IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLIV, 2002, Numero 1, Pagina 56

 

 

RAPPORTO POLITICO DEL PRESIDENTE
DEL BUREAU EXECUTIF, MARIO ALBERTINI*
 
 
I
Questo Congresso, il XIII del MFE, non deve soltanto discutere, e scegliere, una linea politica sulla base della situazione europea attuale. Deve anche dare il suo contributo all’unificazione di tutti i federalisti, e ciò comporta da parte di tutti, e quindi anche da parte nostra, la ricerca dei presupposti che consentono ai federalisti di scegliere in comune, di volta in volta, una politica concreta.
Nel nostro passato c’è, d’altra parte, l’esperienza di una scissione. Dobbiamo dunque fondare la riunificazione su basi più solide di quelle del passato, superando anche la difficoltà costituita dal fatto che, dal 1956, le esperienze dei federalisti sono state diverse per ragioni che la divisione in organizzazioni separate ci ha impedito di conoscere bene.
Bisogna dunque, in primo luogo, prendere coscienza di queste differenze teoriche e pratiche, ed accettarle lealmente, poiché nessuno, nell’ambito del federalismo, ha il diritto di lanciare scomuniche. E bisogna, nello stesso tempo, cercare e trovare ciò che ci unisce al di sopra di queste differenze, per fondare la nostra unità su basi indistruttibili.
Non potremmo certo criticare seriamente la divisione dell’Europa restando, noi stessi, divisi. Ma c’è di più. Per il solo fatto di esistere, la nostra unità ha un grande significato politico e storico. Siamo la prima, e ancora l’unica, organizzazione sovranazionale di lotta politica della storia del sistema europeo. La nostra organizzazione costituisce dunque la prova concreta che è possibile superare, nell’impegno politico, la posizione nazionale. In quanto tale, è una sfida per tutti, e innanzitutto per noi stessi.
Per noi stessi, che dobbiamo mostrare di essere capaci di mantenere, di sviluppare, e di impiegare efficacemente nella lotta, la nostra unità sovranazionale. Per i partiti, e per ogni altro gruppo politico, ivi compresi i partiti che potrebbero formarsi nel settore della contestazione, che, nel confronto con la nostra unità sovranazionale, non potrebbero mascherare eternamente la sostanza nazionale della loro politica con un internazionalismo di facciata o velleitario.
Naturalmente la nostra unità non esclude, anzi comporta, la diversità. Non si può certo fondarla su un pensiero monolitico e dogmatico. Il federalismo è la forma più alta di libertà perché è l’unità di tutte le libertà, di tutte le diversità. E’ dunque una unità da riconquistare giorno per giorno, ristabilendo ogni volta un legame tra le esperienze, necessariamente diverse a causa della continua novità della vita, di ogni gruppo e di ogni federalista. Una unità di questo genere non può esistere senza la reciproca fiducia, e il massimo sforzo di chiarezza da parte di tutti.
Le diversità separano quando non vengono apertamente ammesse, quando si cela in tutto o in parte il proprio pensiero per la paura del giudizio altrui, o per dominare gli altri lasciandoli all’oscuro delle proprie intenzioni. Le diversità separano gli uomini non liberi, ma uniscono gli uomini liberi, che non hanno bisogno di nascondere il loro pensiero perché non vogliono né dominare né servire, e che non sono tratti a disprezzare il pensiero di nessuno perché non si mettono mai al di sopra degli altri, e sanno che anche l’errore fa parte del processo di conoscenza della verità.
Per quanto ci riguarda, il dovere della chiarezza ci impone di dire apertamente, senza alcuna reticenza, come abbiamo interpretato il federalismo nel corso di questi anni. Io non potrò certo dire che cosa sia stato, nel suo significato globale, il MFE dal 1956 in poi. Si tratta di un problema che ciascuno di noi può lasciare tranquillamente agli storici che se ne occuperanno nel futuro. Ma ciascuno di noi deve dire come ha vissuto la sua esperienza federalistica, il che significa anche, nella misura del possibile, e con l’animo sempre disposto ad ammettere i propri errori, come ha capito l’esperienza degli altri militanti, e, in primo luogo, quella dei grandi teorici che hanno creato le basi del pensiero federalistico.
