IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLII, 2000, Numero 1, Pagina 70

 

 

INTERDIPENDENZA UGUALE UNIFICAZIONE?
 
 
Negli ultimi due numeri di questa rivista sono stati pubblicati due ampi articoli che presentano in modo organico i termini del dibattito in corso da tempo nel Movimento federalista europeo, che presenta convergenze e divergenze, sul ruolo dei federalisti in questa fase della storia mondiale.[1]
In questo dibattito è scontato l’accordo sul valore da perseguire da parte dei federalisti (la pace) e sul mezzo per la sua affermazione (la Federazione mondiale). Lo stesso accordo esiste sulla necessità di utilizzare come criteri di analisi quelli basati sui concetti di corso della storia, materialismo storico e ragion di Stato. La linea politica — che discende dalla linea teorica e che consiste nell’identificare le risposte che dà il federalismo ai problemi sul tappeto, sia a livello europeo, sia a livello mondiale — nei suoi termini generali è condivisa.
Che cosa dunque separa le due posizioni che sono andate emergendo? E perché il dibattito non riesce a procedere in modo costruttivo, perché non si riesce a stabilire un «contatto», che è il presupposto per evitare da una parte la ripetizione all’infinito della propria rispettiva posizione e dall’altra che un confronto di idee diventi uno scambio di accuse?
La prima domanda riguarda la ricerca delle radici oggettive delle differenze, mentre la seconda domanda riguarda la ricerca delle loro radici soggettive.
 
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Per rispondere a queste domande va tenuto presente un problema cruciale: quello del linguaggio e del significato da dare ai termini che si usano.
Sappiamo come sia difficile «tenere fermo» il linguaggio quando si affrontano problemi storico-politici, perché nel suo uso entrano in gioco non soltanto la natura complessa — e non manipolabile attraverso esperimenti — della realtà che quel linguaggio dovrebbe descrivere, ma anche i desideri, le aspirazioni, i valori degli uomini. Nelle scienze fisiche e naturali, quando una teoria è consolidata gli scienziati attribuiscono un significato univoco ai termini che usano. Nelle cosiddette scienze storico-sociali ciò non avviene ancora. E il grande sforzo teorico di Albertini per identificare un approccio scientifico alla storia attraverso le teorie del materialismo storico e della ragion di Stato ha come scopo, appunto, quello di superare l’impasse del pensiero vagante e arbitrario e del linguaggio incerto e non univoco.
Questo sforzo non si è tradotto in una sistemazione scritta e ciò può obiettivamente creare difficoltà. Non basta infatti affermare che i nostri criteri di interpretazione della storia sono il materialismo storico e la ragion di Stato, ma bisogna anche sapere come e quando questi criteri vanno usati. Se l’uso degli stessi criteri porta a posizioni diverse e contrapposte, ciò significa o che non c’è chiarezza sui criteri o che essi vengono applicati in modi diversi.
 
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Noi abbiamo sempre indicato la Federazione mondiale come l’obiettivo da perseguire per realizzare il valore della pace, e il quadro mondiale come la sola dimensione entro la quale i problemi della sicurezza ambientale e della disuguaglianza economica e sociale fra i popoli della Terra avrebbero trovato soluzione.
Ma siamo sempre stati consapevoli che essere rivoluzionari implica non solo riuscire ad identificare un obiettivo politico rivoluzionario, bensì anche tenere conto delle determinazioni della realtà. Le prime, e più generali, sono certamente le determinazioni sociali, sulle quali si può far luce attraverso il materialismo storico, secondo il quale le trasformazioni del modo di produrre, e quindi dei rapporti di produzione, stanno alla base della modificazione dei rapporti di potere. Ma bisogna sempre tener presente che il materialismo storico è un modello per fare descrizioni storiche generali che ci permettono di identificare una legge evolutiva della storia. In quanto tale, esso non può essere usato né per dedurre il «qui e ora», né per spiegare un singolo evento storico nella sua specificità, che è compito dell’analisi storica concreta, né per che cosa succederà domani o stabilire che la storia ci porterà inevitabilmente alla Federazione mondiale.
Certo, possiamo esaminare la storia già accaduta e verificare se si sono manifestate o se si manifestano delle tendenze verso questa finalità, ma questo esame non ci può fornire altro che dei giudizi di plausibilità. Si può pensare a una tendenza in termini di previsione, di uno sbocco certo, solo se un evento storico è talmente sviluppato che possiamo considerarlo radicato nella realtà in modo indistruttibile (ma anche in questo caso, se non si accetta, come non si deve accettare, l’atteggiamento profetico, bisogna mettere in conto una possibile smentita). Andare oltre questa concezione del materialismo storico, e considerare il modello come una descrizione della realtà, porta inevitabilmente a una concezione meccanicistica della storia, che è del tutto contraddittoria con il pensiero rivoluzionario in quanto è incompatibile con l’idea che sia necessaria la manifestazione della volontà, e quindi della libertà, per introdurre nella storia il nuovo.
Nella sfera politica l’agire umano libero si manifesta sul fronte del potere e dei rapporti di potere, la cui possibilità di modificazione subisce un duplice condizionamento: da una parte essi sottostanno alle determinazioni sociali messe in luce dal materialismo storico (a un determinato modo di produzione corrispondono certi rapporti di produzione, e quindi certi rapporti di potere), dall’altra essi sottostanno alle determinazioni messe in luce dalla teoria della ragion di Stato, e più in generale della ragion di potere. Ed è sulla base della presa di coscienza di queste ultime che si possono elaborare progetti politici riguardanti la sfera dei rapporti internazionali.
In sostanza, il materialismo storico ci indica le grandi trasformazioni del quadro storico-sociale globale che rendono pensabili degli obiettivi politici. Ma l’identificazione concreta degli obiettivi e la strategia adeguata per raggiungerli sono legate all’analisi della situazione di potere esistente.
 
