IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LI, 2009, Numero 3, Pagina 174

 

  

IL FUTURO DELL’UE DOPO IL TRATTATO DI LISBONA*
 
 
Si potrebbe supporre che, dopo tutti gli sforzi e le difficoltà che sono stati necessari per arrivare all’approvazione all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, i politici europei siano stufi del dibattito sul futuro dell’Europa e si augurino di non dovervi pensare per un po’ di tempo. Essi possono pure augurarselo, ma non vuol dire che avranno tempi tranquilli. Dovranno confrontarsi con alcune delle questioni più importanti e più interessanti della politica attuale e spero di illustrarne qualcuna in questo scritto.
Prima di tutto, però, perché affermare che potrebbero augurarsi una pausa nelle questione europee?
La ragione è che il Trattato di Lisbona è stato in cantiere per otto anni. Il processo è stato lanciato con la dichiarazione di Laeken nel vertice del dicembre 2001; poi c’è stata la Convenzione sul Futuro dell’Europa, presieduta dall’ex-Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing; i risultati della Convenzione sono stati trasformati nel trattato costituzionale che è stato bocciato dai referendum in Francia e in Olanda (ma approvato per referendum in Spagna e Lussemburgo); la crisi provocata dal fallimento del trattato costituzionale ha portato all’accordo sul nuovo trattato di riforma, che ha preso il nome della città di Lisbona dove alla fine è stato sottoscritto; questo trattato è stato bocciato in Irlanda con il referendum del giugno 2008, ma approvato per via parlamentare da tutti gli altri Stati membri, ed infine approvato in Irlanda all’inizio dell’ottobre 2009. Esso è anche sopravvissuto alle contestazioni giuridiche in Gran Bretagna, in Germania e nella Repubblica Ceca e ai tentativi di ricatto da parte dei Presidenti della Polonia e della Repubblica Ceca.
Dopo questa tortuosa storia del trattato, è facile capire perché i capi di governo potrebbero aver piacere di avere un periodo di pausa. Nessuno avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero andate così per le lunghe, che ci sarebbero voluti otto anni per trasformare gli auspici di Laeken in modifiche dei trattati europei. Di fatto, dei 15 capi di governo che presero parte al vertice europeo di Leaken nel dicembre 2001, solo due, il lussemburghese Jean-Claude Junker e l’italiano Silvio Berlusconi, sono ancora in carica oggi (e uno di loro, Berlusconi, è stato nel frattempo all’opposizione). E l’Unione europea stessa nel frattempo si è allargata da 15 Stati membri con 390 milioni di abitanti a 27 Stati membri con 500 milioni di abitanti. Nessuno avrebbe pensato che saremmo arrivati dove siamo oggi.
Ma anche dopo tutto questo tempo, il dibattito sull’Europa non è concluso. Vorrei spiegarne il motivo, dividendo i problemi con cui l’Europa deve confrontarsi in tre gruppi. Quand’ero studente e partecipavo ad un gruppo locale dei Movimento Europeo Giovanile, si rivolgevano tre critiche all’Unione Europea: che non conteneva i paesi giusti, intendendo dire che volevamo l’allargamento; che non aveva i poteri giusti, intendendo dire che volevamo che assumesse nuove responsabilità in alcuni campi e forse rinunciasse ad alcune competenze in altri; e che non prendeva le decisioni nel modo giusto, intendendo dire che non era sufficientemente democratica.
Da quand’ero studente, le cose si sono mosse — quell’Unione a 12 è diventata a 27, è stato lanciato l’euro, il Parlamento Europeo ha ora ampi poteri di codecisione — ma quelle tre critiche di base possono ancora essere fatte. E vorrei usarle per guardare al futuro dell’Europa.
 
L’allargamento
 
Vorrei affrontare per primo il tema dell’allargamento. Esso è stato finora un successo — come ho accennato, si è passati da 6 a 12 e ora a 27 — e probabilmente ci saranno altre adesioni. In un certo senso, il desiderio di ulteriori paesi di entrare nell’Unione Europea può essere visto come una questione di geopolitica — qual è il miglior raggruppamento di paesi di cui far parte —, ma quello che rende interessante il dibattito sull’allargamento sono le questioni politiche che esso solleva, che sono tra le più interessanti che si possano trovare nelle diverse branche della scienza politica contemporanea.
 
