IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLIV, 2002, Numero 2, Pagina 118

 

 

CONTRO L’EUROSCETTICISMO
 
 
E’ fenomeno significativo — e si è manifestato, negli ultimi tempi, soprattutto in Italia, ma ha riflessi importanti anche in altri paesi dell’Unione europea — quello per cui fino ad alcuni anni addietro la diffidenza, o addirittura l’ostilità dichiarata verso l’integrazione europea (verso tutta l’integrazione europea, comunque concepita, e non solo verso l’attuale struttura comunitaria) era prerogativa della sinistra in genere, e dell’estrema sinistra in specie; mentre assai più favorevole era l’atteggiamento delle destre moderate: irriducibilmente anti-europea essendo solo la destra più nazionalista, dalla Signora Thatcher in Gran Bretagna a quelli che oggi in Francia si definiscono souverainistes. Oggi invece non è raro il caso di sinistre moderate relativamente favorevoli, e in ogni caso assai meno sospettose di un tempo, di fronte al problema dell’unità europea. Così ad esempio in Italia, dove i comunisti fanno di tutto per far dimenticare i loro trascorsi violentemente anti-europei; così in Germania, dove il nome di Schumacher ormai ricorda solo un pilota automobilistico, e in parte anche in Gran Bretagna. La destra, invece, assume non di rado toni fortemente euro-scettici, come è accaduto per esempio in Italia col primo governo Berlusconi e con quello attuale (atteggiamento che tuttora caratterizza molta della di destra italiana).
Resta ad ogni modo che le caratteristiche essenziali di questo euroscetticismo — quelle che a nostro avviso ne qualificano la sterilità ed inconsistenza — sono in larga proporzione simili, quale che ne sia il colore politico. Nelle pagine che seguono esamineremo tale scetticismo e gli argomenti che esso avanza (a nostro avviso quasi tutti pretestuosi), di proposito non distinguendo la provenienza di chi li formula, in genere appartenente tanto all’uno come all’altro schieramento, con non commendevole concordanza d’intenti.
 