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Queste considerazioni ci permettono di esaminare con un qualche fondamento uno dei problemi che sono emersi nel corso del nostro dibattito, che solo in apparenza ha il carattere di una disputa linguistica. La questione riguarda l’affermazione che è in atto il processo di unificazione mondiale sulla base dell’aumento e dell’accelerazione del processo di interdipendenza globale.
Questa affermazione va esaminata attentamente, perché essa sta alla base dell’identificazione, già da ora, di obiettivi ritenuti strategici e dell’applicazione a livello mondiale dell’indicazione contenuta nel concetto di «gradualismo costituzionale».
Quando Albertini ha esaminato il processo di unificazione europea ha posto fortemente l’accento sulla differenza fra unificazione e integrazione, definendo l’unificazione di Stati come «un processo che ha il significato di una individualità storica di grande rilievo, e carattere marcatamente politico».[2]
Se si afferma che è in atto un processo di unificazione mondiale, bisogna dunque poter descrivere dei fatti marcatamente politici, ossia legati alla sfera del potere, che indichino che è in atto, sulla base di una crescente integrazione, un concreto progetto di unificazione. Si deve poter appurare, cioè, la volontà di cedere, sia pure progressivamente, potere da parte degli Stati in vista della creazione di un nuovo sovranazionale a livello mondiale.
Se questo obiettivo non è in vista, allora parlare di unificazione mondiale significa stabilire l’equazione interdipendenza uguale unificazione, e ciò è del tutto fuorviante, perché i due termini non sono omogenei: l’uno rispecchia un «processo», l’altro un l’uno in un certo senso pertiene al «regno della necessità» in senso kantiano o marxiano, l’altro al «regno della libertà».
L’interdipendenza ha evidentemente delle conseguenze sul «comportamento» degli Stati, nel senso che li spinge a collaborare in alcuni settori cruciali per la loro sopravvivenza (proliferazione di organismi internazionali), e questo processo, sulla base dei criteri del federalismo e del materialismo storico, potrà sfociare in una fase di unificazione. L’obiettivo finale, cioè, non è in discussione. Ciò che è in discussione è l’interpretazione della collaborazione attuale come segno inequivocabile di unificazione in atto, con la conseguente possibilità di azioni strategiche.
In realtà, accettare quell’equazione può significare mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di quei mondialisti la cui prospettiva non è la creazione di uno Stato mondiale, ma è la global governance. E può anche essere la premessa per scivolare nella trappola del funzionalismo, che vede ogni piccolo passo avanti nella collaborazione fra Stati come un avanzamento dell’unificazione.
 