I Balcani occidentali.
 
Come primo esempio, vorrei affrontare la questione dei Balcani occidentali, cioè di paesi come la Croazia, la Bosnia e la Serbia.
Guardando una carta dell’UE, appare un grosso buco tra l’Italia da un lato e Romania e Bulgaria dall’altro. Il fatto interessante non è che alcuni paesi siano entrati a far parte dell’UE, ma che altri non lo siano. Perché no? Che cosa c’è che non va?
La risposta, chiaramente, è che c’era una guerra. Mentre la maggior parte dei paesi dell’ex-blocco sovietico è riuscita ad effettuare la transizione alla democrazia in un modo notevolmente pacifico, purtroppo non è stato così dappertutto. I paesi della ex-Jugoslavia sono stati sconvolti dalla guerra, qualcosa come 200.000 persone hanno perso la vita e il processo di adattamento alla nuova Europa è stato ritardato di molti anni. Sembra che in questi paesi ci sia un generico desiderio di entrare nell’Unione Europea, ma quali passi in pratica sono necessari a tal fine?
L’idea fondante dell’Unione Europea è quella della riconciliazione dopo la guerra. Ma come ottenerla? Come renderla permanente? La Francia e la Germania nel 1950 erano unite dall’idea che non si sarebbero mai più combattute ed intrapresero l’edificazione di un sistema capace di risolvere con mezzi pacifici qualsiasi contrasto tra di esse. Era veramente notevole per così recenti ed acerbi nemici imbarcarsi in una tale linea d’azione ed abbiamo visto con quanto successo essa abbia funzionato. Le due parti hanno dovuto venire a patti con il loro passato, facendo in modo che l’eredità del nazismo potesse essere sepolta per sempre.
Per molti aspetti, il recente allargamento all’Europa centro-orientale dopo la caduta del comunismo è basato su un diverso tipo di riconciliazione dopo una guerra. In questo caso, la guerra era la guerra fredda e la riconciliazione sta tra i partiti comunisti ed i popoli stessi. Come nella Germania del dopoguerra, ci sono stati processi contro i personaggi più gravemente responsabili ed una classe di apparatchiks è stata spazzata via dalla vita pubblica, ma sotto molti aspetti i problemi rimangono irrisolti. Per esempio, l’attuale dibattito circa i legami tra il partito conservatore inglese ed i suoi alleati polacchi e lituani nel gruppo dell’ECR è l’espressione di quanto questo problema sia ancora irrisolto. L’alleato lituano dei conservatori, per esempio, sostiene la commemorazione annuale di quanti considera patrioti che hanno combattuto contro i comunisti negli anni ’40. I suoi oppositori accusano questi patrioti di essere stati dei collaborazionisti dei nazisti. Io non sono in condizioni di discutere di quale sia la verità di queste accuse e di questi punti di vista, ma quanto posso affermare è che dimostrano che la Litania deve ancora fare i conti col suo passato. Questo è quanto richiesto dall’appartenenza all’UE.
Possono i Croati, i Bosniaci e i Serbi fare la stessa cosa? Questa è la sfida cui devono far fronte. La partecipazione all’UE non è solo questione di adattarsi ai trattati UE e al mercato unico europeo, è anche la questione di adattarsi ad una vita pacifica e democratica. Solo 15 anni fa, questi Stati erano opposti l’uno all’altro in una guerra terribile e brutale. Oggi, se vogliono entrare nell’UE, devono impegnarsi nella riconciliazione. Devono accettare la legittimità e l’autorità dei leaders e della vita politica di ciascuno degli altri e gestire i criminali che hanno agito al loro interno. Questo potrebbe essere chiedere molto e potrebbe non essere facile da raggiungere.
Il problema dell’allargamento non riguarda quindi solo il diritto europeo e l’economia, riguarda anche il diritto e la cultura politica nazionale. I paesi che vogliono far parte della nuova Europa devono raggiungere standard elevati quando si tratta di affrontare l’eredità del passato. Qui non si tratta tanto di politica, quanto piuttosto di filosofia o perfino di moralità. La questione dell’allargamento non è solo un problema di geopolitica: è molto più di questo.
 