Questa è la prima cosa da fare per riconquistare l’unità, e mantenerla. Le difficoltà da superare per creare un movimento supernazionale non solo sulla carta, ma anche nella realtà concreta dell’azione e della lotta, sono molto grandi, e noi le abbiamo superate solo in parte. Per superarle completamente, dobbiamo conoscerci meglio. Chi vi parla ha fatto con altri militanti una esperienza alla quale è stata data, dagli altri, il nome «hamiltoniana». Orbene, è certo che noi abbiamo studiato il pensiero di Hamilton, che ci pare indispensabile per ogni federalista, ma è anche certo che se dovessimo, per scegliere la nostra etichetta, scegliere il nome di un solo teorico, noi faremmo il nome di Kant e non quello di Hamilton.
Come teorico della politica e del diritto, Kant è un federalista. Kant è il solo pensatore che abbia elaborato una concezione federalistica dello sviluppo dialettico della storia verso il traguardo dell’affermazione universale della pace, della libertà, dell’eguaglianza e della ragione. Oggi si pensa, da parte di molti, che sia possibile fare politica senza ispirarsi a grandi principi teorici. Questo atteggiamento è presente, purtroppo, anche tra i federalisti. Ma a nostro parere bisogna chiedersi se questo non sia un atteggiamento da superare. Bisogna chiedersi se questo non sia un segno, forse il maggiore, della decadenza dell’Europa divisa, della resa a poteri sempre più distaccati dalla società, dal senso che ha la vita per tutti gli uomini, della resa a poteri sempre più tecnocratici e sempre meno umani.
A nostro parere, la nostra forza, e la forza stessa dell’Europa che cerca ancora di unirsi, è, in ultima istanza, la forza dei principi teorici, e dunque, in primo luogo, la forza del pensiero di Kant, e di tutti i grandi teorici che, dopo Kant, hanno dato dei contributi effettivi alla concezione del federalismo, cioè alla sola concezione con la quale si può unire l’Europa, quella dell’unità nella diversità.
 
II
Dire in breve quale sia per noi il significato dell’unità europea non è facile. Quando ci si rende conto che l’unità europea è necessaria, e che l’unità può essere assicurata solo da una federazione, ci si può illudere di aver capito l’essenziale, di essere giunti ad una conclusione. Ma non è vero. In questo modo si è trovato solo il punto di partenza di una esperienza nuova, ed è solo nel corso di questa esperienza che si svela, gradualmente, il significato dell’unità europea.
Dirò dunque quale sia stato per noi il significato dell’unità europea all’inizio della nostra esperienza, e quale sia ora. Il concetto dell’unità europea non è un concetto nuovo. Nella sua forma moderna, federalistica, risale ai nodi sciolti e creati dalla rivoluzione francese. E’ un passato che ci riguarda, che dovremmo conoscere, che dovremmo illustrare.
E’ cosa nota che, quando si affermò nella realtà pratica il principio nazionale moderno con lo Stato popolare, lo Stato nazionale, si affermò anche, nella realtà ideale, il principio degli Stati Uniti d’Europa. C’è, a questo proposito, un filo continuo, che comincia con la componente cosmopolitica della rivoluzione francese e l’utopia europea di Sant-Simon, e non si spezza più. Non lo si ritrova soltanto nei grandi utopisti, negli animatori dei congressi della pace e dei congressi di giuristi della fine del secolo scorso. Lo si ritrova anche, a cavallo tra l’utopia e la realtà politica, nelle ideologie che hanno costituito, di volta in volta, il pensiero politico dominante. Ha alimentato il pensiero liberale, quello democratico e quello socialista, che non erano del resto formulabili senza formularli come soluzioni valide per tutti gli uomini, ed in particolare per gli europei, e non solo per i cittadini di questo o di quel paese.
Questa sostanza internazionalistica a tendenza federalistica nel corpo stesso delle ideologie che animarono il processo storico del secolo scorso è molto più consistente di quanto non si ritenga di solito se è vero che Lenin, nel 1915, sentì il bisogno di prendere posizione sulla «parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa». La forza di questa parola d’ordine era ancora tale da costituire un ostacolo per l’affermazione della sua linea politica, e Lenin, nel suo scritto al proposito, non volle, né forse poteva, smentire il significato positivo degli Stati Uniti d’Europa, ma si limitò ad affermare la necessità di una premessa, quella della rivoluzione socialista in Europa, che egli del resto riteneva prossima, mantenendo così nell’orizzonte di un futuro prossimo e concepibile la lotta per gli Stati Uniti d’Europa.
