IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLVII, 2005, Numero 2, Pagina 117

 

 

ALTIERO SPINELLI
 
 
Mai come oggi è utile rileggere e riflettere sul limpido saggio elaborato da Altiero Spinelli in occasione del convegno (Roma, luglio 1956) organizzato da Luciano Bolis sulla nascita degli Stati Uniti d’America per rispondere alla domanda (formulata dallo stesso Bolis nell’introduzione al volume che raccoglie i vari contributi): «Fino a che punto la storia delle origini dell’attuale Costituzione degli Stati Uniti d’America può rappresentare un esempio storico per il processo dell’unificazione europea in corso?».
L’utilità di questa rilettura deriva in particolare dal fatto che, giunti a una fase del processo di unificazione europea in cui l’unica prospettiva di avanzamento è quella di portare a termine il processo stesso attraverso la creazione dello Stato federale europeo, stanno emergendo idee, discussioni, teorie sulla natura che la federazione dovrà assumere in Europa tali per cui questo obiettivo risulterebbe del tutto snaturato.
In particolare, il modello federale americano — ben rispecchiato nella parola d’ordine che è stata sulla bocca di tutti i federalisti e gli europeisti per molta parte del cammino europeo: Stati Uniti d’Europa — diventa sempre meno, agli occhi soprattutto delle classi politiche e degli intellettuali, un punto di riferimento irrinunciabile.
E’ così che si discute della futura Europa come di una «entità», rinunciando a prefigurarla come uno Stato: «Le nozioni di sovranità e di Stato — scrive Thierry Chopin in un saggio dal titolo ‘Le fédéralisme américain: un modèle pour l’Europe actuelle et future?’, elaborato per la Fondazione Robert Schuman (Parigi, 2002) — non sono più criteri adeguati per comprendere la natura della nuova entità che si sta costruendo sul vecchio continente… Il superamento della logica della cooperazione internazionale (modello confederale) non implica l’adozione della logica di una organizzazione statuale (modello dello Stato federale)». Così come è da qualche anno emersa una formula alternativa per indicare la Federazione europea, che è diventata una Federazione di Stati nazionali (in cui l’accento è posto su «Stati nazionali»). Oppure si insiste sul fatto che la storia che hanno alle spalle gli Stati nazionali europei è così diversa da quella delle tredici colonie americane (affermazione storicamente ineccepibile, come sottolinea lo stesso Spinelli) che inevitabilmente la Federazione europea nascerà sulla base di un profondo ripensamento delle strutture istituzionali tipiche di uno Stato federale (conclusione pericolosa, se, come in effetti avviene, non indica con chiarezza quale ripensamento è possibile senza snaturare l’idea di Stato federale). O ancora, si assume come esempio e modello da respingere la Federazione americana così come è oggi. Gli USA, scrive lo stesso Chopin, non possono essere un modello perché lo Stato federale americano è gerarchico, mentre le entità che lo costituiscono hanno preso la forma di collettività locali: insomma, gli USA sono in fondo uno Stato unitario fortemente decentrato. Ma non si tiene conto delle ragioni concrete, essenzialmente di carattere internazionale, che hanno prodotto l’evoluzione e la crisi del federalismo americano, senza tuttavia intaccare nella teoria i principi fondamentali che ne hanno sancito la nascita (con ciò, come si dice, gettando il bambino con l’acqua sporca).
Tutto questo fervere di idee sul futuro dell’Europa ha come unico fondamento obiettivo il persistente istinto di conservazione del potere, che, da un lato, porta le forze nazionali ad essere protagoniste della progressiva costruzione europea (unica ancora di salvezza), ma, dall’altro, le spinge ad alzare delle barriere quando il potere è veramente in gioco e a sottrarsi alla logica della costruzione di un nuovo potere.
Chi, anche solo attraverso un contributo intellettuale, si presta ad avallare la necessità di «ripensare tutto» in realtà asseconda la conservazione nazionale e commette l’errore di non riuscire a considerare l’essenziale nell’esempio americano: la «capacità, scrive Spinelli, che i suoi fondatori hanno avuto di comprendere i veri termini della costruzione di uno Stato, che sono sempre problemi di costruzione di una forza e di determinazione dei suoi limiti».
