IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXI, 1989, Numero 3, Pagina 242

 

 

ISTERISMO USA E EUROISTERISMO*
 
IRA L. STRAUS
 
 
L’Alleanza atlantica è minacciata da una duplice forma di isterismo. Mentre in passato, ai suoi inizi, essa era fonte di sicurezza reciproca, da qualche tempo si vanno accumulando ai due lati dell’Atlantico accuse vicendevoli. Gli atteggiamenti negativi di una parte vengono immediatamente avvertiti dall’altra, e sorgono sospetti reciproci. E l’attuale assetto politico, che confina ogni serio dibattito pubblico all’interno dei singoli paesi alleati, non fa che acuire il problema.
Inizierò con l’America.
 
Isterismo USA.
 
Gli Stati Uniti sono improvvisamente piombati in uno stato di isterismo nei confronti dei loro alleati. Si tratta di una reazione a scoppio ritardato al declino, in corso ormai da diversi decenni, della loro leadership sugli alleati, scatenata in questo momento da timori sulla loro posizione economica a livello mondiale, timori che rinnovano la sensazione di decadenza latente dai tempi della guerra in Vietnam. Ne è nato un dibattito melodrammatico e di vastissima eco sul «tramonto dell’ impero americano», circondato da un alone di apparente credibilità grazie ad un best-seller del prof. Paul Kennedy, i cui straordinari salti logici e le cui contraddizioni non sembrano scalfire l’entusiasmo dei lettori che arrancano lungo le settecento pagine della sua prosa.
Dal 1980 gli Stati Uniti sono cresciuti economicamente rispetto ai loro alleati (Europa, Giappone, ecc.) considerati globalmente[1]: eppure quasi tutti gli Americani sono convinti del contrario. Partendo da questa premessa assolutamente errata, essi accusano gli alleati di aver danneggiato l’economia statunitense attraverso pratiche commerciali sleali, di aver sfruttato la garanzia degli Stati Uniti ottenendo una difesa senza sopportarne i costi e concentrandosi in tal modo sulla crescita economica, e ora addirittura di «comperare in blocco» l’America. (La maggior parte degli Americani resterebbe assolutamente di stucco se avesse sentore del fatto che gli Europei durante questo decennio hanno accusato gli Stati Uniti di aver rovinato l’economia dell’Europa prosciugando i capitali di investimento europei per finanziare il deficit del bilancio americano). La infondatezza, dal punto di vista economico, della tesi americana non ne rallenta la diffusione. Va di moda l’atteggiamento di «prendersela innanzitutto con gli alleati», specialmente tra coloro ai quali si rimproverava di «prendersela innanzitutto con l’America».
Questo «isterismo USA» sta trascinando gradino per gradino l’America, come una sonnambula, sempre più in basso, sul terreno universalmente paventato di una rottura sulla ripartizione degli oneri e di una guerra commerciale.
Le dispute sulla ripartizione degli oneri sono notoriamente la tomba delle alleanze. Esse sono irrisolvibili nel contesto della sovranità nazionale. L’Europa sta già spendendo somme ingenti per la difesa, in parte mascherate dal basso costo degli eserciti di leva. Se l’Europa e l’America pagassero una imposta sul reddito, proporzionale e comune, per la difesa, per creare un esercito comune, reclutato e retribuito con i medesimi criteri, il costo sarebbe più o meno quello attuale. Ma fino a quando l’Europa resterà militarmente non integrata, le sue capacità militari e il suo impatto globale saranno di gran lunga inferiori, indipendentemente dall’ammontare delle spese per la difesa, e il Congresso l’accuserà di non spendere abbastanza, tenendo in scarso conto la realtà dei fatti. Se il Congresso attuerà le sempre più frequenti minacce di ritirare le forze USA, è assai probabile che l’alleanza naufraghi tra le recriminazioni. E questa sarebbe una perdita catastrofica per l’effettiva posizione di potere degli Stati Uniti nel mondo.
Una guerra commerciale, iniziata contro il Giappone, con ogni probabilità si allargherebbe rapidamente all’Europa, e gli alleati sarebbero indotti a considerare la produzione e la prosperità altrui come un pericolo, e non come un patrimonio comune. Ciò renderebbe ridicole e vuote le affermazioni di rito di mutuo impegno nella NATO, e potrebbe anche condurre alla fine dell’alleanza.