A che cosa si deve la resistenza storica di un ideale così smentito dai fatti, nel secolo scorso e nella prima metà del nostro? La nostra ipotesi è che la contemporaneità — ancora in ombra e purtuttavia vera — dell’affermazione pratica delle nazioni moderne e dell’affermazione ideale degli Stati Uniti d’Europa nascerebbe da una necessità ideale, afferrabile subito: il concetto nazionale come nuovo concetto dello Stato richiedeva in effetti una nuova concezione della società internazionale. Questa necessità non era soltanto ideale ma anche pratica. Non si è ancora messo sufficientemente in rilievo, ma Proudhon l’aveva intuito durante il corso stesso degli eventi e Mazzini aveva superato l’ostacolo col suo vaticinio di fratellanza dei popoli, che lo Stato nazionale, come formula politica, è incompatibile con la vecchia pratica dell’equilibrio europeo, basato su Stati assoluti ma limitati.
Questo limite era molto forte nella politica internazionale perché l’aristocrazia era una società europea con una solidarietà europea al di sopra degli Stati. Sino alla rivoluzione francese l’identificazione ultima e fondamentale della personalità politica non si manifestava come legame con lo Stato, e nemmeno con la nazionalità, ma con la cristianità o, nella versione laica, con la Repubblica europea dei letterati. Metternich pensava ancora in questo modo, e credeva davvero nella esistenza di un ordine — anche giuridico, il diritto europeo — al di sopra degli Stati.
Questo limite, d’altra parte, era molto forte anche nei condizionamenti interni della politica internazionale sia perché la cultura del popolo (la nazionalità) non costituiva ancora un elemento vitale per lo Stato, sia perché non si era ancora formato l’amalgama degli interessi economici di tutti e di motivazioni della politica degli Stati che si è sviluppata con la rivoluzione industriale e la piena realizzazione dello Stato burocratico moderno.
La fusione di Stato e nazione ha fatto cadere questi limiti, che lasciavano fuori dalla sfera dello Stato molti valori civili e materiali. I rapporti fra gli Stati divennero molto difficili. L’Europa esperimentò una divisione che non aveva mai conosciuto nel passato. Questo aspetto dell’ultima fase della vita del sistema europeo degli Stati — ormai come sistema degli Stati nazionali — dovrebbe essere, a mio parere, tenuto più presente, e studiato in profondità. In ogni modo, un fatto è certo: l’affermazione del principio nazionale in Italia e in Germania, che corrisponde al superamento definitivo della politica internazionale dei sovrani illuminati, è sfociata nella prima guerra mondiale, e spiega il carattere nuovo, generalizzato, totale di questa guerra. D’altra parte, l’universalizzazione dei principio nazionale in Europa, generata dalla prima guerra mondiale, è sfociata nella seconda guerra mondiale, nella fine dell’Europa, che può ormai ritrovare una storia attiva solo se risolverà, con la sua riunificazione, il problema internazionale posto dalla creazione dello Stato nazionale.
La potenza, cioè il potere effettivo di decisione a livello internazionale, è emigrata dall’Europa nell’America del Nord, nel territorio coperto dall’Impero zarista e consolidato dall’Unione Sovietica, e nella Cina, anche se in forme ancora embrionali. E non si tratta di una vicenda che potremmo, sin da ora, iscrivere nell’idea dei cicli storici come esaurimento di vecchie forze storico-sociali e avvento di nuove forze storicosociali. Si tratta invece, e la partita è ancora aperta perché l’Europa è ancora unificabile, dell’esaurimento storico di una formula politica, quella dello Stato nazionale, e dell’affermazione storica irreversibile di nuove forme statali, più vaste e più complesse, con una base implicitamente o esplicitamente plurinazionale (la Cina è una civiltà, come l’Europa, non una nazione, ed entro certi limiti gli Stati Uniti d’America sono, come è stato detto, una federazione europea riuscita), e una struttura federale, o, praticamente, dietro il velo dell’ideologia, imperiale.