 
 
***
 
 
IL MODELLO COSTITUZIONALE AMERICANO
E I TENTATIVI DI UNITA’ EUROPEA*
 
Quando, con la fine della seconda guerra mondiale, il problema dell’unificazione sopranazionale si è posto per i paesi democratici dell’Europa occidentale, era naturale che l’attenzione si rivolgesse al principale dei modelli federali esistenti, al sistema federale americano. Le riflessioni che esso ha suscitato nello spirito di quanti avevano preso a cuore la causa dell’unificazione europea sono però state contraddittorie, poiché lo schema costituzionale degli Stati Uniti è stato da alcuni indicato come un esempio da seguire, da altri come una esperienza troppo peculiarmente americana, troppo differente da quella che gli europei dovevano affrontare per poter essere con successo presa a modello.
Se mettiamo qui da parte le numerosissime espressioni di sentimenti «europeistici», le quali corrispondono ad una vaga aspirazione, ma sono prive di qualsiasi sforzo di pensiero ed alle quali non si accompagna perciò nessuna effettiva possibilità di realizzazione, possiamo individuare dietro ai tentativi di unificazione europea, compiuti o in corso di elaborazione, due tendenze fondamentali di pensiero politico che sono individuate in modo assai caratteristico fra l’altro dal loro atteggiamento rispetto al modello americano.
Intendiamo parlare delle due correnti note col nome di funzionalismo e di federalismo europeo.
Sia i funzionalisti che i federalisti sono persuasi che il sistema europeo delle sovranità nazionali non è più vitale e che i popoli democratici europei, se non vogliono decadere irrimediabilmente devono superare le loro divisioni nazionali e giungere a qualche forma di unificazione sopranazionale. Entrambe le correnti sono anche persuase che l’unificazione auspicabile non è quella totale in uno Stato unitario europeo il quale si sostituisca a quelli nazionali esistenti, ma quella parziale che concilia la permanenza delle strutture politiche nazionali e della loro indipendenza con la messa in comune di alcune prerogative nazionali.
La Costituzione degli Stati Uniti d’America realizza per l’appunto questa convivenza fra sovranità parziali e sovranità complessiva. Può essa o non può servire da modello fondamentale nell’elaborare l’unificazione europea?
A questa domanda molti fautori di tale unificazione hanno dato e danno una risposta nettamente negativa, anche se si compiacciono assai spesso di battezzare col nome di Stati Uniti d’Europa il punto di arrivo finale del processo di unificazione quale è immaginato da loro. Essi sono assai profondamente impressionati dalle differenze profonde esistenti fra gli Stati europei attuali e gli Stati che a Filadelfia hanno ideato la Costituzione americana. Situazioni e problemi sono nei due casi quanto di più diverso si può immaginare.
Gli Stati americani dello scorcio del XVIII secolo erano stati pressoché privi di passato storico, mentre ciascuno Stato europeo, anche se di formazione relativamente recente, come l’Italia e la Germania, porta con sé un passato di cui è geloso e fiero, che lo caratterizza in una maniera assai profonda e lo distingue radicalmente dagli altri. Il particolarismo di un cittadino della Virginia, o del Massachusetts, appare a qualsiasi europeo una cosa infinitamente superficiale rispetto al particolarismo di un francese, di un tedesco o di un olandese. Tutti gli americani erano impiantati nella loro nuova patria da una o assai poche generazioni, mentre il legame di ogni europeo con il proprio paese si perde nei secoli.
Gli Stati americani avevano nell’inglese la lingua comune che rendeva facili i loro rapporti umani, mentre gli Stati europei hanno da secoli perduto la lingua comune latina, e parlano linguaggi profondamente diversi che inducono i popoli a restare assai più chiusi in sé.
Gli Stati americani possedevano l’unità del diritto, che era quello inglese, mentre gli Stati europei hanno sistemi giuridici, bensì somiglianti, ma differenti ed amministrati in modo differente.
Gli Stati americani si erano formati come colonie distinte, ma unite sotto il dominio della corona britannica, così che la loro unificazione federale ristabiliva in un certo senso un’unità iniziale interrottasi con la guerra d’indipendenza, ed assai male colmata dalla esperienza confederale. Gli Stati europei sono sorti parecchi secoli dopo lo sfacelo dell’Impero romano, si sono affermati contro l’apparente e poco coerente unione del Sacro Romano Impero, si sono costantemente ribellati con successo contro tutti i tentativi perseguiti ora da questo ora da quel popolo, ora da questo ora da quell’ambizioso tiranno di ristabilire con la violenza l’unità imperiale; hanno affermato con energia, con sacrifizi e con continuità le loro distinte ed assolute sovranità, e hanno in comune solo quei grandi, ma non politici valori che si chiamano «civiltà europea», «umanesimo», «cristianesimo».