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L’atteggiamento di coloro che criticano, in Europa, il federalismo, tanto nel suo aspetto sovranazionale (le molto parziali realizzazioni dell’UE, che essi vorrebbero non migliorare e completare, ma eliminare, insieme a tutta l’organizzazione), quanto nel suo aspetto interno (e cioè il federalismo infranazionale che, al limite, propone la creazione di grandi regioni membri diretti dell’istituenda Federazione europea), tale atteggiamento, dicevo, presenta, quasi senza eccezioni né variazioni, questi tratti salienti, che si ritrovano, più o meno, in tutti gli scritti di chi afferma di dubitare dei vantaggi dell’unità europea, e si oppone, in modo più o meno esplicito, ad essa.
1) Il disprezzo — testimoniato dalla volontaria, sistematica ignoranza — del pensiero di grandi studiosi liberali in tema di unificazione europea (ricordiamo solo, per brevità, Luigi Einaudi, Lionel Robbins, Benedetto Croce) che non si sente il bisogno di confutare, cancellandone anche il ricordo. Un anti-liberalismo che confina con l’irrazionalismo.
Disprezzo che va congiunto, in tali «euro-scettici» — continuiamo, per eufemismo, a definirli così —, con la consonanza delle loro tesi (consonanza che per essere, se è, casuale non è per questo meno significativa) con le critiche che all’integrazione europea da un lato venivano rivolte dai comunisti dei primi decenni post-bellici (e dai superstiti comunisti d.o.c. vengono ancora rivolte), e dall’altro venivano e vengono rivolte, in termini paradossalmente non molto diversi, dall’estrema destra più accesa e illiberale (si vogliono svuotare e annientare le nazioni, le loro tradizioni, tutta la nostra storia a beneficio di un’ americanizzazione subdolamente promossa dagli odiati yankees, con la colpevole collaborazione di molti lacché europei).
2) Colpisce particolarmente la piena coincidenza con tutto l’ armamentario della propaganda comunista del buon tempo antico. L’intera responsabilità del sipario di ferro e del «sequestro» dei paesi dell’Europa centrale e orientale, secondo alcuni di questi critici, sarebbe imputabile alla Comunità europea, concepita appunto a tal fine (anche qui agli ordini degli americani guerrafondai e nemici della pace e dell’Europa). L’Unione Sovietica, Stalin, la «sovranità limitata» non c’entrano.
3) All’UE, e ai governi e forze politiche che la sostengono, sarebbero analogamente da attribuire le difficoltà e i ritardi dell’allargamento ad est dell’Europa comunitaria, dopo il crollo dell’Unione Sovietica: difficoltà che hanno indubbiamente la loro origine anche nell’egoismo conservatore degli Stati che fanno parte dell’UE, ma sono altresì causate, e in proporzione sicuramente maggiore, dalle disastrate condizioni economiche, sociali e politiche in cui i regimi imposti per quasi mezzo secolo dall’Unione Sovietica hanno ridotto quei disgraziati paesi, condizioni che complicano non poco la loro adesione all’Unione europea (come confermano le perduranti difficoltà che conosce anche la riunificazione tedesca).
Certo, questi critici hanno ragione quando lamentano l’indifferenza e la lentezza con cui l’Europa comunitaria si è aperta, o piuttosto non si è aperta ai paesi dell’ area ex-sovietica (e, più in generale, non è stata in grado di elaborare una sua Ostpolitik degna di questo nome), con gravi conseguenze per i popoli che, liberatisi dal giogo sovietico, speravano di esser accolti più generosamente e rapidamente in seno alla comunità dei più fortunati fratelli occidentali. Ma la causa prima e più importante di tale carenza sta nella debolezza e insufficienza delle strutture istituzionali comunitarie: e sono proprio quelle che i nostri euro-scettici vorrebbero invece vedere non rafforzate attraverso l’unità federale, ma invece eliminate e soppresse in radice, come realtà del tutto anacronistiche e legate alla guerra fredda, o almeno fortemente ridimensionate e depurate di ogni elemento di sovranazionalità.
4) Comune a questi anti-federalisti (ma io li chiamerei sic et simpliciter anti-europei) è anche un’accusa quasi altrettanto assurda, rivolta all’UE: quella di non risolvere tutti i problemi del vecchio continente (e del mondo), e di lasciar fuori dall’ambito comunitario un largo spazio di disordine e di sottosviluppo, quasi che tale disordine e sottosviluppo — s’insinua — fossero funzionali e indispensabili allo sviluppo e all’ordine comunitario. E’ in sostanza l’accusa, all’Unione europea, di non essere unione planetaria: accusa che ignora il principio che «il meglio è nemico del bene» e disconosce l’esigenza di gradualità, la necessità di un tempo adeguato perché processi storici di grande portata possano compiersi.
