosa al di fuori del quale potrebbero formarsi solo illusioni politiche, ma non azioni politiche effettuali, che restano pertanto sul fondo della scena, in ombra, anche quando si svolgono sotto lo sguardo di tutti.
È vero tuttavia che le fasi già trascorse dell’integrazione europea non hanno trovato il loro punto di partenza in decisioni nate in seno ai partiti e ai governi, nel quadro normale (istituzionale) del processo di formazione della volontà politica, ma in progetti elaborati da ristretti gruppi di persone, e fatti accettare, grazie a circostanze eccezionali, a uomini di governo, sulla sola base della propensione generica verso l’unità europea delle maggioranze al potere negli Stati.
Questi progetti permettevano di risolvere gravi difficoltà che si erano manifestate nel corso normale della politica, avevano una dimensione europea, e il carattere di germi da sviluppare. Per questa ragione, dopo essere stati introdotti dall’esterno nell’equilibrio politico, essi hanno acquisito la natura di situazioni da gestire sino al compimento del loro sviluppo. In altri termini, sono diventati dei dati di fatto europei della situazione di potere, dei presupposti materiali del processo normale di formazione della volontà politica, che ha così assunto temporaneamente anche una dimensione europea, nonostante il suo carattere fondamentale, non ancora scalfito sul piano strutturale delle istituzioni, di lotta per i poteri nazionali.
Il maggiore episodio dell’integrazione europea, quello comunitario, presenta questi aspetti in modo tipico. All’origine, la difficoltà provocata dalla situazione politica era costituita dal difficile problema dell’ingresso attivo della Germania occidentale nella sfera atlantica. I nodi da sciogliere erano quelli dell’industria renana e dell’esercito tedesco. Gli anglo-americani avevano proposto semplicemente il riarmo tedesco e la ripresa dell’industria renana, i francesi esitavano. Profittando dell’impasse, Monnet e il suo gruppo elaborarono, e proposero a Schuman, il modello comunitario europeo in riferimento al carbone e all’acciaio (CECA), cioè il passaggio dalla Germania all’Europa del controllo dell’industria renana. Schuman, che non avrebbe potuto reggere a lungo su una posizione puramente negativa di fronte alle richieste anglo-americane, l’accettò come un’ancora di salvezza. Successivamente, la Francia tentò di applicare il modello comunitario al settore militare allo scopo di evitare il riarmo nazionale tedesco (CED). Questo tentativo fallì per un soprassalto del nazionalismo francese (l’Italia non aveva però ancora ratificato la CED). Ma la volontà di rilanciare l’Europa sul terreno economico, provocata proprio dalla caduta della CED e dalle sue conseguenze, si inquadrò naturalmente nel modello comunitario, che aveva ormai fatto buona prova con la CECA sotto la guida di Monnet.
 
7. Dopo l’esame di questi problemi pregiudiziali, la questione dell’azione specifica per la formazione di un potere europeo di governo, si presenta dunque, se non mi sbaglio, in questi termini: esiste una difficoltà obiettiva della situazione politica generale (cioè non solo dell’integrazione europea sulla base dei suoi presupposti già acquisiti), cui si possa far corrispondere dall’esterno l’elaborazione e la introduzione nell’equilibrio politico di un germe che la classe politica debba gestire, e il cui sviluppo abbia qualche possibilità di giungere sino alla costituzione di un governo federale europeo?
Io credo di sì. Per giustificare questa risposta, secondo quanto ho già detto, devo precisare alcuni aspetti dello stato attuale dell’integrazione europea in rapporto alla situazione politica generale. Per quanto riguarda l’integrazione europea, noi siamo di fronte a una anomalia istituzionale: un Parlamento europeo non eletto direttamente dai cittadini. È un fatto grave, perché il parlamento rappresenta ancora, nonostante la sua crisi di trasformazione, il mezzo e il simbolo del grado più alto di partecipazione del popolo alla cosa pubblica. Nel contempo, siamo di fronte a una economia europea senza controllo democratico. Anche questo fatto è grave. Significa che si è stabilito un rapporto tra società civile (largamente europea) e società politica che non soddisfa nemmeno le esigenze del liberalismo classico, e ciò in un tempo nel quale fatti e valori non esigono più solo la subordinazione dell’attività economica ad alcuni fondamentali principi civili, ma addirittura la programmazione, sia pure «indicativa».