Gli Stati americani potevano facilmente realizzare la unificazione della loro politica estera, poiché essa si presentava in termini semplici ed abbastanza omogenei per ciascuno di essi. Si trattava di scegliere fra essere separati ed incapaci di sottrarsi alle incessanti manovre delle grandi potenze europee, o di unirsi per far rispettare la propria indipendenza ed i propri traffici, sottraendosi al sistema diplomatico europeo e trincerandosi dietro ad un crescente isolamento. Per gli Stati europei la politica estera non può essere che una politica di presenza nel gioco mondiale, ed ogni singolo Stato ha situazioni, impegni, prospettive diverse.
Gli Stati americani potevano facilmente realizzare la unità economica, poiché le loro economie erano tutte profondamente liberiste, l’intervento statale era minimo, e l’unificazione si compendiava tutta nell’avere una moneta unica saldamente ancorata all’oro, un sistema doganale unico rispetto ai paesi terzi ed un commercio interstatale libero da intralci alle loro rispettive frontiere. Il problema dell’unificazione economica europea è ben altrimenti complesso, perché le economie nazionali odierne sono tutte caratterizzate da un profondo e continuo intervento del potere politico nel campo monetario, finanziario, commerciale, industriale e del lavoro; e questi interventi, diversi da paese a paese hanno prodotto economie rigide, non facilmente integrabili.
Se gli Stati Uniti ai loro inizi apparivano un’esperienza troppo elementare per poter essere seriamente presa in considerazione, gli Stati Uniti attuali con la loro capacità di amministrare nell’ordine e nella libertà un mezzo continente, con la loro immensa e ricca economia, con la loro grande potenza militare e diplomatica, apparivano un ideale che gli europei dovevano cercare di realizzare anche sul vecchio continente. Ed ai funzionalisti sembrava che ci fosse una via europea per il raggiungimento dell’unione, diversa da quella americana.
Questa via si fondava su una esperienza ben nota agli uomini di Stato, ai diplomatici, agli esperti dei vari Stati europei, poiché nel corso di una generazione essa si era imposta loro come una necessità. Sia nella prima che nella seconda guerra mondiale i vari paesi d’Europa avevano dovuto combattere in coalizioni e compiere grandi e durevoli sforzi in comune, i quali avevano imposto certi metodi di collaborazione interstatale che andavano molto al di là di quelli realizzati con i tradizionali trattati di alleanza o di commercio. Alcuni importanti obiettivi, riconosciuti di interesse comune dai vari Stati della coalizione, erano apparsi nel corso delle due guerre come assai difficilmente raggiungibili se non si fosse proceduto ad una assai ben coordinata azione comune. Si erano così costituite alcune autorità specializzate unificate, di carattere militare ed economico: comandi unici, centrali di acquisto e di distribuzione di certe materie prime, alimentari o di interesse strategico, fondi monetari destinati a sostenere le monete dei vari Stati e via dicendo. L’esecuzione di questo o quel compito era affidata ad una autorità sopranazionale, al cui servizio erano messi gli apparati amministrativi nazionali dei singoli Stati. Era in tal modo possibile un’azione concertata che facilitava le operazioni militari ed il raggiungimento della comune vittoria. Non si trattava tuttavia di veri e propri trasferimenti di sovranità ma solo di deleghe ben delimitate nel tempo e nella materia. Le decisioni politiche generali erano pur sempre prese dai governi nazionali; se leggi si rendevano necessarie esse erano votate dai singoli parlamenti.
Venuto meno l’obiettivo comune, la vittoria, queste autorità erano state rapidamente dissolte, dopo la prima guerra, poiché ogni Stato si era affrettato a riprendere la propria libertà d’azione. Dopo la seconda guerra, queste autorità specializzate erano in parte sopravvissute alla guerra stessa, ma poiché gli Stati europei coinvolti nel conflitto erano tutti vergognosamente crollati, ad eccezione dell’Inghilterra, i servizi comuni di assistenza erano stati praticamente assunti dagli Stati Uniti d’America, anche se formalmente si presentavano talvolta come organi comuni delle Nazioni Unite.