5) Ma il difetto più grave di tali concezioni ostili all’unità europea è ancora un altro. E’ l’assenza di ogni piano, di ogni progetto alternativo a quello che esse condannano e rifiutano. Che cosa si sarebbe dovuto fare cinquant’anni addietro, quando in Italia Luigi Einaudi constatava che Stati nazionali sono ormai «polvere senza sostanza» e Robert Schuman proponeva il suo piano, suggeritogli da Jean Monnet? E cos’altro si dovrebbe fare oggi se non approfondire e democratizzare dandole competenze politiche e militari e creando così le condizioni istituzionali indispensabili per estenderla ad est con maggior e altruismo di quanto le attuali strutture dell’UE non consentano?
Ed essendo hic et nunc impossibile che tale Unione, per quanto la si voglia e possa estendere, giunga ad abbracciare l’intero pianeta, quale altra forma è auspicabile che assuma se non quella statale? Lo Stato costituisce un fondamentale e insostituibile strumento di ordine, di giustizia e di libertà: a condizione però — è questo il punto — che esso abbia ormai dimensioni continentali, e cioè tali da prevenire i rischi individuati da Einaudi, e oggi rappresentati, tra l’altro, dalla cosiddetta «globalizzazione», che non va certo combattuta frontalmente, ma controllata. E questo può farlo validamente solo uno Stato di quelle dimensioni.
Chi non riconosce questo viene a trovarsi in scomoda compagnia con l’ex premier italiano Giuliano Amato: che — dopo aver definito, anni addietro, il federalismo interno «un virus come l’AIDS»[1] — ha più di recente completato il suo davvero singolare pensiero pronunciando un giudizio più sfumato nella forma, ma sostanzialmente non diverso sul federalismo europeo, che egli ritiene ormai totalmente superato. A suo dire infatti non ci sarebbe affatto bisogno, in Europa, di uno Stato sovranazionale: meglio tornare al Medioevo alla pluralità dei centri di potere, accettando senza riserva l’anomia crescente prodotta dalla globalizzazione.[2]
6) In sintesi: per trovare un qualche spunto positivo in questa letteratura intransigentemente anti-europeistica,[3] occorre interpretare — spesso con molta buona volontà — le tesi da essa svolte come manifestazione d’insoddisfazione — questa, sì, giustificata — per le carenze, le insufficienze, le inadeguatezze del processo integrativo in atto.
Come agli scritti che condannano senz’appello, facendo erba un fascio, il federalismo interno, vedendo in ogni movimento che lo promuove, nessuno escluso, l’espressione più bieca e retrograda di micronazionalismo, tribalismo, razzismo e chi più ne ha più ne metta, può almeno riconoscersi il merito di mettere in guardia contro una frammentazione dell’Europa, e degli Stati nazionali, non corretta da un momento unitario, da una salda aggregazione sovranazionale; così all’euroscetticismo che oggi va di moda può attribuirsi il merito di richiamare l’attenzione sulle molte — troppe — imperfezioni che ancora caratterizzano l’Unione europea (e che il pensiero federalista — intenzionalmente ignorato da questi autori — non manca di porre in luce), così come sulle altre carenze che talora anche i federalisti europei trascurano (ad es. l’esigenza sopra accennata di una profonda federalizzazione interna dei nostri Stati).
Ma anche qui rimane da dire in che senso deve avvenire la correzione di quei difetti. Cercando di compiere il salto dall’ibrida formula comunitaria, mezzo topo e mezzo uccello, a un genuino Stato federale europeo? O facendo tabula rasa di tutto, per tornare al vecchio concerto europeo di Stati sovrani (ma in realtà ormai sempre meno sovrani, e, quanto più divisi, tanto più succubi di influenze straniere, ad opera di grandi potenze di dimensioni continentali, esistenti o in fieri)?
I federalisti, almeno, danno una risposta univoca, gli euro-scettici no. Ed è questa la carenza più grave. Anche De Gasperi ebbe a dire una volta — e fu una battuta particolarmente felice — che per fare l’Europa occorre assai più distruggere che costruire. Ma questo non significa che ci si debba limitare alla pars destruens — nel qual caso si fa solo del «luddismo».
7) Un caso particolare è quello delle critiche che da questo versante si rivolgono all’euro, che auspicano non il suo rafforzamento grazie al passaggio ad un’Europa anche politica, e non solo monetaria, ma il suo affossamento. Se un neonato nasce prematuro, si può porlo in un’incubatrice, oppure, come facevano gli spartani, esporlo sul monte Taigeto. I nostri euro-scettici non hanno dubbi sulla scelta da compiere.