La Turchia.
 
Il secondo esempio di allargamento su cui voglio soffermarmi, quello della Turchia, illustra un punto simile. Le questioni geopolitiche sono ovvie: la continua instabilità del Medio Oriente; la posizione della Turchia di traverso alla strada per i territori dell’Asia centrale ricchi di petrolio; le pessime relazioni con la Russia; il bisogno di creare più armoniose relazioni con il mondo mussulmano. Come alleato, la Turchia è inestimabile.
Ma l’adesione all’UE richiede ben di più dell’essere solo un buon alleato: esistono anche contro-argomentazioni circa l’adesione della Turchia all’UE. Esse riguardano tra l’altro l’economia — la Turchia è relativamente povera —; i diritti umani — ci sono dubbi circa l’atteggiamento della Turchia nei confronti della minoranza curda —; i militari turchi che sono storicamente coinvolti nella politica turca; Cipro — dove truppe turche continuano ad essere dispiegate nella repubblica secessionista del nord —; la geografia — il 97% del territorio turco è sul lato asiatico del Bosforo —; e la religione — la Turchia è in larghissima maggioranza mussulmana.
Le prime tre stanno venendo gradualmente superate, in quanto la Turchia sta diventando un paese più ricco, più libero e più corretto. Il quarto problema, Cipro, è strettamente legato ai negoziati per l’adesione e sarà risolto in concomitanza con essi. Circa le rimanenti due obiezioni il governo turco ed il processo politico non possono far nulla, perché riguardano i confini dell’Europa. Delle due, la questione geografica è pretestuosa: non esiste alcuna ragione geografica per cui il limite dell’Europa debba disporsi dopo la Grecia e la Bulgaria anziché estendersi per un altro paese. Il vero problema è l’ultimo, quello che la Turchia è un paese mussulmano. Ci sono forti correnti d’opinione in diverse parti dell’UE che sostengono che, solo per tale motivo, questo paese di grandi dimensioni non possa essere ammesso. Non si tratta di una questione geopolitica, ma dell’identità stessa dell’Europa.
L’Europa è ancora cristiana? Può un paese mussulmano far veramente parte della famiglia europea? Il problema della Turchia è inseparabile da questa più ampia e più profonda questione.
Al di là del caso specifico, però, la questione del rapporto tra l’Islam e l’Europa deve comunque trovare una risposta, indipendentemente dal fatto che pensiamo alla Turchia oppure no, perché molti paesi europei hanno oggi consistenti o crescenti minoranze mussulmane e l’adattamento alla loro presenza sta diventando uno dei problemi centrali della politica europea; perché mentre molte democrazie europee si considerano in generale laiche, di fatto possono essere meglio descritte come post-cristiane. I loro presupposti e i loro ritmi tradiscono ancora le loro origini: non sono equidistanti nei confronti di tutti i gruppi religiosi che le compongono.
Il dilemma tra multiculturalismo e melting pot in Europa deve ancora essere risolto ed è questo il dilemma che sta alla base del dibattito sulla Turchia. La questione geopolitica non sarà risolta senza risolvere anche questa questione politica.
 
L’Islanda.
 