Era facile pensare che questo metodo potesse essere adoperato per realizzare l’unificazione europea. Anziché prendere di petto il problema politico della creazione di organi governativi e legislativi europei e del trasferimento ad essi di certe competenze dei governi e dei parlamenti nazionali, si sarebbe potuto indurre i governi a creare volta a volta speciali autorità sopranazionali, composte di persone scelte dai governi stessi, ed incaricate di eseguire certe funzioni che i governi stessi avrebbero con precisione indicato in speciali trattati. Il funzionalismo si presentava con apparenze di assai maggior concretezza, varietà e flessibilità di applicazione che non l’astratto costituzionalismo federalista. Ogni volta si sarebbe trattato di specifiche funzioni, la cui messa in comune sarebbe apparsa a tutti evidente. Ogni volta ogni singolo Stato avrebbe dato il suo consenso, attraverso i normali suoi strumenti governativi e legislativi, nel redigere e approvare il relativo trattato, cioè la legge fondamentale cui l’autorità sopranazionale avrebbe dovuto attenersi. Ogni volta i governi avrebbero creato una speciale autorità, dotata di quel tanto di autonomia necessaria per funzionare, ma che fosse altresì ben sottomessa al volere dei governi nazionali. Ogni volta gli Stati si sarebbero assicurate tutte le necessarie garanzie di intervento sia nelle decisioni che nella esecuzione.
I funzionalisti hanno sempre affermato la loro convinzione che moltiplicando man mano queste autorità sopranazionali si sarebbe arrivati ad un certo momento a poterle raggruppare e coordinare tutte, in modo da creare un’unità che avrebbe all’incirca corrisposto al tipo di unità federale esistente in America.
La federazione doveva essere la conclusione e non il punto di partenza del processo di unificazione, come era invece stata per l’America.
Il «functional approach» dei problemi europei, adeguato al modo di pensare degli alti funzionari pubblici di tutti gli Stati europei, ha avuto un grande successo ed è stato l’idea ispiratrice dei principali tentativi di unità europea fatti finora. E’ interessante forse notare che diplomatici e uomini politici americani, soggiogati anch’essi dal rispetto per la venerabile intangibile struttura degli Stati nazionali europei, benché fossero di solito assai desiderosi di veder applicati in Europa i metodi federali a loro familiari, abbiano di solito fatto tacere la loro migliore conoscenza del problema, abbiano accettato per buono questo metodo e gli abbiano dato tutto l’appoggio che la loro influenza politica, economica e militare in Europa permetteva loro di esercitare.
L’atteggiamento dei federalisti europei rispetto al modello costituzionale americano è stato ed è completamente diverso.
Essi riconoscono le profonde differenze esistenti fra l’America del diciottesimo secolo e l’Europa democratica contemporanea, ma non sono dominati dal superstizioso rispetto per quel che esiste ed ha tradizioni, non sono disposti ad accettare il motto conservatore «Guai a te poiché tu sei un nipote».
Senza dubbio la Costituzione americana è stata enormemente più facile a realizzare di quel che sarebbe la Federazione europea. Ma se essa appare oggi agli europei come un prodotto spontaneo e necessario, quasi un prodotto naturale della storia umana americana in quel preciso momento in cui essa è sorta, ciò è solo il frutto di un errore ottico molto comune fra chi medita sulla storia passata. Ciò che si è realizzato appare agli occhi dei posteri come l’unica e necessaria soluzione delle situazioni e dei problemi da cui è sorto, solo perché, essendosi realizzato, occupa ormai tutta la scena e lascia scorgere con difficoltà tutte le alternative che gli si contrapponevano prima che si realizzasse, le probabilità che aveva di non realizzarsi, le forti resistenze che ha dovuto superare per essere realizzato.
Anche in America le differenze erano forti e per tutti coloro che erano affascinati da ciò che esisteva allora, erano praticamente insormontabili. Basti ricordare il giudizio dell’economista inglese Josiah Tucker e quello del diplomatico francese Louis Guillaume Otto.