Voglio qui, eccezionalmente, personalizzare l’avversario, individuandolo in un personaggio al tempo stesso fra i più informati e fra i più corretti, il quale riassume l’essenziale delle critiche svolte da tutti gli altri. Si tratta dell’economista tedesco, naturalizzato americano, Hans F. Sennholz, e di un suo scritto ospitato in una rivista italiana.[4] Il Sennholz non si pronunzia, neppure implicitamente, contro l’integrazione europea o contro l’euro, e si limita a osservare che la debolezza della moneta europea dipende, tra l’altro, dalle mancate riforme dello Stato sociale nei vari paesi, come pure dalla forte attrazione che esercita sugl’investitori europei la new economy statunitense ad alto contenuto tecnologico. Questa è però solo una parte della verità. Ciò che qui manca è il rilievo che, almeno nei più lungimiranti fra gli autori del progetto euro, vi era la piena consapevolezza che, come dicono gli inglesi, money does’nt manage itself e che pertanto, a medio-lungo termine, una moneta europea ha senso e può «tenere» solo se è affiancata da un governo europeo dell’economia. Nell’assenza di questo sta la vera debolezza dell’euro.
Valga qui l’opinione di un alto tecnocrate americano, Lawrence B. Lindsey,[5] che fa parlare la sua competenza personale, oltre che il suo acume politico, e non certo il pregiudizio ideologico e il partito preso, europeista a tutti i costi, che potrebbero essere rimproverati a noi federalisti. Egli, dopo aver rilevato che l’Europa manca, a differenza degli Stati Uniti, di un adeguato sistema di mobilità del mercato del lavoro e di un federalismo fiscale degno di questo nome, e più in generale di «istituzioni fiscali impegnate nella correzione dei cicli economici», aggiunge (ed è il punto decisivo): «Perché l’euro possa aver successo, l’Europa dovrebbe avere un meccanismo decisionale centralizzato capace di prendere decisioni nel campo della politica economica e fiscale. Sono, in ultima istanza, istituzioni forti e affidabili che fanno la forza e la stabilità di una moneta: e cioè un vero e proprio Stato come in America».
In questa prospettiva vi è da chiedersi se, nell’ambito di una lotta politica trasferita, in ordine ai massimi problemi, a livello europeo le difficoltà che oggi ostacolano le riforme strutturali con ragione auspicate da Lindsey non potrebbero essere superate meno faticosamente e, in particolare, se la ricerca scientifica e tecnologica indispensabile a dinamizzare l’economia europea e a ridurre il suo divario, evidenziato anche dal Sennholz, da quella statunitense non sarebbe possibile solo grazie a un programma coordinato a livello continentale, promosso e assecondato da un governo europeo. Altro tema che i federalisti hanno sviluppato da lungo tempo (ricordiamo solo, fra questi, l’economista Alberto Majocchi, dell’Università di Pavia).
8) Un giudizio ancora più severo deve essere formulato sugli autori che svolgono, e spesso con la più piena convinzione, il sofisma che Unione europea = Europa socialista = chiusura commerciale. Da qui il corollario che per cambiare politica occorre distruggere le istituzioni comuni — e non, come noi sosteniamo, svilupparle e perfezionarle, dando loro struttura democratica e respiro politico, con trasformarle in uno Stato federale, entro cui sarà del tutto fisiologica, come in ogni sistema democratico, l’alternanza fra destra e sinistra, tra forze più o meno statalistiche.
Anche qui quella conclusione iconoclastica appare non ispirata a una valutazione obiettiva, fondata su un ragionamento logico e su dimostrazioni argomentate, ma dettata da un cieco pregiudizio ideologico (che io faccio derivare dalla grave lacuna storica della cultura europea, priva — salvo eccezioni che confermano la regola — di ogni tradizione federalista, e quindi di un’approfondita conoscenza della natura, del funzionamento, delle possibilità di uno Stato federale), lacuna connessa con il timore preconcetto del nuovo, tipico di ogni gretto conservatorismo. Un pregiudizio e una chiusura ideologica, dicevo, che portano non al superamento — la hegeliana Aufhebung — delle attuali strutture politiche dell’Unione europea, ma alla loro sterile e frustrante «negazione semplice».
Da ciò la critica di questo euro-scetticismo, che deve essere di necessità severa e senza mezzi termini, dato il suo carattere meramente distruttivo e l’assenza di ogni progetto europeo alternativo, rispetto a quello criticato. Difetto intellettuale — la mancanza di ogni capacità propositiva — a cui si accoppia il difetto morale: l’assenza di ogni sincerità.
 