Come terzo esempio dei problemi sollevati dall’allargamento, vorrei spostarmi all’angolo opposto dell’Europa, all’Islanda. E’ all’opposto, quasi in ogni senso. E’ piccola — solo 320.000 abitanti contro i 75 milioni della Turchia —; è ricca — il suo PIL pro capite è 40.000 dollari contro una media dell’UE di 29.000 —; ed ha una sola moschea. La sfida posta dall’Islanda all’UE non è sociale, ma finanziaria.
Per molti anni, l’Islanda ha scelto di non unirsi all’Europa perché stava seguendo un cammino economico diverso. Ha preso parte a molte politiche economiche comuni, come il mercato unico e l’area di libera circolazione, ma si è tenuta fuori da altri aspetti dell’integrazione europea, come la politica della pesca e l’euro.
L’economia islandese ha finito per essere dominata da un gruppetto di banche che si sono imbarcate in piani di espansione ambiziosi e di grande portata: hanno acquisito pesanti prestiti e pesantemente investito, offrendo notevole ricchezza ai loro dipendenti, ai loro azionisti e allo Stato islandese nel suo complesso. Ma la grande portata è diventata una portata eccessiva quando in America è scoppiata la crisi. Gli impegni esteri islandesi in quel momento ammontavano all’800% del PIL islandese ed i prestiti esteri che erano stati necessari per creare questi impegni semplicemente non potevano essere ripagati. L’economia islandese è collassata, il valore della sua valuta si è dimezzato, e la sua strategia economica ha dovuto essere ripensata. Anziché mantenere le distanze dall’Unione europea, le elezioni sono state vinte dai partiti che sostengono la partecipazione all’UE.
Ma rimane una grossissima questione che potrebbe affossare l’intera idea. Deriva dal fatto che tra le vittime del fallimento del sistema bancario islandese vi erano numerosi piccoli investitori inglesi ed olandesi che avevano depositato fondi nelle banche islandesi. Lo schema di compensazione inteso a proteggerli è stato semplicemente sopraffatto dalle dimensioni del fallimento, per cui i governi inglese ed olandese sono intervenuti con un prestito al governo islandese, mirato specificamente al rimborso dei loro investitori. La stessa Islanda ripagherà la Gran Bretagna e l’Olanda tra qualche anno, quando ritornerà qualche forma di ordine economico.
Ma quanto dovrebbe pagare l’Islanda? E a chi si dovrà chiedere di pagare in Islanda? Il popolo islandese dall’UE cerca solidarietà, ma non è sicuro di ricevere solidarietà.
Le somme di denaro di cui stiamo parlando sono enormi: il debito totale è 3,4 miliardi di sterline, pari al 20% del PIL annuo dell’Islanda: un ordine di grandezza paragonabile alle riparazioni di guerra imposte alla Germania nel 1921, dopo la prima guerra mondiale. E’ giusto che tutto questo venga estratto dalle tasche dei contribuenti islandesi? Perché questo ci porta alla seconda questione. I profitti ottenuti durante il boom sono andati ai banchieri; le perdite conseguenti al fallimento toccano al popolo nel suo complesso.
Dove sta la giustizia economica? Chi deve compensare chi? Di nuovo, questi non sono problemi che riguardano specificamente l’Europa, sono problemi della politica nel suo insieme. Il problema europeo non è una distrazione dalle questioni politiche reali: è una loro incarnazione.
 
I poteri dell’UE
 
Dopo aver discusso esempi di come l’allargamento dell’UE non sia una questione di geopolitica, ma in realtà una questione di moralità, di identità e di giustizia economica, vorrei ora analizzare lo sviluppo futuro dei poteri dell’UE. Anche qui, troveremo che nei problemi europei c’è ben più di un semplice dibattito su costituzioni o sul diritto internazionale.
 
La politica economica.
 
Il principale interesse dell’Islanda nell’entrare nell’UE è di trovare protezione dal peggio dell’economia globale, e in questo non è sola. Perfino la maggior economia nazionale europea, quella della Germania, rappresenta solo il 6% del PIL globale, ma l’Europa nel suo insieme raggiunge il 30% del PIL mondiale e il 15% del commercio mondiale. Per chiunque in Europa voglia plasmare o influenzare l’economia globale, l’Unione europea rappresenta lo strumento con cui realizzarlo.
Ma non è affatto certo che l’economia globale debba essere plasmata o influenzata. C’è un forte gruppo di opinioni che sostiene che il crash è stato causato da un eccessivo intervento dei governi, e non da un intervento insufficiente, e che i mercati dovrebbero essere lasciati liberi di auto-correggersi. La crescita a spirale del debito pubblico inglese ed americano viene portata a prova del fatto che i governi, di qualsiasi tipo siano, dovrebbero ritirarsi e non interferire.
Se si è di questa opinione, allora non c’è ragione di sviluppare l’UE come agente economico. Di fatto, esiste un forte argomento contro l’idea di permettere che l’UE abbia questi poteri, perché se li avrà, certamente li userà. Perciò il contenuto tradizionale del dibattito sull’integrazione europea — se esercitare un potere a livello nazionale o a livello europeo — viene sostituito dalla questione se esercitare del tutto il potere. L’argomentazione a sostegno di più Europa non può considerarne il modello come acquisito, perché non lo è. Il dibattito sull’Europa è un dibattito sulla gestione dell’economia in quanto tale.
 