Diceva Tucker nel 1786: «Quanto alla futura grandezza dell’America e all’idea che essa possa mai diventare un possente impero sotto una testa, sia essa monarchica o repubblicana, questa è una delle utopie più folli e più visionarie che siano state mai immaginate da scrittori di romanzi. Le antipatie reciproche e gli interessi opposti degli americani, le loro differenze di governi, di abitudini e di costumi provano che non avranno alcun centro di unione o di interesse comune. Mai potranno essere uniti in un impero compatto sotto qualsiasi forma di governo: gente disunita fino alla fine dei tempi, piena di sospetti e diffidenze degli uni verso gli altri, saranno divisi e suddivisi in piccole comunità o principati, secondo le loro frontiere naturali, i grandi golfi ed i vasti fiumi, i laghi e le catene di montagne». Nello stesso anno Louis Guillaume Otto, incaricato di Francia in America scriveva al suo governo: «Gli Stati si lasceranno spogliare di parte della loro sovranità?… La loro politica ispira loro reciprocamente avversione e gelosia… questi repubblicani non hanno più Filippo alle porte!».
Anche in America gli uomini politici hanno a lungo cercato di risolvere il problema dell’unificazione con metodi che si sarebbero oggi chiamati funzionalisti, e non hanno osato pensare che si potesse andare oltre lo schema della Confederazione degli Stati sovrani. Al principio di questo periodo di ricerca di una formula costituzionale c’è l’esercito comune posto sotto il comando di Washington e appartenente formalmente alla Confederazione, ma i cui contingenti e le cui finanze erano fornite dai singoli Stati — qualcosa cioè di assai simile al progettato esercito europeo della CED. Alla fine di questo periodo c’è la conferenza di Annapolis la quale aveva lo scopo di regolare la navigazione della baia del Chesapeake e del Potomac — qualcosa di assai simile ai nostri vari progetti di comunità specializzate per settori.
Malgrado la diversità dei problemi particolari da affrontare, e la relativa loro semplicità nel caso americano, la nascita degli Stati Uniti è per gli europei di importanza fondamentale poiché in essa si scorgono, quasi in una esperienza in vitro, i dati fondamentali di un problema che è identico a quello di fronte al quale si trova oggi l’Europa democratica.
Gli Stati americani, anche se molto più giovani, più omogenei e meno differenziati di quelli europei, erano Stati sovrani. La Confederazione non era un potere superiore ad essi; era semplicemente il consesso dei loro rappresentanti, era una Società delle Nazioni o una organizzazione delle Nazioni Unite ante litteram. A leggere gli Articles of Confederacy si potrebbe avere l’illusione che gli «United States in Congress assembled» potevano prendere delle decisioni che impegnavano tutti i suoi membri. In realtà il Congresso non poteva che fare delle raccomandazioni agli Stati i quali conservavano il potere di decidere e di eseguire.
Gli Stati americani erano decisi, come gli Stati europei attuali, a non rinunziare alla loro personalità politica e costituzionale.
Infine, quantunque la loro economia e la loro politica estera fossero più semplici di quelle europee attuali e presentassero problemi diversi, il problema si poneva per loro in termini identici a quelli degli europei attuali; se volevano sviluppare le loro forze economiche e se volevano evitare di diventare pedine di un giuoco diplomatico condotto nel mondo da potenze assai più grandi di ciascuno di essi, dovevano in qualche modo darsi un’unità politica, costituire un potere che emanasse e facesse rispettare leggi comuni per tutti destinate ad assicurare il loro benessere, e che rappresentasse tutti gli americani di fronte all’estero, ne tutelasse gli interessi e li difendesse.
Gli americani, come gli europei di oggi, desideravano non essere sottomessi che ad un potere democratico, o, come dicevano allora, repubblicano, cioè tale che permettesse il controllo dei governati sui governanti e garantisse le libertà dei cittadini.
Infine gli americani, come gli europei di oggi, si trovavano dinanzi alla circostanza che questo potere non poteva praticamente sorgere nel modo in cui normalmente si costituisce il potere, cioè mediante l’impiego della forza, ma poteva solo essere il frutto del consenso delle parti che si sarebbero unite.
Se la Costituzione americana è un modello su cui riflettere, ciò è dovuto solo alla maniera originale ed intelligente con cui essi hanno saputo non lasciarsi sopraffare dalla difficoltà e dare una soluzione profondamente razionale all’insieme dei problemi di fronte ai quali si trovavano.
Se l’unione doveva sorgere dal consenso, occorreva che il patto di unione fosse un documento scritto che i singoli Stati avrebbero dovuto liberamente accettare.