E tuttavia, se si confermeranno le attuali tendenze nel dibattito che coinvolge la nazione americana, una futura guerra commerciale è tutt’altro che improbabile. E il Giappone viene già descritto come il maggiore nemico dell’America a livello internazionale.
Il protezionismo si è in una certa misura attenuato dall’ottobre 1987, quando il crollo della borsa — provocato dal timore di una guerra commerciale — venne visto dal Congresso come un segnale di allarme. Ma l’umore latente della nazione si è inasprito a tal punto che le conseguenze a lungo termine rischiano di essere gravi. Il Congresso ha già inserito nel nuovo disegno di legge sul commercio elementi sostanziali di «protezionismo procedurale», vale a dire procedure che non consentiranno ai presidenti che un assai ridotto margine di manovra per evitare di seguire politiche rigidamente protezionistiche. La tregua rispetto alle conseguenze dell’isterismo non può essere fonte di compiacimento, ma offre spazio e motivo per intervenire cautamente sulle radici profonde di tale atteggiamento.
Le radici profonde del protezionismo procedurale vanno individuate nel fatto che le vertenze economiche e l’aggregazione di interessi si snodano in gran parte attraverso canali nazionali. Il Congresso stesso, con i suoi metodi campanilistici di aggregazione degli interessi locali, è strutturalmente incapace di perseguire coerentemente il reale interesse della nazione americana, attraverso il raggiungimento e l’attuazione di accordi a vasto raggio con i suoi partners all’estero. Il protezionismo procedurale è solamente un aspetto, un sottoinsieme delle procedure nazionali per la soluzione di problemi internazionali. Ciò indica chiaramente cosa occorre per sostituire le procedure protezionistiche con procedure di libero commercio: procedure congiunte sufficientemente forti da condizionare il dibattito economico e le decisioni politiche.
Il concetto che gli alleati, in campo economico, vadano trattati come nemici stravolge la tradizione americana di amicizia con i partners. L’America ha raggiunto successi diplomatici senza precedenti grazie alla sua ineguagliata capacità di riconoscere nella prosperità e nel progresso dei popoli amici un elemento della sua prosperità e del suo progresso. Questa tradizione è una delle ricchezze della nazione americana, che la eleva al di sopra del consueto, perdente approccio al mondo. Ora, col suo eccessivo timore della decadenza, l’America è sul punto di ipotecare tale ricchezza in favore del meschino spirito di gelosia che ha già determinato il declino di Stati mediocri.
La gravità di questo atteggiamento risulta più evidente se si considera che una sterile politica di potenza non è mai stata una delle scelte concrete fatte dagli Americani: le due scelte effettive sono state l’isolazionismo rispetto alla politica di potenza globale (mitigato dal fatto di aver tenuto alta la fiaccola della democrazia e del federalismo dinanzi al mondo, consentendo nel contempo il perseguimento di interessi più particolari) e il coinvolgimento nelle lotte per il potere a livello mondiale, laddove l’obiettivo era la democrazia federale (obiettivo concepito più o meno chiaramente, a livello regionale o globale, imminente o futuro). Ciò spiega perché le grandi ondate del coinvolgimento americano nelle lotte mondiali hanno coinciso con la nascita e con l’azione di movimenti federativi quali la League to Enforce Peace e Federal Union, e hanno condotto alla Società delle Nazioni, alle Nazioni Unite e (acquisendo finalmente una certa forza effettiva) al Piano Marshall, alla NATO, all’OCSE, all’Assemblea atlantica, ai Vertici G-5, G-7… L’ipotesi di una partnership tra popoli liberi, assieme all’obiettivo di unione definitiva che giustifica tale ipotesi, ha richiesto una visione ottimista, ma non per questo poco realista, del ruolo dell’America a livello mondiale; essa è incompatibile con lo spirito cupo e pessimista dell’inevitabilità del tramonto, da gestire attraverso manovre legate alla balance of power. Poiché è proprio il concetto di partnership che ha reso possibile il sostegno dell’America alla Federazione europea, i federalisti europei sono profondamente interessati alla sua sopravvivenza: se esso venisse meno, l’America ritornerebbe agli atteggiamenti tradizionali di divide et impera[2] tipici della balance of power.
 
La convinzione della decadenza: una nuova fase nella crisi della sovranità nazionale americana.
 