La politica estera.
 
Per molti aspetti, il dibattito sulla politica estera europea deriva dal dibattito sulla politica economica, perché se l’Europa deve fare un serio tentativo di influenzare il suo ambiente economico, gran parte di esso deve essere fatto di concerto con le altre potenze economiche mondiali. Un’effettiva politica economica richiede perciò anche un’effettiva politica estera.
I trattati sull’UE che si sono succeduti hanno fatto passi avanti verso una maggior coerenza delle posizioni di politica estera dei paesi europei e il Trattato di Lisbona farà fare qualche ulteriore passo in questa direzione, ma resta il fatto che l’UE può solo esprimere un punto di vista coerente quando un punto di vista coerente da esprimere esiste. Se gli Stati dell’UE non sono d’accordo, non può esserci una politica estera europea.
Dato il sostanziale successo dell’UE nel dar forma ad una politica comune per quanto riguarda il commercio estero, perché la reticenza su di una politica estera comune in altri campi? Un motivo importante sta nel fatto che una politica estera comune prenderebbe il posto dell’appoggiarsi alla leadership americana. L’Unione Europea è nata durante la guerra fredda e per molti anni la leadership americana è stata essenziale per contenere la minaccia del comunismo. Con la fine della guerra fredda e con la crescita della Cina e di altri paesi in un mondo multipolare nascente, il ruolo geopolitico dell’Europa sta cambiando. Non è più una mera appendice degli Stati Uniti, pronta a seguire gli Americani ovunque si fossero diretti. Ha l’opportunità, se vuol coglierla, di essere una grande potenza per conto proprio.
Ma ciò che cosa ci dice circa i rapporti futuri tra Europa e America? La forza dell’America si è fondata sull’immigrazione dall’Europa nel XIX secolo e la libertà europea è stata salvata nel XX secolo dalla forza dell’America. Nel XXI secolo rimane ancora questa interrelazione? Esiste ancora un’idea di Occidente?
Il dibattito sui meccanismi della politica estera — come si forma e come viene attuata — è importante, ma può essere portato avanti solo alla luce di questo più ampio problema delle relazioni transatlantiche. La risposta a questa importante questione negli studi europei sta in realtà nella nostra storia culturale e nella nostra autostima culturale.
 
La politica ambientale.
 