Se c’erano affari pubblici di interesse comune essi dovevano essere affidati ad un potere politico sovrano la cui capacità di decidere e di eseguire fosse indipendente dalla buona volontà dei singoli Stati, poiché questi sarebbero stati di norma capaci di comprendere ed amministrare gli affari pubblici solo dal punto di vista della loro particolare comunità.
Se gli Stati erano decisi a conservare la loro individualità, occorreva determinare quel che sarebbe stato di competenza del potere comune e quel che sarebbe stato di competenza dei singoli Stati, e stabilire che ciascuno sarebbe stato sovrano nell’ambito delle sue competenze, cioè capace di decidere e di eseguire per conto proprio secondo regole costituzionali proprie, senza interferenza né degli Stati nella vita federale, né della Federazione nella vita statale. Ciò implicava che Stati e Federazione avrebbero avuto in comune da una parte il cittadino dello Stato e della Federazione, tenuto ad obbedire alle leggi dell’uno e dell’altra, a pagare imposte all’uno ed all’altra, e d’altra parte avrebbero avuto in comune l’obbedienza ad una Corte federale la quale avrebbe avuto il compito di garantire il rispetto del patto federale, decidendo se l’uno o l’altro potere avesse sorpassato le sue competenze ed invaso il campo dell’altro.
Infine se le libertà democratiche dovevano essere garantite sul piano federale come su quello dello Stato, la Costituzione federale avrebbe dovuto assicurare le varie forme di divisione del potere, e di controllo dei governati sui governanti corrispettivo all’obbligo dei primi ad obbedire alle decisioni dei secondi.
La distribuzione delle competenze fra potere federale e poteri federati, le forme del potere esecutivo, legislativo e giudiziario federale, le modalità della revisione costituzionale, possono essere in ogni federazione assai differenti. L’effettiva azione politica di ogni federazione è senz’altro diversa in ogni singolo caso, poiché le circostanze sono diverse. Se si volesse prendere a modello in questi campi la Costituzione americana e la vita politica americana, si commetterebbero certamente grossolani errori.
Ma l’unificazione sopranazionale di determinati aspetti della vita pubblica non può sottrarsi alla logica del sistema americano, perché si tratta della logica stessa della costruzione del potere politico.
Quel che i federalisti europei hanno sentito di importante nella costruzione americana è per l’appunto questa capacità che i suoi fondatori hanno avuto di comprendere i veri termini della costruzione di uno Stato, che sono sempre problemi di costruzione di una forza e di determinazione dei suoi limiti. Ciò che essi rimproverano ai funzionalisti, ed in genere agli uomini di Stato europei, è che essi hanno assai acuto il senso della concreta politica che l’Europa come tale dovrebbe fare, ma sono ciechi e sordi alla domanda: quale è il potere europeo che dovrebbe eseguire quelle funzioni e come lo si deve costituire.
Il modello americano è perciò stato, nelle sue caratteristiche fondamentali, quel che i federalisti europei hanno sistematicamente contrapposto ai tentativi funzionalistici dei governi europei. I ragionamenti del Federalist hanno risuonato attraverso le loro parole ed i loro scritti in Europa.
Inizialmente i governi sono stati del tutto sordi a queste critiche. Quando si è presentata la grande occasione di unificazione offerta dal Piano Marshall, hanno creato come organo di consultazione e di redistribuzione degli aiuti americani l’OECE. I federalisti hanno sostenuto che in tal modo si sarebbe solo proceduto a ricostruire le vecchie economie nazionali, ma non a mettere in piedi un sistema economico europeo. Ed è ciò che è avvenuto.
Quando i governi hanno creato il Consiglio d’Europa, i federalisti hanno dimostrato l’impotenza di un organo consultivo, fondandosi sulla massima che «influence is not government», ed i fatti hanno confermato quest’analisi.
Quando i governi hanno creato la prima e finora sola autorità specializzata per il settore del carbone e dell’acciaio, i federalisti hanno sottolineato che manca agli organi della CECA ogni possibilità di legiferare anche solo nel ristretto ambito del mercato carbosiderurgico, e che non è possibile mettere veramente in comune il mercato di queste due materie prime lasciando il resto della politica economica e tutta la politica monetaria e finanziaria nelle mani dei governi nazionali. I fatti hanno confermato che l’Alta Autorità, ben lungi dall’affermarsi, non ha mai avuto la forza di prendere per proprio conto le decisioni che in base al trattato aveva il potere di prendere, lasciando invece sempre prendere quasi tutte le decisioni al Consiglio dei Ministri nazionali, che è diventato il vero dirigente della Comunità. La liberalizzazione del carbone e del ferro ha fatto indubbiamente in questi anni notevoli progressi, perché c’è stata una congiuntura economica favorevole, ma l’interrogativo circa quel che accadrà se la congiuntura cambierà e se i governi ripiegheranno su politiche economiche restrizioniste è e resta senza risposta.