Di solito, nelle analisi politiche correnti, non si stabilisce alcun nesso tra questi aspetti dell’integrazione europea e l’evoluzione politica. Ma il nesso esiste, e se viene preso in considerazione non si fatica a intravedere una relazione di causa e di effetto tra questi colli di bottiglia europei e le tensioni crescenti fra gli Stati della sfera atlantica, la perdita di prestigio della leadership americana e la crisi di autorità dei poteri democratici nazionali. Nel quadro di questa indagine ciò equivale a dire che saremmo ancora di fronte, come al tempo della proposta della CECA, ad ostacoli extranazionali, di carattere europeo, che condizionano il corso normale dell’azione politica, anche se da soli non provocano in seno ai partiti e ai governi né analisi adeguate né risposte efficaci.
Il successo (relativo) dell’integrazione economica ha alterato il dato fondamentale della situazione: i rapporti di potere tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti, che hanno ormai deciso di ridurre la loro presenza militare in Europa. Nel contempo la stasi del Mercato comune nelle due direzioni del rafforzamento e dell’allargamento ha ridato alimento alle divergenze fra gli Stati europei, rende più difficili i rapporti economici e politici della sfera atlantica (problemi monetari, della NATO ecc.) impedisce di regolare efficacemente gli aspetti dell’economia che hanno già assunto una dimensione europea e di colmare il vuoto di potere che sta per aprirsi col disimpegno americano in Europa. Perciò gli Stati europei, cui l’integrazione toglie il controllo dell’economia, e che rischiano di perdere con la chiusura parziale dell’ombrello americano il fattore più consistente della loro sicurezza, declinano, come qualunque Stato che perda le sue funzioni essenziali. Manca ancora, d’altra parte, la contropartita europea. L’organizzazione comunitaria, al grado di sviluppo cui si è arrestata, non può ancora gestire i problemi di politica economica e di sicurezza che non trovano più espressione nella sfera atlantica come patto diseguale per la mancanza di un polo europeo consistente.
La stasi, nella direzione dell’allargamento, sembra superata dopo la caduta di De Gaulle e la recente conferenza dell’Aja. Ma ciò non basta. La crisi di cui si è parlato dipende dalla debolezza del centro europeo e può essere superata solo col suo rafforzamento. L’allargamento, qualora venisse ottenuto indipendentemente dal rafforzamento, non creerebbe un vero interlocutore degli Stati Uniti, e non garantirebbe affatto l’attribuzione all’Europa delle risorse tecnologiche, monetarie e difensive della Gran Bretagna e degli altri paesi che hanno chiesto di far parte dell’organizzazione comunitaria.
 
8. Vale la pena di ricordare, a questo punto dell’analisi, che per quanto riguarda lo specifico meccanismo di evoluzione del Mercato comune, questa situazione, la cui gravità è ora pienamente dispiegata, era stata prevista dal Trattato di Roma, che aveva cercato in effetti di provvedere con l’art. 138 (CEE), ossia con l’elezione diretta del Parlamento europeo. Il disegno era corretto. Il progresso dell’integrazione economica avrebbe creato, come ha creato, problemi insolubili senza un centro europeo più forte di quello iniziale. E l’elezione diretta avrebbe dovuto dotare il centro europeo del potere indispensabile per continuare a progredire.
Questo aspetto del Trattato non viene di solito ben compreso per la tendenza a giudicare l’organizzazione comunitaria e in particolare il suo organo parlamentare — che sono stati concepiti come fatti evolutivi, come istituzioni di transizione — in termini statici e astratti invece che dinamici e concreti. Per comprenderli sotto questo aspetto, bisogna cercare di valutare, alla luce dell’art. 138, le conseguenze politiche di una elezione europea, e non solo il Parlamento europeo come è oggi.
A mio parere gli elementi rilevanti, nella prospettiva elettorale del Trattato, sono due: lo schieramento dei partiti a livello europeo, che farebbe posare il Parlamento europeo sulla stessa base di interessi politici e di consenso pubblico di cui si valgono gli Stati; e l’amalgama degli interessi e dei bisogni economici creati dall’integrazione con le motivazioni della condotta dei partiti, che sarebbero costretti, da elezioni europee, a cercare il consenso dei cittadini anche in funzione degli interessi e dei bisogni europei.