Quando abbiamo iniziato la nostra esperienza federalistica, ci siamo trovati di fronte a questa realtà, a queste conseguenze di un passato storico che ci era ancora oscuro. Ma una cosa ci risultava chiara. Per l’Europa la divisione significava ormai la morte storica. I mali della divisione dell’Europa erano, e sono, un fatto di comune evidenza. Ma non era, e non è ancora, di comune evidenza il fatto che questi mali sono mortali, che non c’è avvenire per gli Stati se non si federano a tempo. Questo carattere della realtà era riconoscibile, nei suoi elementi essenziali, nel pensiero di un saggio italiano. Possiamo richiamare il suo pensiero in breve perché, pur essendo stato il travaglio di una vita intera, è stato espresso con una brevità lapidaria in una occasione drammatica, quella della temuta, e imminente, caduta della CED. Eccolo: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti o scomparire. Le esitazioni e le discordie degli stati italiani della fine del quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli; e il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente ad impedire l’unione, facendo cadere gli uni nell’orbita nord-americana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano, non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica».
Si tratta di una nota scritta il 1° marzo 1954 da Luigi Einaudi mentre esercitava l’ufficio di Presidente della Repubblica italiana. Noi conoscevamo da molto tempo questo giudizio storico di Luigi Einaudi. Sapevamo di essere di fronte all’eventualità della morte storica dell’Europa, e che il tempo disponibile era breve. Sapevamo di doverci battere per l’unità senza perdere tempo, anche se tutte le forze politiche perdevano e perdono tempo perché antepongono sempre finalità nazionali al vero obiettivo europeo, e concepiscono l’unificazione come un processo molto lungo, così lungo da risultare impossibile.
Almeno in noi, l’unità europea avrebbe dovuto vivere subito, perché solo la vita può sconfiggere la morte. E nel batterci contro ogni cosa che divide l’Europa, nel tentativo di negare la divisione dell’Europa, si è fatta luce in noi l’idea di ciò che potrebbe essere la vita dell’Europa. Noi siamo stati, e siamo, i nemici dello Stato nazionale esclusivo. La nostra esperienza culturale si è fondata sulla negazione dello Stato nazionale. Ci siamo formati e cerchiamo di esprimerci attraverso questa negazione.
Del resto, sono proprio i nostri lavori, se non mi sbaglio, che costituiscono il solo serio tentativo di demistificazione di questo tipo di Stato. Naturalmente, la pretesa di negare non corrisponde al successo della negazione. Non siamo noi i giudici, ma sono gli altri. Io non posso fare altro che esporre brevemente le nostre idee. Una di esse è che il passaggio dallo Stato nazionale allo Stato europeo implica una trasformazione materiale, storica, di grande rilevanza, un vero e proprio cambiamento sociale di base. C’è l’abitudine di considerare la parola «sociale» come un sinonimo di «classe» e di «lotta di classe». Ma la realtà è più complessa, perché così si dimentica l’enorme importanza sociale del fatto nazionale.
Lo Stato nazionale è la comunità politica che tenta di rendere, e in parte vi riesce, omogenei tutti i nuclei comunitari esistenti al suo interno. In fondo, la sua natura tendenzialmente totalitaria si manifesta già nel fatto che questo tipo di Stato è in grado di vivere solo se riesce a rendere la lingua unica e omogenei i costumi su tutto il suo raggio d’azione (anche se, per i costumi, è riuscito a imporre l’illusione, più che la realtà, della loro unificazione). Questa base sociale artificiale fa sì che un uomo che nasce a Torino si senta uguale a un uomo che nasce a Palermo e diverso, nella sua origine umana, da qualsiasi uomo nato in un altro Stato (anche se, di fatto, e a prescindere dall’origine comune di tutti gli uomini, c’è più diversità fra un torinese e un palermitano che, ad esempio, fra un torinese e un lionese).