Ad un certo momento i governi sono giunti, spinti dal corso degli avvenimenti, a concepire l’idea di un esercito comune. In questo momento la critica federalista ha cominciato a far presa. Messi di fronte all’assurdità di un esercito che non sarebbe più appartenuto agli Stati, e non sarebbe appartenuto ad uno Stato europeo perché inesistente, i sei governi hanno dovuto accettare il punto di vista federalista ed accingersi a far elaborare da quella che fu detta Assemblea ad hoc un vero e proprio statuto destinato a fondare un potere esecutivo, legislativo e giudiziario autonomo della Comunità europea.
E’ noto come i redattori del progetto abbiano agito in modo contraddittorio, creando da una parte un sistema di governo federale e dall’altra non già una garanzia di rappresentanza per gli Stati federati, ma un freno assoluto per il meccanismo federale, costituito da un Consiglio di Ministri nazionali che avrebbe dovuto dare il suo avviso conforme a qualsiasi atto governativo o legislativo della futura Comunità. Se questa fosse entrata in vigore o il Consiglio dei Ministri avrebbe paralizzato completamente il potere della Comunità, o questo avrebbe fatto saltare il freno. Questa crisi è stata evitata solo perché, entrato in crisi lo schieramento di forze politiche che promuoveva l’azione europea, la CED e con essa la Comunità politica sono cadute prima ancora di entrare in vigore.
I governi non hanno saputo trarre la morale da questo fallimento, e anziché riconoscere che solo dando vita ad un potere europeo sicuro, forte e fondato sul consenso democratico degli europei, si possono affrontare i difficili problemi della costruzione dell’effettiva unità economica, militare e diplomatica, hanno fatto ulteriori passi indietro rispetto ai precedenti loro tentativi, sostituendo un’alleanza militare all’idea dell’esercito europeo, cercando ora di creare una Comunità atomica fatta a somiglianza della CECA, e sognando un mercato comune che dovrebbe essere sottoposto non ad un governo europeo, ma al solito Consiglio di Ministri nazionali responsabili verso i parlamenti nazionali.
Ancora una volta i federalisti sono costretti a contrapporre a questi inconsistenti tentativi il modello americano, cioè la creazione di un potere europeo, reale, indipendente dai poteri nazionali, solo competente per decidere nelle materie di interesse comune.
E’ questa in breve la storia dell’influenza del modello americano sui tentativi europei. La misura in cui ci si è voluti sottrarre al suo insegnamento è la misura stessa dei fallimenti finora registrati, e dei vicoli ciechi in cui i tentativi di unione europea si sono finora infilati.
La grande differenza fra l’esperienza americana di 170 anni fa e l’esperienza attuale europea è nel fatto che la società e la cultura politica americana erano giovani ed audacemente volte verso l’avvenire, mentre società e cultura politica europea sono vecchie, anchilosate, e volte verso il passato. Se ciò nonostante in esse ci siano ancora, latenti, energia ed intelligenza sufficienti per scegliere quel che del passato bisogna salvare e quel che bisogna distruggere, pur essendo un po’ meno rispettosi verso la storia ed un po’ più verso la logica, è una domanda la cui risposta non è possibile dare oggi poiché sarà data solo alla fine di questa difficile opera di rinnovamento. Se essa terminerà con la sconfitta, si potrà dire che il modello costituzionale americano non avrà servito a nulla per gli europei. Se terminerà con la creazione di una Federazione europea, si dovrà riconoscere l’enorme importanza che l’invenzione del mondo politico americano — poiché la Costituzione federale è stata una vera e propria invenzione — avrà avuto per risolvere un nodo di contraddizioni che il vecchio mondo europeo aveva create, e dalle quali non sarebbe più riuscito a districarsi facendo ricorso alla propria presunta «saggezza».
 
(a cura di Nicoletta Mosconi)


* In Luciano Bolis (a cura di), La nascita degli Stati Uniti d’America, Milano, Comunità, 1957.

 

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