La considerazione di questi elementi permette di affermare che in concreto, cioè in riferimento al processo di formazione della volontà politica, le ragioni della stasi del Mercato comune stanno nella mancata attuazione dell’art. 138. A causa di ciò, e del conseguente mantenimento del limite elettorale nazionale, i dati economici nazionali (al pari degli interessi politici nazionali e del consenso nazionale) si amalgamano con le motivazioni della condotta della classe politica, quelli europei no. Il risultato è un vuoto di potere a livello europeo. I partiti l’avvertono confusamente, ma non possono battersi per un potere elettorale europeo che non esiste ancora, e restano pertanto prigionieri del limite nazionale non solo dal punto di vista pratico, ma anche dal punto di vista teorico, cioè sul piano dell’elaborazione delle loro diagnosi politiche e della formulazione dei loro progetti di azione.
D’altra parte, la considerazione di questi elementi permette anche di affermare che il fatto elettorale europeo, nel quadro della società europea in formazione, potrebbe costituire proprio il germe di formazione di un potere europeo di governo. A questo riguardo, e al fine di una valutazione di questa opinione, bisogna tener presente non tanto lo stato attuale dell’organizzazione comunitaria quanto lo schieramento europeo dei partiti, l’espressione del consenso popolare a questo livello, l’amalgama degli interessi politici, economici e ideali di carattere europeo con le motivazioni del comportamento della classe politica e finalmente le conseguenze di questi fattori su quanto c’è di organizzato istituzionalmente in Europa.
A me par certo, per ciò che si sa della natura della politica, che fenomeni di questo genere, quando siano pienamente sviluppati, non possano non assumere un carattere statuale. E mi par certo che i partiti, se si riuscisse a introdurre il fatto elettorale europeo, dovrebbero gestirlo sino al compimento del suo sviluppo, a meno di alterazioni radicali dell’equilibrio politico. Con ciò mi pare anche di aver mostrato quale sia il germe da introdurre per giungere sino alla formazione di un governo europeo. Resta da esaminare se questa introduzione sia possibile. Entro certi limiti, si tratta di giudicare una azione già in corso.
Nei partiti e nei governi non si è mai formata, e non si può formare facilmente, una iniziativa efficace per la piena attuazione dell’art. 138. Probabilmente la ragione sta nel fatto che il centro di decisione al quale è stata attribuita questa competenza, il Consiglio dei Ministri delle Comunità, non è, e non può essere, l’organo della formazione autonoma di una volontà di questo genere. Ma, proprio per questo, in tutti i paesi della Comunità, e con particolare vigore in Italia, si sono sviluppate delle tendenze a favore di elezioni europee unilaterali. Si tenta, in sostanza, di far eleggere direttamente i membri del Parlamento europeo del proprio paese, riservando l’elettorato passivo ai parlamentari nazionali per rispettare le disposizioni dell’art. 138 relative alla nomina dei delegati su base nazionale.
La speranza che anima questi tentativi sta nell’ipotesi secondo la quale il primo riconoscimento del diritto elettorale europeo dei cittadini metterebbe in una posizione molto difficile i governi che non volessero riconoscere un diritto eguale ai loro cittadini, sino a provocare decisioni analoghe negli altri paesi e, infine, l’elezione generale diretta del Parlamento europeo.[13]
In Italia questo tentativo è molto avanzato. Una delegazione del Consiglio italiano del Movimento europeo, guidata dal presidente Giuseppe Petrilli, ha presentato al Presidente del Senato, Amintore Fanfani, il giorno 11 giugno 1969, un disegno di legge di iniziativa popolare per l’elezione diretta dei membri italiani del Parlamento europeo. Le reazioni del governo, e degli esponenti dei gruppi del Senato, sono state nettamente positive. La procedura dell’esame del disegno di legge ha già avuto inizio. La sua approvazione è dunque possibile.[14] Se questa possibilità diventerà una realtà, e avrà o no le conseguenze che ho illustrato, lo dirà il prossimo futuro. In sede scientifica, solo i fatti possono provare la verità delle congetture. E quando si tratta di congetture politiche, che bisogna pur fare nonostante l’imperfezione degli strumenti concettuali disponibili, bisogna essere disposti anche a lasciare alla fortuna il ruolo che le spetta.


* Questo testo, leggermente modificato, è stato pubblicato in francese in Le Fédéraliste, XI (1969).
[1] L’indicazione «psicologici» è sommaria. Gli aspetti genericamente richiamati come psicologici includono ovviamente anche quelli illustrati dai sociologi col termine «cultura».