Al contrario, non è possibile costruire lo Stato europeo su questa base sociale, o provocare la formazione di questa base con l’aiuto di uno Stato europeo. E’ stato possibile creare la lingua italiana come lingua nazionale partendo da Firenze, la lingua francese partendo da Parigi, per l’Europa non è possibile fare nulla di simile. Nessun centro di potere è in grado di imporre una lingua unica in Europa, di ottenere che i francesi cessino di parlare in francese e gli italiani in italiano. A maggior ragione nessun centro di potere è in grado di imporre in Europa l’illusione, e in parte la realtà, dell’unificazione dei costumi. Per illustrare con una formula questa situazione, i federalisti non si stancano di ripetere che in Europa sarà possibile la formazione di un popolo di nazioni, non un popolo nazionale, un popolo federale, pluralista, non monolitico.
Questo è un aspetto concreto che bisogna prendere in considerazione. Il secondo aspetto concreto è di carattere istituzionale. Bisogna premettere che le accuse di «istituzionalismo» rivolte ai federalisti sono prive di senso. E’ ovvio che non esistono istituzioni senza una base sociale corrispondente e che non si può lottare per alcune istituzioni che quando si ritiene che vi sia una base sociale su cui fondarle e farle funzionare. Spesso il supremo dovere politico è proprio quello di distruggere le istituzioni che soffocano nuovi sviluppi sociali e di creare nuove istituzioni per nuovi sviluppi. Bisogna anche precisare che chi rifiuta l’istituzionalismo europeo accetta, di fatto, l’istituzionalismo nazionale, anche se non se ne rende conto, e considera un processo, quello della nazione, che esige in realtà una condizione istituzionale preliminare: il quadro nazionale organizzato di espressione delle forze storiche.
Detto questo, si può affrontare rapidamente l’argomento con l’ausilio di una chiave presa in prestito dalla cultura anglosassone. La cultura europea del continente presenta una lacuna, rispetto alla cultura anglosassone. In quest’ultima si fa una netta distinzione fra il principio unitario (nazionale) e il principio federale (pluralista). Nello Stato nazionale la rappresentanza sovrana è unitaria. La «repubblica una e indivisibile» ne è la naturale conseguenza. Ma questa repubblica riduce ad una pura forma apparente la divisione dei poteri, che dovrebbe invece costituire la garanzia politica della libertà. E con risultati veramente demoniaci essa affida al centro di potere che ha in mano la «spada», l’esercito, anche la scuola, la cultura.
Questo Stato non può — ogni aspirazione in un altro senso resta marginale, velleitaria — non servirsi della scuola e della cultura per fare dei cittadini dei buoni soldati. E lo fa. La storia nazionale, che ci perseguita dalla scuola elementare fino all’università, mette a nudo, a cominciare dai racconti edificanti per i ragazzi, il rispetto della cultura storico-sociale per le necessità pratiche, autoritarie e bellicose, dello Stato. E’ questa cultura che ritroviamo nell’aspetto statale dei comportamenti sociali — elezioni nazionali, servizio militare nazionale — e nei riti politici.
Ed è ancora questa cultura che si manifesta nel riferimento arbitrario dei dati universali della realtà storica e dell’attualità politica e sociale ai quadri nazionali, con una insidia ancora maggiore perché questa manipolazione, per l’assenza del lato scopertamente edificante, fa tacere la coscienza di aver servito il potere invece della verità. Questa cultura, che dipende dallo Stato, fa dello Stato nazionale il padrone della coscienza degli individui.
Al contrario, nello Stato federale vi è lo sdoppiamento della funzione sovrana, della sovranità. La lotta politica non si sviluppa in un solo quadro, per un solo potere, il quale poi controlla con i prefetti tutti i poteri al livello inferiore. Essa si sviluppa nel quadro federale e nel quadro degli Stati membri. La differenza è basilare. La divisione del potere su scala territoriale, invece di essere esclusivamente funzionale, trova una base sociale concreta. E questa distribuzione del potere su una base territoriale, nella sua più tipica espressione, non può sopravvivere senza il primato della Costituzione sul potere.
La sua unità si fonda in effetti su una regola, quella della distribuzione del potere tra ogni Stato membro e il governo federale, mentre nello Stato unitario l’unità risiede in un centro di potere al quale tutto è subordinato, giudice e parte di fatto della stessa Costituzione. Non è per caso che la teoria del giudizio costituzionale dei tribunali — e non solo la Corte costituzionale, frutto tardivo della decadenza dello Stato nazionale — è nata con il primo Stato federale della storia, la Federazione americana. Non è per caso che la Federazione americana, embrione e residuo del primo fatto federale, non ha un ministro per l’educazione, un ministro dell’interno, né prefetti.