Un terzo esempio di quanto ci porti lontano una discussione sui poteri dell’Unione europea si può trovare nella dibattito su come combattere la minaccia di cambiamenti climatici. Politici e scienziati concordano nel credere che qualcosa possa e debba essere fatto per proteggere il nostro modo di vivere, o qualcosa che gli assomigli, dall’aumento della temperatura del pianeta nei prossimi decenni. C’è una piccola minoranza che dissente da questo modo di vedere, ma non si trova al centro del dibattito su questo tema, né in Europa, né altrove.
La causa del problema è qualcosa che sta al cuore del nostro modo di vivere: l’uso dell’energia derivante dai combustibili fossili, come carbone, petrolio e gas naturale. Cambiare il modo con cui utilizziamo questi combustibili richiederà cambiamenti di grande portata che riguardano le seguenti aree:
– reti transeuropee per un migliore rifornimento di gas naturale in tutt’Europa, anche se ci sarà uno spostamento dal gas naturale all’idrogeno;
– fissazione di standard nei prodotti per il consumatore per aumentare l’efficienza energetica: questo dovrebbe essere fatto a livello europeo per massimizzare l’efficienza economica all’interno del mercato unico;
– relazioni con la Russia, in quanto principale fornitore di petrolio e di gas naturale per l’Europa;
– relazioni con l’Africa del nord, se i pannelli solari nel Sahara devono diventare una fonte realistica di energia;
– tassazione, qualora attività individuali ad alto consumo energetico, come i viaggi aerei, o processi industriali utilizzino combustibili fossili.
Soprattutto, bisognerà prendere coscienza del fatto che scongiurare i cambiamenti climatici richiede cambiamenti di politica di grande ampiezza. Ogni politica sostanziale crea vincitori e vinti: la politica sui cambiamenti climatici ne creerà un’infinità. Dato ciò, per aver senso, le politiche devono essere messe in atto a livello europeo e il comprensibile risentimento dei perdenti potrebbe facilmente esprimersi anch’esso a livello europeo. Gli Stati membri hanno finora combattuto per tenere sostanzialmente l’UE fuori dalle politiche redistributive — e il bilancio complessivo dell’UE è attualmente in declino in conseguenza del calo del PIL complessivo — ma la politica sui cambiamenti climatici implica che questo atteggiamento debba essere rivisto.
Il Trattato di Lisbona include nelle sue frasi iniziali il riconoscimento dei cambiamenti climatici come un campo d’azione dell’Unione Europea. Ma, come per la politica estera, una cosa è mettere delle idee nelle frasi di un trattato, un’altra è metterle in pratica.
Se ciò possa effettivamente essere fatto dipende dalla capacità dell’Unione europea di coinvolgere l’opinione pubblica nella transizione verso un nuovo modello economico ecologicamente compatibile. Se l’Europa deve adattarsi agli standard di un’economia del XXI secolo, deve anche adottare gli standard di una democrazia del XXI secolo.
 
Il modo con cui l’UE prende le decisioni
 
Spero di aver dimostrato che nella discussione sull’UE c’è molto di più di una semplice discussione della sua struttura istituzionale. I problemi posti dai prossimi paesi che potrebbero diventare parte dell’UE e le questioni relative all’agenda politica dell’UE sono di per sé di grande portata ed interessanti. Ma ciò che mette l’UE in una posizione unica al mondo per accettare nuovi membri e nuove sfide politiche dipende dal fatto che possiede un sistema istituzionale così sofisticato.
Queste istituzioni erano state create dal Trattato di Roma nel 1957 e da allora si sono sviluppate progressivamente attraverso una serie di emendamenti ai trattati. Il Trattato di Lisbona porterà ulteriori miglioramenti, ma non rappresenta l’ultima parola nella governance europea. Ci sono molte aree nelle quali i dettagli istituzionali e il carattere democratico dell’Unione Europea restano da definire. Nei prossimi anni, molto sarà sistemato, sebbene sia improbabile che il Trattato di Lisbona venga riscritto prima di molto tempo.
 
Il Consiglio europeo e la Commissione.
 
Una delle innovazioni del Trattato di Lisbona è la creazione della carica di Presidente del Consiglio europeo. Il titolare di questa carica presiederà le riunioni dei Vertici dei capi di governo che si svolgono quattro volte all’anno ed avrà un ruolo di rappresentanza dell’Unione Europea negli affari esteri. Ciò che il titolare di questa carica non farà è di sostituire il Presidente della Commissione europea come capo dell’esecutivo dell’Unione Europea, con le sue funzioni di iniziativa legislativa, di attuazione delle misure richieste da tale legislazione e di gestione del bilancio. Se l’UE ha una carica paragonabile a quella di un Primo Ministro all’interno degli Stati membri, questo è il Presidente della Commissione europea.
La domanda ovvia è come questi due presidenti riusciranno in pratica a lavorare insieme. La Commissione europea è stata spesso criticata per non essere stata sufficientemente esplicita nell’assumere una posizione europea sui problemi, sia nei confronti del mondo esterno, sia nei confronti degli stessi cittadini europei. La ragione principale è che gli stessi governi nazionali hanno impedito alla Commissione di farlo. Forse una nuova voce, con un mandato diretto dei governi, può infrangere questa riluttanza e creare in Europa un nuovo spirito più dinamico. Certamente alcuni sostenitori della nuova carica lo sperano.
D’altra parte, come può una simile voce inquadrarsi nel sistema europeo di responsabilità democratica? Il Presidente della Commissione, sebbene nominato dal Consiglio, è subito dopo eletto dal Parlamento europeo tenendo conto dei risultati delle elezioni europee. Di nuovo, questo è il modello di un Primo Ministro. Il Presidente del Consiglio europeo non avrà alcuna particolare connessione con il Parlamento europeo né con le elezioni europee, dando così alla carica un tipo di legittimazione completamente diverso.
E’ possibile che invece l’Europa si addentri ulteriormente nella via della democrazia parlamentare, con al centro il Parlamento europeo direttamente eletto, che sceglie e chiede conto alla Commissione europea. Il Presidente del Consiglio europeo, in questo modello, agirebbe di fatto come portavoce della seconda camera del parlamento, impegnata nel negoziare accordi tra gli Stati membri per sostenere diversi interventi legislativi.
L’Unione Europea si svilupperà in una democrazia parlamentare riconoscibile, o seguirà uno stile politico basato più su di un modello presidenziale? Il Trattato di Lisbona è compatibile con entrambe le opzioni, ma non sceglie tra di esse.
 