La nuova convinzione del paese circa «il tramonto americano» indica che la crisi del pensiero politico in America è entrata in una nuova fase. E’ facile dimostrare che tale convinzione è un abbaglio, addirittura una sorta di isterismo nazionale; ma abbagli e reazioni isteriche sono inevitabili quando il pensiero politico è dominato dalle categorie tipiche degli Stati nazionali, mentre i reali interessi trascendono i confini nazionali.
La degenerazione del pensiero politico nazionale era stata da lungo tempo prevista dai federalisti, data la crescente interdipendenza tra gli Stati, i cui problemi non possono più essere risolti dal potere o dalla politica nazionali, e dato che il dibattito politico è condizionato dalla lotta per conquistare il potere nello Stato e per indirizzare la politica nazionale. Le scelte politiche per affrontare problemi di sempre maggiore gravità passano attraverso istituzioni incapaci di risolverli, e creano distorsioni ancora maggiori nel pensiero politico, fino all’isterismo. Questa crisi ha ora colpito l’America.
La sensazione di decadenza, di aver sfruttato fino in fondo le risorse nazionali, scaturisce dal divario strutturale tra pensiero politico nazionale e problemi internazionali, e contribuisce a sua volta ad aumentare il divario: fino a quando i rimedi si tentano solo nell’ambito della politica nazionale, essi sono destinati al fallimento, e spingono gli Stati a oscillazioni maniaco-depressive. I paesi assumono atteggiamenti distruttivi, e autodistruttivi, nella loro ricerca della «rigenerazione nazionale». Ed è ciò che conduce alla vera decadenza, come è accaduto in Germania e in Giappone durante la prima metà del secolo.
Una reale rigenerazione è possibile solo procedendo verso un livello transnazionale. Dal 1945, il sistema dell’alleanza atlantica e con i paesi del Pacifico ha ridotto la fiducia nell’azione nazionale, in parte rigenerando la leadership del mondo democratico, e in parte ripristinando il dominio della ragione. La fragilità di questo sistema di alleanza è la fragilità stessa della ragione. La svolta nel dibattito sul tramonto dell’America verso la colpevolizzazione dei suoi principali alleati, come se essi costituissero la maggiore minaccia per gli Stati Uniti a livello mondiale — un orientamento palesemente perdente, platealmente distruttivo del reale potere e dell’influenza dell’America — è un avvertimento che la ragione è ancora una volta sul punto di cedere all’isterismo.
Considerato dal lato positivo, il dibattito sul tramonto dell’America ha reso gli Americani consapevoli del fatto che gli Stati Uniti non possono più sostenere da soli le passate speranze di grandezza. Il declino dell’egemonia postbellica dell’America sull’Europa e sul Giappone, che risale a decenni orsono, sta ormai facendosi sentire anche all’interno. Ciò offre agli Stati Uniti due possibilità reali: legarsi più saldamente a coloro che condividono le loro aspirazioni, o accantonare le proprie speranze, attaccando aspramente gli alleati nel vano tentativo di recuperare la leadership unilaterale. La crisi della politica nazionale, una crisi la cui gravità in Europa ha indotto molti attenti federalisti di vari paesi a ritenere che, per risolverla, occorra partire dall’Europa stessa, è ora maturata e si è acuita anche negli Stati Uniti. Si è fatta urgente una esplicita presa di posizione a favore della creazione di vincoli più stretti fra gli alleati, e un’unione effettiva nel prossimo futuro è ormai necessaria per evitare reazioni nazionaliste di retroguardia nei confronti dei problemi, nonché per dare forza al sistema di alleanza dal quale dipende il futuro dell’America.
 
Euroisterismo.
 
L’euroisterismo è il sospetto poco razionale e il pesante cinismo che molti Europei mostrano nell’interpretazione della politica e delle scelte degli Stati Uniti, ad esempio le accuse mosse all’America di voler trascinare l’Europa in guerra sia quando installò i missili a medio raggio, sia quando decise di smantellarli. Le cause di questo atteggiamento vanno ricercate nell’insofferenza alla dipendenza dagli Stati Uniti, e nella impossibilità di credere fino in fondo che una potenza straniera, caratterizzata da processi differenti di aggregazione degli interessi e di elaborazione delle decisioni, possa difendere interessi vitali altrui come se fossero propri. La conseguenza è che l’Europa non sa più quali siano le sue reali necessità e le sue opportunità per quanto riguarda le relazioni atlantiche. Questo atteggiamento sta ora conducendo la Germania, passo dopo passo, come in trance, proprio sul sentiero che essa teme maggiormente: la denuclearizzazione e forse la neutralità.
Dal 1980 gli atteggiamenti isterici sono stati stimolati dal declino economico dell’Europa rispetto all’America, provocato secondo molti Europei dal deficit nel bilancio americano, che ha sottratto all’Europa capitali e posti di lavoro. E l’isterismo è ora rafforzato dalla convinzione — alimentata dalla retorica USA sul «tramonto americano» e sul «secolo del Pacifico» — che gli Stati Uniti si stanno orientando verso questa area, e hanno intenzione di abbandonare l’Europa. Molti Europei ne deducono che l’America si avvia ad essere fatalmente un partner sempre meno affidabile per l’Europa.
I sondaggi dell’opinione pubblica (Gallup e Eurobarometro, 1987) contraddicono tuttavia queste opinioni diffuse, e mostrano che l’interesse per il Pacifico non va a scapito dell’Europa, anzi, all’opposto, sono gli Europei a rivelare (almeno nell’area CEE) un inquietante atteggiamento di indifferenza nei confronti degli Americani.
— L’86% degli Americani (una percentuale più alta rispetto al 1973) ritiene assai importanti i legami con l’Europa. Solo il 60% degli Europei è d’accordo, nonostante la loro dipendenza dagli Stati Uniti.
— Il 54% degli Americani vuole rafforzare i legami con l’Europa occidentale, il 31% vuole continuare come ora, e solo l’11% vuole ridurre i legami. Il 70% ritiene necessario mantenere truppe USA in Europa. Gli Americani non le stanno ritirando, non ancora, comunque.
— L’81% degli Americani nutre sentimenti amichevoli nei confronti dell’Europa occidentale (la maggior parte cita radici familiari e mostra un’alta considerazione per la cultura europea); solo il 52% degli Europei esprime pareri positivi sugli Stati Uniti.
— Il 65% degli Americani (il 71 % tra le élites) è a favore dell’unificazione dell’Europa,e ritiene che lo sia anche il governo americano; solo il 49% degli Europei ritiene che gli Stati Uniti vogliano l’Unione europea.
L’isterismo, benché ingiustificato, potrebbe rivelarsi una profezia che si autorealizza, e potrebbe spingere l’America ad allontanarsi dall’Europa: talvolta gli Europei generano essi stessi quella inaffidabilità della quale accusano gli Stati Uniti. Ma per il momento, tra i due, è l’America il partner più affidabile, mentre sono i paesi Europei i più inclini a un rovesciamento delle politiche a spese dei loro alleati.
Il permanere dell’interesse americano per l’Europa non deve essere motivo di soddisfazione, come non deve esserlo la tregua nell’atteggiamento protezionistico; rimangono in seno all’Alleanza gravi problemi che ne minano la vitalità. Ciò che conta, però, è che vi sia tempo per affrontare i problemi alla radice, con tranquillità, senza la frenesia, le liti e le repentine inversioni di tendenza che spesso vanificano gli sforzi per trovare soluzioni.
 
Un piano in cinque punti per curare gli isterismi.
 
Un serio piano di attacco dovrebbe prevedere:
1. Una spinta all’integrazione europea a un ritmo adeguato al corso incalzante della storia.
La disposizione favorevole che esiste nelle relazioni atlantiche scaturisce in gran parte dal forte impulso dato dagli Stati Uniti all’integrazione europea negli anni Quaranta, grazie al quale l’America si identificava con le speranze dell’Europa. Molti Europei, condizionati dal concetto di politica di potenza, rifiutavano di credere che l’America facesse sul serio. Alcuni agitano ancora cupamente il sospetto che l’America sia in realtà contro l’unità europea, o che forse questa non sia nel suo interesse.
Attualmente, la mentalità dell’«America in declino (economico)» sta conducendo molti membri dell’amministrazione USA a condividere questa erronea valutazione degli interessi degli Stati Uniti e a mostrarsi sospettosi nei confronti del programma CEE «1992». Nonostante ciò, il governo americano si ritiene ancora a favore dell’unificazione europea, e sostiene vigorosamente l’unificazione militare dell’Europa, in quanto vede in essa la chiave per risolvere definitivamente il minaccioso squilibrio dell’Alleanza nella difesa convenzionale, nella ripartizione degli oneri e nelle capacità economiche e militari. Questi squilibri rendono l’Europa eccessivamente suscettibile sull’argomento della dipendenza dall’America e sono la fonte maggiore dell’euroisterismo.
2. Attuare in qualche parte del mondo una politica comune che comporti un attivo sostegno reciproco — un sostegno esplicito, pubblico, caloroso, sentito.
Questa politica potrebbe consistere semplicemente nella creazione di nuovi e più forti legami istituzionali fra le due sponde dell’Atlantico. Grazie al successo della NATO nello stabilizzare la sua area, questa ha sperimentato la quasi totale assenza di un concreto sostegno militare reciproco. Ovunque vi sia stato un intervento militare — Suez, Vietnam, Grenada, Ciad, Libia — le prese di distanza sono state più evidenti di quanto non lo sia stato il sostegno reciproco. E tuttavia un’alleanza deve necessariamente fondarsi sullo spirito di sostegno vicendevole.
3. Trasformare ancora una volta in realtà psicologica la vecchia dottrina secondo la quale «un attacco all’Europa libera costituirebbe un attacco agli Stati Uniti; …l’elemento essenziale della nostra politica estera e della nostra sicurezza interna è la nostra partnership permanente con le democrazie amiche nell’Alleanza atlantica» (Presidente Reagan, 29 febbraio 1988), rinnovando il movimento verso l’integrazione territoriale dell’Alleanza.
Nessuno difende il territorio altrui esattamente come il proprio. Nel corso della storia, gli alleati si sono spesso abbandonati reciprocamente nei momenti critici.
Una volta affievolitasi l’iniziale fiammata di entusiasmo per la NATO dopo il 1949, e dopo che la crescita della forza nucleare sovietica aveva minato la «deterrenza allargata», non era più possibile equiparare con convinzione il territorio europeo a quello americano, se non facendo qualcosa per renderlo territorio comune. Da allora, i timori dell’Europa di essere abbandonata si sono ingigantiti, sconvolgendo i rapporti diplomatici in seno all’Alleanza.
Il Comando alleato comune della NATO e le forze americane in Europa hanno fatto molto per favorire il superamento della sfiducia. Ma de Gaulle ha portato la Francia fuori dalla NATO per la mancanza di garanzia nucleare americana. Tutto il melodramma delle INF fu motivato non da una intrinseca esigenza di carattere militare, ma dalla necessità di fornire la prova dell’impegno politico totale, fino alla risposta nucleare. Quest’ultimo decennio ha rivelato l’impossibilità di raggiungere una qualsiasi posizione reciprocamente soddisfacente sulle INF nel quadro dell’assetto politico attuale: ogni posizione risulta più destabilizzante che rassicurante.
Ma l’aggiustamento delle posizioni e delle politiche militari non è sufficiente. Occorre una soluzione politica, che passa attraverso una più stretta integrazione territoriale: una integrazione profonda delle forze convenzionali (che consentirebbe una efficace difesa convenzionale e ridurrebbe la dipendenza dalle armi nucleari), un’area comune di libero scambio economico, elezioni comuni, cittadinanza comune. Solo tutto questo può rendere permanente la partnership in modo tangibile, e porre fine al timore dell’Europa di essere abbandonata.
4. Maggiore integrazione nei processi di elaborazione congiunta delle strategie politiche; rafforzamento delle strutture necessarie per la loro attuazione comune.
Per le strategie complesse è necessario quanto si è detto: non sono sufficienti le consultazioni tra governi a conclusione dei processi di formazione della volontà politica a livello nazionale. La NATO funziona solo perché le direttrici della politica comune nell’ambito europeo furono fissate decenni or sono, sotto la pressione della crisi, e sono state a lungo attuate attraverso la leadership egemonica degli Stati Uniti. Tuttavia, l’insofferenza per l’egemonia americana e l’opposizione ad essa hanno mandato all’aria tutti i recenti sforzi diplomatici che tale politica congiunta inevitabilmente richiede. Per un’azione diplomatica efficace, anche fuori dall’Europa, è necessaria un’autorità comune più forte.
Questa autorità comune dovrà trovare radici politiche in un corpo legislativo comune, eletto a suffragio diretto, il quale potrebbe venire costituito aggiungendo una Camera a suffragio diretto e attribuendo un potere decisionale all’ Assemblea atlantica.
Oggi gli alleati non cercano di chiarire realmente assieme ciò che fanno; al contrario, ciascuno si racchiude nel proprio dibattito interno per tentare di stabilire cosa stanno facendo gli altri. E nel dibattito interno si fa a gara nell’erigere barriere tribali e nel guardare gli alleati con sospetto. Per mutare questa realtà non sono sufficienti le consultazioni e le dichiarazioni comuni pro forma; negli organi intergovernativi ogni élite nazionale, come è naturale, difende i propri interessi. Gli accordi che vengono raggiunti generalmente soddisfano le varie esigenze nazionali di tali élites più che le esigenze di sicurezza comune degli Stati. Ciò significa che l’alleanza è ridotta quasi esclusivamente ad un rapporto simbiotico tra le élites stesse.
Solo un’assemblea comune eletta può sfuggire a questa simbiosi, e anzi consentire una sintesi effettiva degli interessi e delle prospettive degli Stati.
5. Democratizzare la gestione delle questioni comuni.
Anche se i circoli militari e diplomatici della NATO, che hanno raggiunto un certo grado di autonomia rispetto ai controlli parlamentari, non sono sufficientemente accorti da comprendere quanto avrebbero da guadagnare da una loro sottomissione ad autorità democratiche comuni, tali autorità vanno comunque costituite per frenare la corsa verso guerre commerciali.
L’America potrebbe invitare i suoi partners più importanti ad inviare loro rappresentanti al Congresso — e inviare a sua volta rappresentanti ai parlamenti europei. Una iniziativa siffatta rispecchierebbe un nostro interesse effettivo per quello che fanno i paesi alleati e che può avere ripercussioni per noi, e viceversa. Le costituzioni statali dovrebbero consentire a tali delegati di partecipare ai dibattiti e alle votazioni delle commissioni, ma non alle votazioni finali in aula. Questo sottolineerebbe il principio, ma sarebbe troppo complicato. Sarebbe utile al più se un paese prendesse questa iniziativa temporaneamente, cercando nel frattempo soluzioni più serie e razionali al problema.
La soluzione definitiva è una sola: un congresso comune tra gli alleati, con poteri di supervisione sulle questioni commerciali comuni. Consentiamo ai popoli alleati di incontrarsi in questo modo, invece che affrontarsi attraverso sistemi nazionali di reciproche concessioni, ed essi sicuramente decideranno di unirsi in un mercato comune… e poi proseguiranno imponendo la loro autorità alla NATO e stabiliranno giuste tasse per la difesa. I popoli potranno in questo modo far uscire la NATO dalle sabbie mobili dell’isterismo degli Stati e portarla al sicuro su una terraferma comune. A ben guardare, solo loro possono salvare l’alleanza.
 