L’Europa avrebbe dunque questa base sociale, questo carattere istituzionale. questa distribuzione legale del potere. E’ la ragionevole previsione di una situazione possibile, anche se bisogna ammettere che non sarebbe ancora perfettamente federalistica. E’ una previsione, non un sogno, perché questa situazione non dipenderebbe dall’arbitrio individuale, ma dall’impossibilità di formare uno Stato nazionale europeo, unitario e centralizzato.
Ma questa conclusione non è sufficiente per spiegare il senso dell’unità europea. I federalisti si assumono la responsabilità dell’imperfezione europea, alla quale ho fatto allusione, e del fatto che tale imperfezione corrisponde in effetti a una negazione insufficiente dei valori autoritari e bellicosi dello Stato nazionale. Per questa ragione il loro discorso va oltre l’Europa, e in modo ben preciso. Per questa ragione, quando le servitù della lotta restringono troppo l’orizzonte e nasce il bisogno di guardare lontano, noi diciamo che bisogna ancora fare politica per preparare il giorno in cui gli uomini non saranno più costretti a fare politica. Noi ci battiamo per la Federazione europea solo perché la coscienza rivoluzionaria non permette di evadere dalla realtà.
A questo proposito, vorrei sottolineare due cose. La prima è che nessuno obbligherà i federalisti, anche se col loro contributo si formerà l’Europa per la quale si battono, a fiancheggiare il governo europeo. Anche a costo di essere scherniti, come si è verificato, i più coscienti di noi hanno sempre sostenuto che il loro posto, in Europa, sarà all’opposizione. L’Europa lo permetterà. L’Europa avrà una opposizione. E’ singolare che le sinistre europee non ne tengano conto, e giungano così ad immaginare uno Stato europeo più compatto, più totalitario, dello Stato nazionale. In realtà, le sinistre nazionali dovrebbero chiedersi se una opposizione europea non sarebbe più feconda delle opposizioni nazionali. Ma voglio spiegare questo paradosso: la partecipazione alla costruzione di uno Stato che sappiamo già di dover criticare. Non è affatto sconcertante. E’ il paradosso di ogni progresso sulla strada della rivoluzione. La rivoluzione è mondiale e universale. Per tale ragione ogni progresso su questa via perde il suo senso, per chi se ne assume la responsabilità — e ciò, in un modo o in un altro, avviene sempre — se egli non accetta questo destino: restare all’opposizione dopo aver assolto il proprio compito.
Mi spiegherò meglio, spero, sottolineando il secondo punto. Le grandi tappe della rivoluzione hanno sempre avuto due significati: uno pratico, immediato, accertabile nelle nuove istituzioni e nei nuovi comportamenti politici e sociali, e uno teorico, accertabile solo nella cultura, se per cultura si intende ciò che motiva in profondità la formazione del pensiero umano. La rivoluzione francese, valutata in confronto non alla vita di prima, ma agli ideali dell’incendio rivoluzionario, ha avuto un esito modesto: lo Stato che oggi condanniamo con l’espressione «giacobino-napoleonico», senza con ciò disconoscere le barriere che ha fatto cadere, le forze storiche che ha liberato.
In ogni modo, lo Stato «giacobino-napoleonico» non ha distrutto il significato globale della rivoluzione francese. Con la rivoluzione francese è stato affermato nella cultura dell’umanità il principio democratico. Nonostante la sua realizzazione imperfetta, nonostante tutte le sconfitte della democrazia, questo principio ha messo salde radici nel cuore dell’uomo, non è stato più tolto di mezzo. Il fascismo, che lo negava apertamente, è stato spazzato via. Gli Stati socialisti a partito unico, che lo negano di fatto nella pratica, non possono smentirlo nella teoria e nei riti della vita politica.