Governi nazionali e parlamenti nazionali.
 
Una seconda innovazione del Trattato di Lisbona consiste nel dare ai parlamenti nazionali un maggior ruolo nel processo decisionale dell’UE. I governi nazionali hanno sempre avuto un ruolo centrale — il Consiglio dei Ministri che li rappresenta è sempre stato la più importante istituzione nelle decisioni — ma il modo con cui fanno uso del loro potere ha goduto finora di un notevole grado di libertà. Grazie a Lisbona, potrebbe cambiare.
Specificamente, nel nuovo trattato c’è una disposizione che autorizza i parlamenti nazionali a valutare e commentare la legislazione europea allo stato di progetto. In precedenza, il solo momento in cui un parlamento nazionale aveva l’occasione di esprimersi su qualche questione controversa era quando il governo nazionale cercava di recepirla nella legislazione nazionale. Ma allora è troppo tardi per lamentarsi di qualche particolare. Il trattato non autorizza un parlamento nazionale a respingere una nuova proposta di legge — non viene introdotto un nuovo stadio nella procedura legislativa —; vi è tuttavia la possibilità di un maggior coinvolgimento dei parlamentari nazionali.
Ancor più interessante è che cambierà il modo con cui il Consiglio dei Ministri lavorerà. Le sue riunioni in materia legislativa saranno pubbliche e non a porte chiuse come avvenuto finora. Ci sono dubbi su fino a che punto debba spingersi questa trasparenza, ma il fatto di rimuovere il vincolo della segretezza dalle discussioni tra i governi nazionali a Bruxelles metterà i parlamenti nazionali in condizione di esercitare un miglior controllo nelle rispettive capitali.
Ciò che è offerto da questi due cambiamenti è la molto più ampia possibilità di discussione sulle questioni europee tra legislatori di tutt’Europa in una fase in cui essi possono influenzare quello che sta avvenendo. E’ stata spesso avanzata la critica che nei nostri sistemi politici l’esecutivo stia acquisendo potere a spese del legislativo. Lisbona propone modifiche che potrebbero invertire questa preoccupante tendenza.
 
La classe politica e i cittadini.
 
L’ultimo esempio di innovazione nel trattato di Lisbona riguarda un altro problema di crescente importanza, quello dell’allontanamento del pubblico dalla politica nel suo insieme. La crescente specializzazione dei problemi in discussione rende difficile per gli elettori di interessarsene e le differenze politiche tra i vari partiti sono spesso difficili da cogliere, soprattutto in un sistema politico che cerca di garantire un consenso trasversale ai partiti. La caratteristica sopra descritta dei governi che si parlano tra loro anziché rivolgersi ai parlamentari o agli elettori non fa che aggravare il problema.
Oltre a modificare il modo con cui viene scelto il Presidente della Commissione europea, a rafforzare il ruolo delle elezioni europee, a modificare il modo con cui lavora il Consiglio dei Ministri e rafforzare il ruolo dei parlamenti nazionali, il trattato di Lisbona introduce anche un elemento di democrazia diretta. E’ l’idea che i cittadini debbano poter intervenire direttamente nelle decisioni e non attraverso politici eletti.
Il trattato blocca l’introduzione di referendum su questioni pubbliche, ma crea la possibilità di un’iniziativa popolare, e cioè di petizioni con un milione o più di firme raccolte attraverso l’Unione per chiedere interventi su uno specifico problema. Ci sono ancora molti dettagli da definire, ma è possibile immaginare lo sviluppo di campagne politiche transnazionali che chiedano modifiche delle politiche commerciali, economiche o ambientali europee.
Se il pubblico è disimpegnato dalla politica, è però interessato come sempre ai problemi politici. Le disposizioni del nuovo trattato, se sfruttate nel modo giusto, potrebbero rivitalizzare un importante aspetto del dibattito pubblico sulla politica in Europa.
 