***
 
Tuttavia, per essere fino in fondo equanimi e unicuique suum tribuere, bisogna domandarsi se i primi responsabili di questo euro-scetticismo, e quelli che ne forniscono una qualche giustificazione, non siano proprio gli europeisti ufficiali e d’appellation controlée, che, con il loro fatuo ottimismo di dilettanti, esaltano l’UE qual è, giacché «dopo tutto essa ha dato risultati straordinari». E danno per scontato, per fare solo un esempio, che l’Europa resti spettatrice inerte (e come, allo stato attuale, potrebbe essere diversamente?), di fronte alle continue stragi in Medio Oriente.
Tutto ciò ci induce a chiederci se l’Unione europea, nei limiti e nelle forme in cui si è venuta consolidando in mezzo secolo di vita (che è un longum aevi spatium anche per delle istituzioni) non sia andata progressivamente acquistando caratteristiche qualitativamente diverse — sempre più diverse — dal progetto originario dei federalisti, e che alcuni federalisti — voces clamantes in deserto — continuano a difendere: caratteristiche che sembrano ormai irreversibili.
La mia personale risposta a questa domanda tende ad essere positiva (dico tende, perché non mi sento un profeta). L’Europa sognata dai federalisti era ed è — per dirla con Spinelli — un’Europa «imperativo di civiltà». Quella esistente è una semplice impresa economica, fondata solo sull’interesse (e non di rado sull’egoismo). E le giovani generazioni — e anche, ormai, quelle di mezza età — non conoscono se non questa; mentre gli Stati nazionali, sia pur declassati e ridotti al rango di medie e piccole potenze, escluse dalle grandi scelte internazionali, si sono in qualche modo adattati a questa loro decadenza e stancamente e poco gloriosamente, ma sopravvivono.
E’ allora da chiedersi, se il proposito di ridare un’anima a una Unione europea che l’ha da gran tempo, e definitivamente, perduta non sia il vano tentativo di far rivivere un cadavere. Se cioè l’Unione europea — l’intera Unione europea — non debba esser lasciata sopravvivere stancamente nella sua attuale esistenza «incerta fra la vita e il nulla» (per dirla con un poeta italiano, Giovanni Pascoli), e se l’ideale federalista non debba essere rilanciato — se pur sarà possibile — con un progetto (una forza politica che lo propugni) interamente nuovo. O se invece l’occasione presentatasi negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale non sia andata perduta per sempre, e gli europei non si siano definitivamente adattati ad essere, avrebbero detto i nazisti, geschichtspensionierte Völker, popoli in pensione dalla storia.
Certo, diceva Benedetto Croce, la storia è un processo sempre aperto e, aggiungeva Orazio, multa renascentur quae jam caecidere. Ma, prosegue Max Scheler, il lungo intervallo che precede tale incerta rinascita è caratterizzato da una sittliche Stagnation, da un immobilismo morale in cui importanti conquiste vanno, per intere generazioni, interamente perdute.
E’ questa la sorte che attende gli europei? O è ancora possibile, come dicono i francesi, un sursaut d’orgoglio e di resipiscenza?
E’ quello in cui, nonostante tutto, continuiamo a confidare.
 
Andrea Chiti-Batelli


[1] Intervista a Gad Lerner nella Stampa dei 14 ottobre 1996.
[2] Articolo nella Repubblica del 21 maggio 2000; intervista a Franco Venturini nel Corriere della Sera del 4 luglio; conversazione con Barbara Spinelli nella Stampa del 13 luglio.
[3] Ne ho svolto un esame critico particolareggiato nel mio vol. Letteratura pro e contro Maastricht, Roma, Ed. Dimensione Europea, 1995, pp. XLIX, 270.
[4] La rivista è Federalismo e Libertà (fino a qualche anno fa Federalismo e Società) Bologna, e l'articolo è apparso col titolo «Euro incerto e deboluccio» nel n. 3-4/2000.
[5] Mi riferisco alla relazione del Lindsey — che fino alla metà del 1997 è stato membro del Consiglio della Riserva degli Stati Uniti — nel volume del Philip Morris Institute, Quale ruolo globale per l'U.E.?, Bruxelles, 1997 (apparso in più lingue). Le preoccupazioni economiche e politiche del Lindsey e di altri sono ampiamente ed efficacemente argomentate — anche se da un punto di vista solo molto tiepidamente europeista — nei contributi al numero del 14 novembre 1997 di Aus Politik und Zeitgeschichte, allegato al settimanale di Bonn Das Parlament: numero interamente dedicato ai problemi e alle difficoltà dell'Unione europea all'indomani dell'accordo di Amsterdam e alla vigilia dell'entrata in vigore della moneta europea; e ripetute, in termini ancor più critici, da Milton Friedman (in Dossier Europa, Roma, n. 21, dicembre 1997, edito dalla Commissione dell’UE) e da vari altri autori americani (riassunti da Richard Lambert nel Financial Times del 19 novembre 1997). Una discussione più approfondita di tutto l'argomento, e un esame particolareggiato delle tesi favorevoli e contrarie alla moneta europea, può trovarsi nel mio volume Letteratura pro e contro Maastricht, cit. alla nota 3.

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