[2] Il termine «concertata», come i termini «indicativa» — o «operativa» e via dicendo — in relazione alla programmazione sono di uso incerto. Il significato che attribuisco a questi termini risulta comunque dal contesto.
[3] Il riferimento è al materialismo storico, che a mio parere può essere usato come un canone di interpretazione storica, come affermò ad esempio Benedetto Croce, indipendentemente dal suo irrigidimento dogmatico nei partiti comunisti.
[4] Sulla teoria della programmazione indicativa, un contributo recente è quello di J. Black, «The Theory of Indicative Planning», in Oxford Economic Papers, 1968, p. 272.
[5] Alberto Moravia ha illustrato efficacemente processi psicologici di questo genere nel racconto «Le parole sono pecore» (cfr. Alberto Moravia, Una cosa è una cosa, Milano, 1967, pp. 231-36).
[6] Ciò vale anche quando non si tratti di gestione diretta, o di partecipazione, in riferimento ad attività formali di governo, ma anche di situazioni economiche, di qualunque genere, dipendenti strettamente dalla situazione di potere.
[7] È’ corrente tuttavia l’affermazione contraria. Francesco Forte, ad esempio, afferma: «…un meccanismo di programmazione economica europea, una sua finanza fiscale e parafiscale e un sistema di istituzioni monetarie europee espressione di un coordinamento istituzionalizzato delle banche centrali (che pur mantengano la loro autonomia), potrebbero consentire alla CEE di rimanere, stabilmente, in questa situazione intermedia [tra lo Stato nazionale e lo Stato federale]» (cfr. Francesco Forte, Manuale di economica, Torino, 1970, p. 961). Ma io non riesco a scorgere i fondamenti teorici di questa affermazione. Cfr., per le fonti della mia interpretazione: Lionel Robbins, Economic Planning and International order (trad. it. L’economia pianificata e l’ordine internazionale, Milano, 1948) e Studies in Federal Planning, a cura di P. Ransome, Londra, 1943 (con saggi di Lord Lothian, Kenneth C. Wheare, Lionel Robbins, Barbara Wootton ecc.) e i noti lavori di Luigi Einaudi.
[8] Cfr. specialmente Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico e Per la pace perpetua (Immanuel Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, 1956).
[9] Molto interessante, anche se discutibile, a questo riguardo: Tomás Maldonado, La speranza progettuale, Torino, 1970. Sull’articolazione regionale della in funzione delle risorse del territorio, e degli sviluppi urbani attuali, cfr. Jean Gottmann, Essais sur l’aménagement de l’espace habité, Parigi, 1966. Sulla crisi dell’urbanistica, da un punto di vista di microsociologia urbana, cfr. Jane Jacobs, The Death of and Life of Great American Cities, New York, 1961 (trad. it., Vita e morte delle grandi città, 1969).
[10] Cfr., per questa definizione dello Stato federale, Kenneth C. Wheare, Federal Government, New York, 1946 (trad. it. Del governo federale, 1997).
[11] Questo nesso, che è dialettico nel senso materiale perché frutto del punto cui è giunta l’integrazione, si è ripresentato con la caduta di De Gaulle. Delle decisioni, dopo la recente conferenza dell’Aja, sono state prese al riguardo del «bilancio federale». Queste decisioni hanno riprodotto le speranze immotivate di allora. Che siano immotivate, quando non si tenga presente che un nesso dialettico scatena un processo solo attraverso l’emergenza di una contraddizione e il suo superamento, lo mostrano l’immutata difficoltà dei problemi di politica economica e la ritrovata pratica dei puri e semplici mercanteggiamenti nazionali in seno al Consiglio dei Ministri della CEE.
[12] Cfr., a proposito dei miti sulla formazione dell’Europa, Altiero Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Bologna, 1960.
[13] Cfr., per il contributo del Parlamento europeo (previsto dall’articolo 138) al problema elettorale europeo, e per i progetti di elezione unilaterale: Parlamento europeo (Direzione generale della documentazione parlamentare e dell’informazione), Per l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, settembre 1969 (s.i.d.l.).
[14] Per una informazione su questo progetto di legge di iniziativa i suoi problemi tecnici e le sue ripercussioni politiche, cfr. il fascicolo speciale de Il Federalista dal titolo Una elezione per l’Europa (1969, supplemento al n. 2).

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia