IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXI, 1989, Numero 3, Pagina 205

 

 

Robert Triffin e il problema economico del XX secolo*
 
GUIDO MONTANI
 
 
«Il dilemma fondamentale delle relazioni economiche internazionali del XX secolo risiede nell’inadeguatezza degli Stati nazionali sovrani come quadro delle decisioni politiche in un mondo interdipendente»
R. Triffin, Europe and the Money Muddle, 1957.

 

 
 
Introduzione.
 
Lo scopo di questa breve nota sull’opera di Robert Triffin non è quello di illustrare la carriera di un economista. Lo ha fatto mirabilmente egli stesso in un saggio pubblicato qualche anno fa[1]. L’intento è, invece, quello più limitato di richiamare l’attenzione su alcuni aspetti «essenziali» del suo pensiero, indispensabili per comprendere le caratteristiche strutturali del processo economico contemporaneo. E’ lo stesso Triffin a rilevare che nei suoi rapporti con gli ambienti politici e governativi si è trovato di fronte alla «necessità di ripetere infinite volte opinioni ed argomenti simili, ma essenziali, in conferenze e articoli destinati a molte, differenti platee»[2]. Siamo cioè di fronte all’opera di un economista impegnato in un confronto serrato con la classe politica ed i governi: egli è costretto a reinterpretare in continuazione gli accadimenti economici nel loro svolgimento storico per mostrare di volta in volta il loro rapporto col problema «essenziale» del nostro tempo.
L’opera teorica di Triffin non può dunque essere compresa a fondo se non viene posta in relazione al processo economico, con le sue specifiche caratteristiche storiche. Schumpeter, di cui Triffin è stato allievo ad Harvard, ha scritto che «l’oggetto dell’economia è esso stesso un unico processo storico». Una delle principali difficoltà dell’economia contemporanea consiste in effetti nell’identificazione di un significativo oggetto di studio. Le università abbondano di economisti tecnicamente capaci di utilizzare con perizia gli attrezzi del mestiere. Ma ciò non impedisce un grave distacco dell’economia accademica dalla realtà. Il vero dramma dell’economia e della politica contemporanee consiste nel fatto che una gran messe di produzione accademica si riduce a un vuoto esercizio, perché l’oggetto considerato è irrilevante ed i problemi decisivi risiedono altrove. Afferma giustamente Schumpeter che «la massima parte degli errori fondamentali comunemente commessi nell’analisi economica è dovuta alla mancanza di esperienza storica più che a qualsiasi altra deficienza nel corredo scientifico dell’economista»[3].
La grandezza di Triffin consiste proprio nel fatto che ha saputo individuare nella contraddizione fra il principio della sovranità nazionale e l’esigenza di un ordine mondiale sovrannazionale il problema economico fondamentale del nostro secolo e con ammirevole lucidità e tenacia, nel corso della sua lunghissima carriera, ha sempre cercato di mostrare che i principali problemi economici contemporanei sono generati, direttamente o indirettamente, dalla mancata soluzione di quel «fondamentale dilemma».
 
Il problema monetario internazionale.
 
Alla fine degli anni Cinquanta, in un momento di forte e costante crescita dell’economia mondiale, non era certo facile prevedere una progressiva erosione della leadership economica americana sul mondo occidentale. Oggi questo fatto è ammesso da molti osservatori. Ma non è forse eccessivo sostenere che si cominciò a prendere coscienza dell’esistenza di una vera e propria crisi del sistema monetario internazionale fondato sul dollaro come moneta di riserva solo a partire dalla pubblicazione di Gold and the Dollar Crisis[4]. Qui vengono per la prima volta denunciate con chiarezza le pecche di un sistema con cui si pensava di governare, per un lungo ciclo storico, l’espansione degli scambi commerciali e finanziari internazionali. Il «dilemma di Triffin», come venne successivamente definito, pose in luce, con cristallina evidenza, la difficoltà fondamentale di un ordinato funzionamento di una economia mondiale senza moneta mondiale. In breve, Triffin sostenne che «se gli Stati Uniti avessero corretto il loro deficit persistente della bilancia dei pagamenti, la crescita delle riserve mondiali non avrebbe potuto essere adeguatamente sostenuta dalla produzione di oro al prezzo di 35 dollari l’oncia, ma se gli Stati Uniti avessero continuato ad alimentare dei deficit, le loro passività esterne avrebbero ecceduto di molto la loro capacità di convertire, su richiesta, i dollari in oro e si sarebbe provocata una ‘crisi dell’oro e del dollaro’»[5].
Il «dilemma» non aveva solo un valore contingente. Alla sua formulazione Triffin era giunto dopo una profonda meditazione sulla natura dell’ordine economico internazionale e sulla sua evoluzione storica, a partire dalla originaria esperienza del Gold standard che aveva preceduto la prima guerra mondiale. Il sistema fondato sul dollaro, e le cui regole fondamentali erano state stabilite a Bretton Woods, non era che una variante del sistema ibrido, fondato sull’oro e sull’utilizzo di monete nazionali di riserva, che già si era sperimentato negli anni Venti, ma che era miseramente naufragato negli anni della Grande Depressione. La storia aveva già messo in luce le contraddizioni profonde che inevitabilmente si manifestano quando si ricorre a monete nazionali come strumento di riserva internazionale: si introduce in questo caso un meccanismo di «disequilibrio automatico» nel sistema monetario mondiale[6]. «Secondo questo sistema — afferma Triffin nelle sue ‘Conclusioni’ a Gold and the Dollar Crisis — si compensano delle riserve in oro insufficienti, con l’accumulazione crescente di monete chiave nazionali in quanto riserve internazionali. Inevitabilmente, una tale accumulazione viene concentrata sulle monete più ‘sicure’ dei grandi paesi creditori e il risultato è una importazione non giustificata di capitali. I paesi stessi che dovrebbero prestare agli altri prendono così inconsciamente a prestito dei capitali a breve termine. Questi movimenti di capitale non riducono la scarsità di oro, ma gli conferiscono solo l’aspetto di una mancanza di monete chiave. Per contribuire all’espansione desiderata di liquidità mondiale, questi movimenti devono stimolare delle esportazioni supplementari di capitali da parte dei paesi a moneta chiave o una diminuzione del surplus della loro bilancia corrente. Tuttavia, l’una o l’altra di queste reazioni non può che condurre a un deterioramento progressivo e permanente nelle loro riserve nette fino al momento in cui le loro monete non appaiono più come le più ‘sicure’ per l’investimento di riserve da parte degli altri paesi. Il rallentamento, l’arresto o il rovesciamento dell’accumulazione delle monete chiave come riserve mondiali, riporta allora in primo piano il problema di fondo della scarsità d’oro e impone, nel medesimo tempo, dei riaggiustamenti difficili della bilancia dei pagamenti per i paesi posti nel cuore del sistema»[7].
Non vale oggi forse nemmeno più la pena di sottolineare come questa analisi della situazione internazionale, fatta da Triffin nel 1959, sia stata puntualmente confermata dagli avvenimenti successivi. La fiducia internazionale nella solidità del dollaro si è progressivamente affievolita; verso la fine degli anni Sessanta sono cominciate attività speculative, specialmente sui mercati finanziari europei, e finalmente il 15 agosto 1971 il governo statunitense ha dichiarato l’inconvertibilità del dollaro in oro. L’epoca di Bretton Woods era finita ed iniziava la fase delle fluttuazioni monetarie, con un crescente disordine monetario e commerciale. La crisi petrolifera del 1973 e la diffusione dell’inflazione su scala internazionale non hanno rappresentato che alcune delle conseguenze più vistose di questo processo. Recentemente, a più di vent’anni di distanza dalla sua originaria analisi delle nefaste conseguenze del «dilemma», Triffin ha dovuto levare nuovamente la voce per denunciare le gravi disfunzioni di un sistema internazionale che consente al paese con il maggiore volume di produzione industriale (e di reddito pro-capite) di drenare risorse finanziarie dal resto del mondo, paesi sottosviluppati compresi. Si tratta di un vero e proprio «scandalo monetario mondiale»[8].
Per Triffin, si può rimediare a questo disequilibrio sistematico soltanto seguendo, anche al livello internazionale, la via che è già stata percorsa all’interno delle nazioni per garantire una piena fiducia del pubblico nella moneta, cioè la sostituzione della moneta merce con una moneta fiduciaria garantita da un «prestatore di ultima istanza». Nelle economie moderne, non è più pensabile che ci si affidi a meccanismi automatici di aggiustamento delle bilance dei pagamenti come si era fatto, grosso modo, con il Gold standard nel secolo scorso. I governi nazionali sono ormai vincolati al perseguimento di politiche per la piena occupazione e di elevati tassi di crescita. E se ogni governo persegue in piena indipendenza i suoi obiettivi nazionali è molto probabile, per non dire certo, che il sistema economico internazionale degeneri in un caos incontrollabile. D’altro canto, non vi è più alcun importante paese industrializzato che possa fare a meno di partecipare agli scambi internazionali: la progressiva mondializzazione del processo produttivo è ormai una realtà imposta dallo sviluppo della civiltà industriale. Per questo, i governi sono posti continuamente di fronte all’esigenza di consentire una maggiore convertibilità delle monete ed una maggiore libertà alla circolazione dei capitali. Ma, scriveva Triffin nel 1959, «non si può dare un significato politico alla convertibilità, se non considerandola come una nozione relativa, il cui risultato ultimo implicherebbe la rinuncia totale di ogni sovranità nazionale da parte dei paesi membri, di ogni forma di restrizione del commercio e dei pagamenti e persino dei tassi di cambio. Simili rinunce sono totalmente inconcepibili, ai nostri giorni, in favore di un semplice laissez faire del XIX secolo, poiché ignorano i livelli nazionali di occupazione e di attività economica. La negoziazione e la messa in atto di impegni di convertibilità essenzialmente negativi sono inseparabili da una negoziazione parallela e da una messa in atto di impegni positivi di integrazione fra i paesi in questione. Non si può fare affidamento sui mezzi d’azione della politica nazionale. Questi mezzi non possono essere sostituiti che da mezzi d’azione della politica internazionale o sovrannazionale, capaci di realizzare i grandi obiettivi di politica economica del mondo moderno»[9].
Nel dibattito contemporaneo sulla riforma del sistema monetario internazionale, queste tesi sulla necessità di creare un sistema mondiale di riserve, al limite una banca mondiale ed una moneta mondiale, sono ormai legate al nome di Triffin. Se escludiamo Keynes e Robbins — di cui parleremo fra poco — nessun altro economista moderno ha difeso con altrettanta coerenza e perseveranza questo indirizzo di riforma. Agli inizi del secolo K. Wicksell scriveva che «l’essenza di tutta l’attività bancaria è in realtà la concentrazione», ma poi si mostrava molto esitante ad estendere questo principio «nazionale» al quadro internazionale[10]. E, in anni più recenti, J. R. Hicks ha scritto che «con lo sviluppo del mercato mondiale e (in particolare) dei mercati finanziari mondiali, le banche centrali nazionali vengono declassate, divenendo singole banche in un sistema di dimensioni mondiali, non più ‘al centro’ come nel passato»[11]. Ma sono affermazioni occasionali che non riguardano mai un intero programma di ricerca scientifica e di riforme economico-sociali[12]. Il merito indiscutibile di Triffin è di aver posto il problema della moneta mondiale al centro delle sue riflessioni e dei suoi progetti di riforma. Per Triffin, la soluzione corretta del problema monetario, che dal punto di vista istituzionale è il primo dei problemi economici, deve coincidere col processo evolutivo dell’economia mondiale. Le altre soluzioni, come la semplice cooperazione fra banche centrali e governi, non sono che «palliativi», ovvero tentativi di trovare soluzioni formali a problemi che potrebbero essere risolti solo con la rinuncia sostanziale della sovranità monetaria. «La sostituzione della moneta merce con la moneta fiduciaria e quella delle riserve metalliche con le riserve fiduciarie — fa osservare saggiamente Triffin — riflette gli sforzi dell’uomo di controllare il suo ambiente, anziché esserne controllato, sia nel campo monetario sia negli altri settori. La sostituzione delle riserve fiduciarie nazionali con riserve fiduciarie internazionali dovrebbe essere similmente considerata come un aspetto dell’adeguamento delle precedenti istituzioni di controllo (tribali, feudali e nazionali) alle realtà in movimento di un mondo sempre più interdipendente. Entrambi i fenomeni dovrebbero essere considerati in una prospettiva storica più vasta: la lunga marcia dell’umanità verso l’unità e verso un miglior controllo del proprio destino»[13].
Difendendo questa soluzione tecnicamente ineccepibile del problema monetario internazionale, Triffin ha ottenuto il risultato di tracciare una netta linea di demarcazione fra i sostenitori della conservazione delle sovranità nazionali e coloro che vogliono progressi sostanziali sul terreno economico-sociale, grazie alla creazione di strumenti di governo sovrannazionali dell’economia. Si può naturalmente obiettare — e lo si fa ad nauseam — che la soluzione proposta è prematura e che bisogna trovare temporaneamente qualche altra scappatoia. Ma intanto la linea è tracciata. Le soluzioni transitorie, d’ora in avanti, dovranno essere giustificate alla luce del fondamentale orientamento enunciato da Triffin: consentono o impediscono all’umanità di progredire verso la sua unità monetaria, economica e politica?
 
Le unioni regionali.
 
Triffin, nel formulare la sua proposta di banca mondiale, è sempre stato ben consapevole delle difficoltà politiche immediate che ne ostacolavano l’istituzione. Per questo ha puntato, come tappa intermedia indispensabile, alla realizzazione di unioni economico-monetarie regionali. Il «dilemma fondamentale» non può essere risolto «nottetempo, attraverso una improvvisa e radicale trasformazione delle nostre istituzioni e dei nostri abiti mentali. L’ora del governo mondiale non è ancora alle porte… La cooperazione regionale, d’altro canto, ha molte più probabilità di riuscire nello sviluppare consuetudini di consultazioni e negoziazioni continue su un ampio fronte di responsabilità di governo; e può, se riesce, gradualmente evolvere verso una effettiva fusione di aree troppo piccole e troppo interdipendenti l’una nei confronti dell’altra per conservare il benessere e la sicurezza nazionali sulla base della sovranità nazionale esercitata nell’attuale contesto politico»[14].
Sul terreno delle unificazioni regionali, Triffin è riuscito a svolgere una funzione importante di stimolo, sia al momento della istituzione di alcuni organismi regionali di cooperazione economica, sia nella fase del loro rafforzamento. Decisive in proposito risultano l’esperienza dell’Unione europea dei pagamenti, il cui accordo divenne operativo nel 1950, ed il Sistema monetario europeo (SME), che rappresenta attualmente il progetto più avanzato di unione monetaria ed il cui esito finale verso la creazione di una reale moneta europea è in discussione. Meno fortunati, per ammissione dello stesso Triffin, sono stati i suoi tentativi di promuovere unioni economico-monetarie in America latina, in Asia e in Africa.
Naturalmente le proposte di unificazione regionale incontrarono serie opposizioni da parte di coloro che ritenevano che con questo orientamento si mettesse in discussione il principio del libero commercio internazionale. La creazione di un’unione economica, secondo alcuni economisti, avrebbe certo avuto l’effetto di «creare commercio» fra i paesi partecipanti all’impresa, ma avrebbe nello stesso tempo «dirottato il commercio» con paesi terzi verso i nuovi partners dell’unione. Il risultato netto avrebbe dunque potuto essere una diminuzione del volume del commercio internazionale nel suo insieme. Nel ricordare questi dibattiti, a distanza di molti anni, Triffin afferma con una punta di orgoglio: «Lasciatemi solamente dire che negli anni Cinquanta l’Unione europea dei pagamenti giocò un ruolo molto più importante rispetto al FMI nel far passare l’Europa occidentale dal bilateralismo alla convertibilità mondiale, e che gli accordi regionali di liberalizzazione commerciale dell’OECE e più tardi della Comunità economica europea, si sono certamente dimostrati ‘creatori di commercio’ piuttosto che ‘dirottatori di commercio’ come inizialmente temevano Jacob Viner, Gottfrid Haberler e tutti quanti»[15].
Merita, in questo contesto, esaminare in dettaglio il metodo o, se si preferisce, la strategia adottata da Triffin per la costruzione delle unioni regionali. Triffin ricorda con simpatia il lavoro svolto insieme a Jean Monnet nel Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa. Le analogie tra il metodo adottato da Monnet sul terreno politico e da Triffin su quello monetario sono evidenti. Resta fondamentale, in proposito, l’esperienza della costruzione della CECA. Nella situazione di estrema incertezza in cui versava l’Europa post-bellica, e di crescente tensione franco-tedesca, Monnet propose di affrontare la situazione internazionale globale a partire «da un punto limitato, ma decisivo». Nel suo Memorandum del 3 maggio 1950 al governo francese, Monnet scriveva: «Da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con un’azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi»[16]. In effetti, con la creazione della CECA è iniziata la collaborazione franco-tedesca e si è messo in moto il processo di unificazione europea, attraverso l’istituzione delle Comunità europee, che è ancora in corso.
Lo stesso approccio caratterizza l’azione di Triffin, a partire dell’Unione europea dei pagamenti. Nel valutare i risultati ottenuti, Triffin scrive nel 1957: «L’accordo sull’Unione europea dei pagamenti costituiva un documento semplice ed eccezionalmente chiaro, incorporante impegni agili e precisi di natura rivoluzionaria, che modificarono drasticamente, e da un giorno all’altro, l’intera struttura dei regolamenti intraeuropei dal bilateralismo al multilateralismo»[17]. In un articolo del 1953, dal titolo Système et politique monétaires de l’Europe Fédérée, Triffin delinea i criteri essenziali della sua strategia di unificazione monetaria regionale. L’idea-forza è quella di «integrazione monetaria». «Una moneta unica — scrive Triffin — costituisce il simbolo, più che la sostanza, dell’integrazione monetaria. Per quanto spettacolare sia, essa non rappresenta, sul piano economico, che una differenza del tutto secondaria in rapporto alla coesistenza fra monete nazionali liberamente intercambiabili a dei tassi fissi e invariabili. La moneta unica diventa allora possibile e relativamente facile da istituire. Ma ciò non può essere che il coronamento,e non il punto di partenza di un programma realistico e concreto d’integrazione monetaria»[18]. Corollario di questo approccio è l’idea delle «tappe» che devono progressivamente portare da un sistema di mercati relativamente chiusi ad una economia integrata. Queste tappe sono: 1) la creazione di un sistema multilaterale di pagamenti fra gli Stati membri dell’unione; 2) l’eliminazione dei controlli quantitativi degli scambi e del commercio; 3) la riduzione o l’eliminazione delle barriere doganali e la stabilizzazione delle parità monetarie; 4) il consolidamento definitivo dei tassi di cambio attraverso l’adozione di una moneta unica, che circoli inizialmente insieme alle monete nazionali, emessa da un organo centrale di carattere europeo. Triffin constata inoltre che tutti questi elementi si trovano in germe già riuniti nell’Unione europea dei pagamenti. «Non resta che ampliarli quantitativamente e progressivamente per fare dell’Unione una vera banca centrale europea e per fare dell’unità di conto una moneta europea unica» (che Triffin propone — nel 1953! — di chiamare écu).
Infine, Triffin precisa i rapporti fra integrazione monetaria e unificazione monetaria. «L’integrazione monetaria così definita — afferma — deve comunque precedere l’unificazione monetaria che sarà impossibile, e certamente impraticabile, senza di essa». Inoltre, l’unificazione monetaria completa è possibile solo nel contesto di un’unione politica, cioè di una federazione. «Nel quadro di una federazione politica, ci si può porre come scopo ultimo il consolidamento delle monete nazionali in una moneta unica europea. L’ostacolo più grave a una simile operazione è meno di ordine tecnico che di ordine politico. Essa presuppone in effetti l’accettazione definitiva di una autorità monetaria comune e la fiducia nella efficacia e nella continuità di rinunce adeguate di sovranità»[19].
A questo punto, occorre solo rilevare come Triffin sia rimasto fedele a questo metodo in tutte le circostanze in cui ha potuto influire sulle decisioni dei governi interessati a mettere in cantiere qualche forma di unificazione economico-monetaria. Le decisioni che hanno reso possibile l’istituzione dello SME sembrano, in effetti, ispirarsi alla saggezza del gradualismo: la stabilità dei cambi, un sistema di clearing europeo e il riferimento a una moneta-paniere che dovrebbe progressivamente trasformarsi in una vera e propria moneta europea. Resta, tuttavia, aperto il problema di quanto questo approccio sia efficace. L’Unione europea dei pagamenti non ha generato infatti alcuna unione monetaria. E gli accordi di Bruxelles sullo SME prevedevano la realizzazione di una seconda tappa — in pratica la Banca centrale europea — entro il 1981, ma non sono stati rispettati. Il rapporto fra integrazione e unificazione monetaria è certo un punto che merita di essere ulteriormente esplorato, perché le esperienze delle unificazioni monetarie regionali indicano probabilmente la via che dovrà essere percorsa, anche al livello mondiale, per una seria riforma del sistema monetario internazionale.
 
Triffin, Keynes e Robbins.
 
Il carattere innovativo del contributo teorico di Triffin può forse essere meglio valutato se messo a confronto con la concezione dell’ordine economico internazionale di due altri grandi economisti che lo hanno preceduto: John M. Keynes e Lionel Robbins.
Keynes può essere considerato l’ultimo importante esponente dell’internazionalismo liberale. Le sue opinioni sulle condizioni per un corretto funzionamento dell’economia internazionale sono sufficientemente significative. Egli è passato da una posizione critica del Gold standard, negli anni Venti, quando la Gran Bretagna si era illusa di poter sostenere la parità pre-bellica della sterlina, ad una posizione di aperto sostegno alle politiche protezionistiche ed autarchiche, negli anni della Grande Depressione[20]. La Teoria generale, che è stata concepita in questo contesto storico fortemente impregnato di nazionalismo economico, dedica solo pochi cenni ai rapporti fra piani nazionali per l’occupazione e piani internazionali. Ma questi pochi cenni sono sufficienti per desumere un atteggiamento di Keynes quanto mai favorevole all’autosufficienza ed alla semplicistica filosofia che «tutto ciò che è utile all’occupazione ed alla crescita interna è anche utile al progresso dell’economia mondiale»[21]. Il fatto che lo stesso principio fosse anche alla base delle politiche economiche del tipo beggar my neighbour, non viene nemmeno preso in considerazione. Eppure questa è grosso modo la linea di condotta che ispira gli economisti keynesiani contemporanei, che al più considerano i rapporti della propria nazione con il resto del mondo come dei «vincoli esterni». L’economia internazionale resta così una realtà priva di un governo razionale. Si accetta ormai come una verità indiscutibile il fatto che sia necessario governare l’economia interna al fine di raggiungere un livello soddisfacente di occupazione e di sviluppo. Ma che l’economia internazionale debba, nel suo insieme, essere diretta con strumenti di governo altrettanto efficaci, se si vogliono ottenere i medesimi risultati, è un problema che viene raramente discusso. Eppure giudicheremmo senza dubbio assurda la pretesa di raggiungere la piena occupazione all’interno di una nazione attraverso una serie di piani regionali non coordinati fra di loro e senza strumenti nazionali di politica economica.
Keynes si riscattò parzialmente da questa posizione riduttiva e conservatrice in occasione delle trattative che portarono alla conferenza di Bretton Woods ed alla fondazione dell’ordine monetario internazionale post-bellico. Sono note, in proposito, le sue proposte per una International Clearing Union e per la creazione di una moneta mondiale, il Bancor. A ciò Keynes fu indotto dalla circostanza che la Gran Bretagna ormai si trovava dissanguata dallo sforzo bellico e che, come potenza in declino, non poteva più pretendere che la sua moneta svolgesse un ruolo di riserva internazionale, ormai insidiato dal dollaro. L’unico modo di opporsi con qualche speranza di successo ad un puro e semplice passaggio di consegne tra Gran Bretagna e Stati Uniti era dunque quello di promuovere la creazione di un organismo monetario internazionale supra partes.
Le motivazioni che spinsero Keynes a proporre questo ambizioso piano tutto sommato hanno oggi un’importanza relativa (in verità, Keynes si batté fino all’ultimo per consentire alla Gran Bretagna di godere di qualche vantaggio imperiale). Va solo rilevato che la stessa logica attualmente sospinge i paesi del Terzo mondo a reclamare un nuovo ordine economico internazionale, con istituzioni monetarie e di piano supra partes (sovrannazionali), aperte cioè alla partecipazione di tutti i popoli e tutti gli Stati, indipendentemente dalla loro ricchezza o povertà relativa. E non è certo un caso che nel momento in cui l’URSS pone il problema della sua partecipazione piena agli organismi monetari e commerciali internazionali, riemerga di nuovo il progetto di un clearing e di una moneta mondiali, cioè le antiche proposte di Keynes oggi difese da Triffin[22].
In parecchie circostanze, Triffin si è richiamato al precedente della International Clearing Union e del Bancor ed in questo senso è giusto considerarlo come un continuatore dell’opera di Keynes sul piano internazionale, o meglio l’unico post-keynesiano che si ponga esplicitamente sul terreno della costruzione di un nuovo ordine internazionale democratico. Tuttavia, la differenza fra Triffin e molti altri economisti che si definiscono keynesiani è netta. A livello internazionale non esiste assolutamente alcuna possibilità di governare razionalmente l’economia se non si avanza sul terreno istituzionale. La cosiddetta cooperazione intergovernativa (oggi tanto di moda, perché pubblicizzata dai vertici internazionali) lascia esattamente le cose come stanno: si riconosce la necessità di una politica comune ma poi ogni paese fa quel che più gli conviene. Si pensi di nuovo ad una conferenza di responsabili di piani regionali: quante probabilità vi sono che dopo una simile conferenza si giunga ad un piano nazionale coerente e, soprattutto, ammesso che si riesca a definire questo piano, quante probabilità vi sono che esso venga realizzato senza strumenti nazionali di governo? Vale la pena, per comprendere come la pensano in proposito certi economisti, di citare ancora una volta Triffin. «Il Professor Haberler, per esempio, ama rilevare che gli impegni internazionali sarebbero inutili se ciascun paese ‘tenesse la propria casa in ordine’. Ha perfettamente ragione, naturalmente; ma questo eccellente consiglio mi sembra basato sul più accademico e utopistico degli assunti, quello cioè che ciascun governo seguirà sempre risolutamente la politica migliore, senza essere ostacolato né dai propri errori né dall’azione di altri. La necessità di accordi istituzionali deriva precisamente da un assunto opposto e, a mio avviso, più realistico: l’ineluttabilità di insuccessi occasionali o frequenti da parte dei governi nel porre in atto le politiche migliori per il proprio e per gli altri paesi»[23].
Se il rapporto tra il pensiero di Triffin e quello di Keynes è problematico, problemi ancora maggiori nascono nei confronti di L. Robbins. Eppure il riferimento all’opera di Robbins, Economic Planning and International Order[24], comparsa quasi contemporaneamente alla Teoria generale, è essenziale per comprendere il contesto politico in cui i progetti di unificazione monetaria di Triffin si collocano e, quindi, anche le condizioni per il loro successo od eventuale insuccesso. Robbins, di fronte alla crescente ondata di nazionalismo economico che ha caratterizzato gli anni della Grande Depressione, contrappone l’alternativa di un ordine economico fondato su istituzioni internazionali democratiche, vale a dire federali. Le tradizionali correnti di pensiero che si richiamavano al liberalismo ed al socialismo internazionali sono fallite miseramente di fronte all’impresa di garantire un ordinato sviluppo dell’economia internazionale. In un mondo di governi sovrani e non coordinati tra di loro il risultato più probabile è l’anarchia, non l’ordine. Per questo Robbins si è proposto di applicare le soluzioni istituzionali, difese dagli autori del Federalist al momento della lotta per la ratifica della Costituzione americana, alle condizioni di anarchia internazionale del XX secolo. Da Robbins vengono individuate, per la prima volta e con grande chiarezza, le istituzioni indispensabili al governo democratico di una economia internazionale. Fra queste, la principale è la moneta. In sostanza, afferma Robbins, senza una moneta unica, in una economia moderna il mercato è impossibile. Dunque, e per la medesima ragione, è impossibile un ordine economico internazionale senza una moneta mondiale.
In questa sede siamo particolarmente interessati all’analisi, fatta da Robbins, degli aspetti di potere della moneta. Essa è necessaria per comprendere la differente natura dei fenomeni di integrazione monetaria in un sistema confederale di Stati e in una federazione. Nella confederazione i singoli governi conservano intatta la loro sovranità: la confederazione non fa altro che sancire una convergenza delle ragion di Stato intorno ad una esigenza comune (come era successo alle tredici colonie americane quando si allearono contro la madrepatria). Nella federazione alcune competenze, come la moneta e la politica estera, vengono affidate dagli Stati membri al governo federale. Ebbene, fa osservare Robbins, in una confederazione, anche ammesso che si giunga ad un accordo sui cambi e sulla libera circolazione dei capitali, non vi è mai la certezza che l’integrazione monetaria così realizzata possa resistere nel tempo. «Il fattore politico agisce tanto positivamente quanto negativamente. Quando l’area del sistema di riserva locale coincide con l’area su cui si esercita la sovranità politica, allora esiste il grave pericolo che, in caso di tensione, le autorità del sistema siano messe nell’impossibilità di prendere le misure necessarie per ristabilire l’equilibrio. Esse possono ricevere il divieto di autorizzare la contrazione del credito locale, ovvero — cosa ancora più probabile in una società in evoluzione — il divieto di opporsi a che il credito si estenda con la stessa velocità che altrove. L’area di tensione coinciderà con l’area delimitata dalla volontà dell’autorità amministrativa. Ed è probabile che questa volontà venga esercitata»[25].
La distinzione tra situazione confederale e federale è dunque preziosa per giudicare le possibilità di sbocco verso l’unificazione monetaria del fenomeno che Triffin definisce «integrazione monetaria». L’esperienza della storia ha mostrato che nelle federazioni (come gli USA, il Canada, la Svizzera, ecc.) l’unione monetaria è un fatto altrettanto probabile quanto negli Stati unitari. Lo sviluppo delle moderne economie industriali sarebbe del resto impensabile senza l’unione monetaria. Nelle situazioni confederali (come le esperienze di mercato comune in America latina e in Europa) i tentativi di integrazione monetaria non hanno avuto successo, nel senso che non hanno avuto alcun sbocco in una unione monetaria vera e propria. In sostanza, i governi accettano accordi monetari perché non ne possono fare a meno, ma lo fanno nel tentativo di salvare la propria sovranità nazionale, non per giungere all’unione. Questo è stato, ad esempio, il caso dell’Unione europea dei pagamenti, che è sorta nel contesto del Piano Marshall e sotto la leadership statunitense. Sembra dunque legittimo affermare, nell’esaminare i tentativi di unione monetaria sperimentati sinora, che la vera difficoltà risieda nel contesto politico che accompagna il tentativo. La condizione del successo è che a fianco del processo di integrazione monetaria si attivi un processo di unificazione politica.
Questa sembra essere la situazione attuale della Comunità europea, e pertanto occorre fare una netta distinzione fra la natura dello SME e dell’Ecu e i precedenti tentativi. Come ha chiarito Triffin più volte, non è pensabile che nelle complesse economie contemporanee, in cui la politica monetaria gioca un ruolo importante, nel bene e nel male, rispetto ai volumi di occupazione e alla crescita produttiva, gli Stati membri di una unione possano rinunciare alla loro sovranità monetaria senza che contemporaneamente un altro organismo politico, il governo federale democratico, si prenda carico della gestione degli affari economici. Vi può essere una fase di incertezza durante la transizione. Ma il punto di arrivo del processo è chiaro: l’unione monetaria è possibile solo nel contesto di una federazione di Stati. La Comunità europea, con un Parlamento eletto a suffragio universale, e dopo il tentativo federalista di trasformarla in un’Unione europea, si trova esattamente nella situazione descritta: essa è una confederazione in cui le spinte per la realizzazione di una effettiva democrazia europea (dunque di un governo europeo) si sono già manifestate ed è presumibile che si manifesteranno ancora nel futuro, perché mantenere un Parlamento democraticamente eletto privo di poteri reali è uno scandalo che diventerà alla lunga intollerabile per tutti i partiti democratici europei e per l’opinione pubblica.
Queste osservazioni, anche se non servono a risolvere sul piano teorico il contrasto che ha diviso, negli anni Cinquanta, i promotori della costruzione dell’Unità europea in seguaci del metodo funzionalistico e seguaci del metodo costituente[26], consentono almeno di affermare che sul terreno dei fatti e dei progetti concreti, in Europa oggi non vi è più alcuna contraddizione fra chi propone avanzamenti sul terreno dell’integrazione monetaria e chi propone avanzamenti sul terreno costituzionale (le riforme dei Trattati di Roma in senso democratico). Ogni passo in avanti in una direzione rafforza, perché la rende necessaria, l’altra azione: chi vuole la moneta europea deve volere il governo europeo e chi vuole il governo europeo deve volere anche la moneta europea.
Infine, va detto che il processo in corso di unificazione europea contiene anche preziose indicazioni sull’azione che deve essere condotta a livello mondiale per avviare una seria riforma del sistema monetario internazionale e giungere, in prospettiva, alla moneta mondiale. La moneta europea è diventata un traguardo sempre più a portata di mano nella misura in cui si è cominciato a sviluppare un embrione di democrazia europea. Analogamente, la moneta mondiale diventerà un obiettivo realistico quando si manifesteranno su scala mondiale i segni di un attivo processo favorevole alla democrazia internazionale. Naturalmente, in un mondo ancora diviso e governato dalle superpotenze questo traguardo sembra lontanissimo. Ma ciò che importa sono le direzioni di marcia. Un attivo processo di distensione internazionale e di cooperazione fra regioni ricche e povere del mondo può essere grandemente facilitato dalla costituzione di unioni regionali su scala continentale, come sta del resto avvenendo in Europa, in America latina e persino in Africa (OUA) e Asia (ASEAN). Anche sul terreno politico, le intuizioni di Triffin si dimostrano dunque perfettamente corrette. I processi regionali di unificazione non sono affatto un ostacolo alla più vasta unità del genere umano. Viviamo nel secolo in cui si manifesta l’esigenza di creare strumenti di governo per una società la cui dimensione di vita è ormai l’intero pianeta Terra. Per quanto riguarda gli affari economici e monetari, questa esigenza si deve tradurre in una riforma che basi la costruzione della moneta mondiale su un paniere di solide monete continentali, come il Dollaro, l’Ecu, il Rublo, lo Yen, ecc. E’ certo un obiettivo ambizioso e lontano. Per molti politici queste sono ragioni sufficienti per non occuparsi del problema e per cercare soluzioni più accomodanti. Ma per chi, come Jean Monnet e Robert Triffin, pensa che «la politica non sia l’arte del possibile, ma l’arte di rendere possibile domani ciò che sembra ancora impossibile oggi», la via è tracciata.
 
Un economista per la pace.
 
Gli importanti risultati conseguiti da Robert Triffin, sia sul terreno scientifico sia su quello della politica economica attiva, non sarebbero stati possibili senza una ferma adesione ad alcune direttive morali, che devono qui essere ricordate non tanto per farne un elogio personale, ma perché mostrano quanto stretto sia il rapporto fra attività conoscitiva dello scienziato sociale, motivazioni morali e processo storico.
Qualsiasi studioso non può fare a meno di porsi la fondamentale questione weberiana del rapporto fra fatti e valori. «Ogni conoscenza concettuale della infinita realtà da parte dello spirito umano finito poggia infatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e perciò risultare essenziale nel senso di essere degna di venir conosciuta»[27]. La scelta dell’oggetto di studio, l’esame di ciò che è essenziale e degno di venir conosciuto e ciò che non lo è, è il rapporto del singolo con la storia. Su questo terreno fondamentale la scelta di Triffin si rivela esemplare. «Ho vissuto da bambino — così racconta nella sua breve nota autobiografica — l’occupazione tedesca in Belgio durante la prima guerra mondiale e ho condiviso per anni l’odio generale per i Boches, piangendo insieme alla mia famiglia la morte al fronte di alcuni giovani soldati acquartierati nella nostra casa e ovviamente non colpevoli dell’uragano abbattutosi su di noi. A Lovanio, tuttavia, l’ascesa del partito hitleriano, gli insegnamenti di Einstein e così via mi avevano ispirato profondi sentimenti pacifisti. Intravvedevo il modo migliore di mantenere fede a questi ideali nell’ambito di una carriera economica unendomi al rarefatto gruppo di esperti delle banche centrali che svolgono in effetti un ruolo essenziale nella vita economica di ciascun paese e sono costretti a prendere decisioni costruttive che trascendono i confini politici obsoleti — in sedi quali la Società delle Nazioni, a quell’epoca, o la Banca dei regolamenti internazionali — su questioni di interesse generale quali l’oro e i tassi di cambio. La vita a Harvard mi aveva condotto in una direzione totalmente diversa, ma quando si presentò l’occasione di entrare nella Riserva federale, la colsi subito, dimenticando volentieri la concorrenza monopolistica e la teoria pura. Né lo ho mai rimpianto»[28].
Naturalmente, la sua attività di consulente economico lo portò a contatto con la ragion di Stato e il potere politico, che per definizione sino a che non sarà realizzata la Federazione mondiale — mira a subordinare ai propri interessi di parte la verità e la scienza. Ma ecco come reagisce Triffin: «Ricorderò sempre i commenti del professor Rappart, presidente di una conferenza di economisti francofoni, cui nel 1949 avevo presentato uno schema del mio progetto di un’Unione europea dei pagamenti. Dopo aver espresso il suo apprezzamento, accarezzandosi la bianca barba, aggiunse: ‘Lei è di gran lunga troppo ottimista, giovanotto. Quando avrà raggiunto la mia età, avrà imparato che simili proposte non possono essere accolte in un negoziato che coinvolge tanti governi e interessi nazionali contrapposti’. Risposi: ‘Se la mia principale preoccupazione fosse quella di fare previsioni sicure, sarei d’accordo con lei e avrei ragione nove volte su dieci. Ma preferisco aver torto nove volte su dieci, se una volta su dieci mi è dato di contribuire ad allontanarci dalla catastrofe e a edificare un futuro migliore’»[29]. Triffin racconta un altro episodio significativo: quando si pose per suo figlio il problema di entrare nel Dipartimento di Stato, egli lo consigliò di acquisire prima uno status accademico che gli consentisse «di rinunciare al proprio impiego piuttosto che seguire ‘istruzioni’ che reputasse contrarie ai suoi più profondi ideali». E come cittadino del mondo, fedele ai suoi ideali cosmopolitici, Triffin considera un tradimento lo slogan «Right or wrong, my country». Chi serve gli interessi dell’umanità non si piega alle pretese della ragion di Stato nazionale.
In definitiva, Triffin ha saputo tenere con coerenza, per lunghissimo tempo, il fronte di battaglia difficilissimo della moneta mondiale non solo perché lo ha scelto come problema «degno di venir conosciuto», ma anche perché lo ha considerato un obiettivo «degno di venir perseguito». «Hier stehe ich, ich kann nicht anders»[30]. Se un numero sempre maggiore di giovani economisti seguirà il suo esempio, la lotta per la moneta mondiale e l’unità politica del genere umano potrà essere vinta.


* Relazione presentata al Jubilee Robert Triffin: Evolution of the International and Regional Monetary Systems (Bruxelles, 8-9 dicembre 1988).
[1] «An Economist’s Career: What? Why? How?», in Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, 1981; trad. it. «La carriera di un economista: che cosa? perché? come?», in Moneta e credito, 1981, pp. 243-263.
[2] Op. cit., p. 252.
[3] I passi citati si trovano a p. 7 e a p. 16 di J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, vol. I, Torino, Boringhieri,1959 (trad. it. di History of Economic Analysis, Oxford University Press, 1954).
[4] R. Triffin, Gold and the Dollar Crisis: The Future of Convertibility, New Haven, Yale University Press, 1960; qui citato nella edizione francese L’or et la crise du dollar, Paris, PUF,1962.
[5] R. Triffin, «Gold and the Dollar Crisis: Yesterday and Tomorrow», in Essays in International Finance, New Jersey, Princeton University, 1978, p. 2.
[6] L’or et la crise du dollar, cit., p. 98.
[7] Ibidem, pp. 167-8.
[8] R. Triffin, The World Monetary Scandal: Sources… and Cures?, Bulletin de l’lRES n. 77, Université Catholique de Louvain, 1982.
[9] L’or et la crise du dollar, cit., p. 169.
[10] K. Wicksell, Lectures on Political Economy, London, Routledge & Sons, 1934; trad. it. Lezioni di economia politica, Torino, UTET,1966, p. 369. A pagina 373 Wicksell afferma, a proposito del funzionamento della «banca ideale», che «almeno teoricamente, l’oro potrebbe facilmente essere sostituito dal credito, tanto per i bisogni interni quanto per i pagamenti internazionali di qualsiasi ammontare, e che riserve grandi e sempre crescenti di oro in forma monetaria, accumulate con tanta fatica e con tanta pena, sono inutili e superflue».
[11] J.R. Hicks, Critical Essays in Monetary Theory, Oxford, Oxford University Press, 1967, p. 60.
[12] Una eccezione dovrebbe forse essere fatta per Jan Tinbergen, che in Reshaping the International Order (Amsterdam, Elsevier, 1976) propone un piano per la riforma dell’ordine internazionale fondato su «una sovranità planetaria». Una proposta articolata di «governo federale mondiale», con poteri necessari per garantire la sicurezza e la giustizia internazionali, è contenuta nel più recente lavoro di Tinbergen (in collaborazione con D. Fischer), Warfare and Welfare. Integrating Security Policy into Socio-Economic Policy, Sussex, Wheatsheaf Books, 1987.
[13] R. Triffin, Our International Monetary System, New York, Random House, 1970; trad. it. Il sistema monetario internazionale. Ieri, oggi e domani, Torino, Einaudi, 1973, p. 178.
[14] R. Triffin, Europe and the Money Muddle, New Haven, Yale University Press, 1957, pp. 303-4.
[15] R. Triffin, Gold and the Dollar Crisis: Yesterday and Tomorrow, cit., p. 14. L’espressione «tutti quanti» è in italiano nel testo.
[16] Il Memorandum Monnet è stato pubblicato da Le Monde il 9 maggio 1970.
[17] R. Triffin, Europe and the Money Muddle, cit., p. 161.
[18] R. Triffin, «Système et politique monétaires de l’Europe Fédérée», in Economia Internazionale, febbraio-marzo 1953, p. 207.
[19] R. Triffin, ibidem (i passi citati si trovano alle pp. 211 e 212).
[20] Cfr. l’articolo «National Self-Sufficiency», del 1933; ora pubblicato in The Collected Writings of J.M. Keynes, London, Macmillan, 1982, Vol. XXI, pp. 233-247.
[21] Si veda in proposito il passo della Teoria Generale in cui si afferma che «è la politica di un saggio autonomo di interesse, non vincolata da preoccupazioni internazionali, e di un programma nazionale di investimenti diretto ad un livello ottimale di occupazione interna che è doppiamente benedetta, nel senso che aiuta noi medesimi e i nostri vicini al tempo stesso» (Collected Writings, cit., Vol. VII, p. 349).
[22] «…il Fondo monetario internazionale — o qualsiasi altra istituzione che lo sostituirà — dovrebbe acquisire la funzione di una banca centrale che regoli la dimensione e la composizione delle sue riserve di liquidità ed assuma la funzione di clearing house interstatale. E’ noto che l’origine di questa idea e la sua attiva propaganda è legata soprattutto al nome del professor Triffin…» (D. V. Smyslov, The International Monetary System: Evolution, Prospects and Cooperation between East and West, The Institute of the World Economy of the USSR Academy of Sciences, mimeo, 1987).
[23] R. Triffin, La carriera di un economista: che cosa? perché? come?, cit., p. 257.
[24] London, Macmillan, 1937 (ristampato da Amo Press, New York, 1972).
[25] La citazione italiana è tratta da L. Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 92-93.
[26] Si veda in proposito il saggio di A. Spinelli, «Il modello costituzionale americano e i tentativi di unità europea» (1957), ora in Il progetto europeo, Bologna, Il Mulino,1985. Sul medesimo problema, si veda inoltre M. Albertini, «L’unificazione europea e il potere costituente», in Il Politico, 1986, n. 2, pp. 199-214.
[27] M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, p. 85.
[28] La carriera di un economista, cit., p. 246.
[29] Ibidem, p. 251.
[30] Si tratta della famosa affermazione di Lutero: «Qui sto, non posso altrimenti».

 

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