Una osservazione analoga vale per la rivoluzione sovietica. Il distacco tra le aspirazioni rivoluzionarie e lo Stato sovietico è così forte che ormai è ovvio concludere che non si è realizzato il comunismo, ma un rigido capitalismo di Stato. Tuttavia, dicendo «capitalismo di Stato» si mette in evidenza un aspetto empirico della realtà sovietica a danno del suo significato storico. Siamo consapevoli che il comunismo non si è realizzato. Ma dovremmo anche essere consapevoli del fatto che, dopo la rivoluzione sovietica, non è più legittima, sotto il profilo culturale, la proprietà privata dei mezzi sociali di produzione. La vera proprietà sociale dei mezzi di produzione è ancora lontana, come è ancora lontana, d’altra parte, la democrazia vera e propria. Ma come l’assolutismo è morto, io credo per sempre, nel cuore degli uomini, così sta morendo, nel cuore degli uomini, il principio della legittimità della proprietà privata dei mezzi sociali di produzione.
La pratica si adatta alla democrazia imperfetta, guidata e manipolata, dell’Occidente; alla gestione, guidata e manipolata, della produzione collettiva, in Oriente. La cultura, no. Ed è la cultura che segna il distacco tra ciò che è e ciò che deve essere, motivando così le correnti più profonde della vita.
Alla luce di queste osservazioni mi pare che non si possa valutare lo Stato europeo senza tener presente, accanto a ciò che negherà in pratica — come pratica negata che mostra quale potrà essere la sua realtà pratica — ciò che negherà in teoria, per mettere in evidenza non solo ciò che affermerà praticamente, immediatamente, ma anche ciò che affermerà nella sfera della cultura. In pratica, lo Stato europeo negherà, con le conseguenze già esposte, lo Stato nazionale. In teoria, negherà le nazioni, o meglio, la fusione della nazione e dello Stato, l’asservimento della nazione, che di per sé è cultura e universalità, allo Stato unitario, cioè chiuso, che di per sé è potenza e particolarismo. Nel suo messaggio natalizio del 1954 Pio XII, un Papa discusso, ma che tuttavia non ci si deve rifiutare di ascoltare se e quando dice la verità, ha definito, a mio modesto avviso giustamente, questo tipo di Stato come una delle creazioni più demoniache della storia umana, proprio per questa ragione.
Qual è il significato di questa negazione teorica? La Federazione americana non permette di constatarlo. Ci sono ragioni storiche. Essa si è formata in quella che era ancora una via marginale della storia, al riparo dai grandi conflitti fra gli Stati e fra le classi. Ed essa ha negato — è la constatazione specifica — tredici piccoli Stati senza storia statale e nazionale. Ma la Federazione europea dovrà negare fin dall’inizio la Francia, la Germania, l’Italia: le grandi nazioni storiche. Le grandi nazioni storiche sono l’espressione della cultura della divisione politica del genere umano. La loro negazione equivarrà dunque alla negazione della cultura della divisione politica del genere umano.
E’ vero che la Federazione europea sarà uno Stato fra gli Stati. Sdoppierà il lealismo dei cittadini, affiancando una elezione europea alle elezioni nazionali. Si può pensare che romperà l’equazione «cittadino eguale soldato», abolendo il servizio militare obbligatorio. Ma dovrà difendere la sua autonomia anche con mezzi militari, come potenza fra le potenze. Con la pratica, resterà sul terreno della divisione politica del genere umano, anche se l’esame della sua ragion di Stato, che richiederebbe un altro discorso, induce a ritenere che sarà meno brutale, e socialmente meno compressa, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America.
Ma, con la teoria, lo Stato europeo sarà sul terreno della negazione della divisione politica del genere umano. Questa è la cosa storicamente più importante. La cultura della divisione politica del genere umano è la cultura che ha legittimato nei fatti, mistificando il liberalismo, la democrazia e il socialismo, sovietico e non, il dovere di uccidere. La cultura della negazione della divisione politica del genere umano è la negazione storica di questo dovere; è l’affermazione, nella sfera del pensiero, del diritto di non uccidere, e perciò il quadro storico della lotta per affermarlo anche in pratica, al di là della Federazione europea, con la Federazione mondiale e l’emancipazione di tutti gli uomini.
Solo questa potrà essere, per noi, la vita dell’Europa.


* Si tratta del Rapporto al Congresso di Nancy (6-9 aprile 1972), pubblicato in francese in Le Fédéraliste, XIV (1972).

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