Lo sviluppo dell’Unione Europea è irreversibile?
 
Mi sono proposto di dimostrare il grande potenziale insito nell’Unione europea, e il grande interesse che si può trovare nel discuterne. Nel problema dell’allargamento, devono essere prese in considerazione questioni come la riconciliazione, il multiculturalismo e la solidarietà. Pensando ai futuri poteri dell’Unione europea, non è possibile evitare problemi come la regolamentazione finanziaria, l’autostima culturale e la redistribuzione economica. E perfino la discussione dei metodi decisionali adottati dall’UE oltrepassa il semplice esame delle disposizioni del trattato richiedendo una più ampia considerazione dei meriti relativi della democrazia parlamentare e presidenziale, del modo con cui gli esecutivi dovrebbero essere responsabili di fronte ai parlamenti e di come l’intero sistema politico dovrebbe essere aperto ai cittadini.
Tutte queste questioni sono aperte al dibattito e non sono ancora state decise. Non è affatto certo che l’UE si svilupperà in uno qualsiasi di questi modi, e tanto meno in tutti, ma i benefici che ricadrebbero sull’Europa e sugli Europei se l’UE si sviluppasse in questo modo sono tali che vale pena che coloro che fanno campagna per l’Europa li facciano emergere.
Ma vorrei concludere rilevando che questo non è il solo dibattito sull’Europa che si sta svolgendo oggi. C’è anche un dibattito non rivolto a chiedersi come l’integrazione europea dovrebbe procedere, ma a chiedersi se essa non debba regredire. Forse l’UE è andata troppo avanti. E in nessun altro luogo questo dibattito è più intenso che nel Regno Unito.
In Gran Bretagna, l’opinione pubblica è stata spinta a sostenere la partecipazione e lo sviluppo dell’Unione Europea nel momento delle elezioni politiche e, in particolare, al momento del referendum sull’adesione del 1975. Ma ormai da parecchi anni, l’opinione pubblica si sta muovendo in una direzione anti-europea e sarebbe un grave errore supporre che la questione della partecipazione della Gran Bretagna sia ormai definitivamente risolta.
Si sta svolgendo un dibattito sul futuro della Gran Bretagna in Europa che si richiama a fattori come le tradizioni coloniali e post-coloniali inglesi, la specializzazione delle sua economia nei mercati e nei servizi finanziari, e le sue relazioni con l’America. Aggiungete a questa miscela i problemi economici, politici e culturali che colpiscono tutti gli Europei, che ho descritto sopra.
Il dibattito in Gran Bretagna in realtà riguarda niente meno che il modo con cui la democrazia liberale si debba adattare all’era della globalizzazione e dell’interdipendenza del XXI secolo. Come può sopravvivere l’autogoverno nell’era del capitalismo globale, delle migrazioni globali e delle comunicazioni globali?
Non bisogna pensare alla discussione sull’Unione Europea come a una discussione sulle istituzioni politiche di una regione del globo. E’ ben più di questo: occorre rendersi conto che essa affronta i maggiori problemi del XXI secolo. Può esserci qualcosa di più importante di questo dibattito?
 
Richard Laming


* Si tratta della rielaborazione di un intervento ad un dibattito svoltosi alla Royal Holloway dell’Università di Londra l’8 ottobre 2009.

 

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