 


* In questa rubrica vengono ospitati interventi che la redazione ritiene interessanti per il lettore, ma che non riflettono necessariamente l’orientamento della rivista.
[1] Inevitabilmente, per alcuni tra gli alleati il tasso di crescita è più alto di quello americano, ma la maggior parte di essi cresce ad un ritmo inferiore. Il PNL americano è cresciuto del 5,9% rispetto alla Comunità europea dal 1980 al 1987, è diminuito del 10% rispetto al Giappone, guadagnando così l’1,8% nei confronti degli altri membri dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (OCSE). Le statistiche sono pubblicate mensilmente dall’OCSE su Main Economic Indicators (ad es. nel numero di maggio 1988, p. 40).
[2] Questo mostra il pericolo di sopravvalutare, come avviene da parte di alcuni federalisti europei (per comprensibili ragioni tattiche di convenienza ideologica), i vantaggi che deriverebbero da un ulteriore sviluppo del multipolarismo, atteggiamento che ha persino indotto alcuni di essi a considerare come elemento positivo la mentalità del «tramonto degli USA».
Se il ritorno alla politica vecchio stile delle potenze diventa un’alternativa seria a lungo termine, la luce del federalismo americano si spegnerà prima che quella della Federazione europea sia in grado di accendersi in sua vece. E se la tendenza al multipolarismo continuerà in un contesto intercontinentale che non riesce nel contempo a trasformarsi in una partnership o in una comunità più stretta e affidabile, i rapporti tra i due continenti degenereranno verso una politica di balance of power tra Stati sovrani e indipendenti, invece che progredire verso un ordine mondiale o una Federazione mondiale; e il pensiero americano (e probabilmente anche quello europeo) degenererà fino a ritornare ai vecchi, scialbi concetti della politica di potenza.

 

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