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La cooperazione internazionale non può essere un obiettivo dei federalisti, che hanno sempre fatto della critica all’internazionalismo un pilastro della loro analisi teorica e della loro strategia. Tuttavia, di fronte a una cooperazione crescente, è giusto chiedersi quale deve essere il nostro giudizio, così come è giusto verificare la possibilità di una strategia politica, ma con la consapevolezza che non è nostro compito puntare su obiettivi di collaborazione internazionale quando non esiste ancora una situazione di potere che permetta di considerare quegli obiettivi come passi graduali costituzionali verso l’obiettivo finale.
E’ evidente che si deve auspicare l’aumento della cooperazione internazionale e che si devono invece stigmatizzare quelle politiche che esasperano i conflitti. Ci sono delle fasi, nei rapporti internazionali, in cui, come federalisti, dobbiamo esprimere un giudizio positivo nei confronti di atti o processi che, pur rimanendo nei limiti della semplice collaborazione tra gli Stati, creano a lungo andare le condizioni perché si possa iniziare una battaglia politica più avanzata. Un esempio di questo atteggiamento è stata l’analisi e la posizione di Albertini quando, nell’era Gorbaciov, ha elaborato la distinzione fra «distensione tradizionale» e «distensione innovativa», identificando in quest’ultima — e nel concetto che ne stava alla base, la cosiddetta sicurezza reciproca — un possibile passo verso il superamento della politica di potenza.[3] In quel contesto possiamo dire che effettivamente era in atto una convergenza delle ragioni di Stato che ha spinto le due superpotenze verso una prospettiva di collaborazione che non si poteva che approvare.
Nonostante ciò non si è aperto un fronte strategico nuovo a livello mondiale, ma è nata la speranza che, una volta creata la Federazione europea in un quadro internazionale meno conflittuale, essa avrebbe potuto condurre una politica di collaborazione più avanzata con le altre potenze per affrontare i problemi del sottosviluppo e per estendere la democrazia «a tutte le famiglie del genere umano».
Ciò detto, noi, in quanto federalisti e non internazionalisti, non possiamo esimerci dal denunciare la semplice collaborazione, che crea maggiore governabilità, come inefficace. E’ nostro compito indicare il superamento della sovranità degli Stati come condizione per realizzare la pace e la democrazia internazionale, essendo consapevoli che la collaborazione è un passaggio obbligato, ma che, finché funziona, il nostro ruolo non può essere strategico.
 
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La strategia non può essere separata dalla linea teorica e dalla linea politica, ma in una battaglia politica ha un fondamento e una funzione diversi. Innanzitutto non è «autonoma», nel senso che non può essere pensata se non in funzione di un obiettivo politico e un obiettivo politico rivoluzionario è possibile e perseguibile se, e solo se, l’assetto istituzionale o di potere che si vuole modificare manifesta la chiara e definitiva incapacità di continuare a svolgere il proprio ruolo (crisi). La Federazione europea è diventata un obiettivo politico dopo la seconda guerra mondiale, mentre in precedenza era un ideale condiviso da chi credeva nel valore della pace.
Dunque, per impostare una strategia a livello mondiale è necessario concordare non tanto sul fatto che i problemi globali richiedono risposte globali, ma sul fatto che la situazione di potere nel mondo oggi rende possibile identificare la Federazione mondiale come obiettivo perseguibile direttamente già da ora.
Identificare o meno la Federazione mondiale come obiettivo politico perseguibile già da ora è il presupposto per poter affrontare il problema della transizione, che, senza quel presupposto, è un concetto vago e ambiguo. Se infatti noi usiamo i criteri del corso della storia e del materialismo storico, dobbiamo necessariamente considerare le varie fasi della storia come una transizione verso la Federazione mondiale. Ma in realtà noi abbiamo sempre usato il termine transizione non in senso storico, bensì in senso politico, ossia come quella fase nella quale è possibile o in atto una battaglia ben strutturata, in cui ogni forza in gioco svolge il ruolo che le è proprio o che le compete, in funzione di un obiettivo politico esplicito, oggettivamente perseguibile e soggettivamente riconosciuto come tale, anche da chi, come i governi, ne ha una coscienza ambigua e, fino alla fine del processo, continuerà a manifestare reticenze e resistenze per quanto riguarda la cessione del potere. E’ questo il quadro in cui trova il suo fondamento il gradualismo costituzionale come strategia della transizione.
 
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Quello della strategia è probabilmente il problema cruciale sul quale riflettere per cercare di capire anche la radice soggettiva delle divergenze.
Chi ha alle spalle una lunga militanza nella battaglia per la Federazione europea ha basato il suo impegno, oltre che su una scelta di valore, anche sul fatto che c’erano le condizioni per «dare battaglia» (eclissi delle sovranità nazionali, unità di fatto ecc.) sulla base di reali obiettivi strategici. Ed è certamente più difficile tenere il campo se quei reali obiettivi strategici non sono chiaramente in vista, è difficile accettare di ricominciare una lunga marcia nel deserto, di ridursi a pochi, di «fare politica senza fare politica» (cioè senza confrontarsi con il potere), di non poter visualizzare risultati che gratifichino.
Ma ciò non deve indurci a cercare obiettivi strategici immediati indipendentemente dalla situazione di fatto, pur di mobilitare energie, che sembra tanto più facile mettere in moto quanto più l’obiettivo è carico di risonanze emotive e suscita perciò un facile consenso. In pratica c’è il pericolo di indicare l’obiettivo politico, la Federazione mondiale, come perseguibile già da ora per delineare una strategia, per identificare occasioni strategiche che in realtà non lo sono in quanto non modificano la situazione di potere pur dando l’illusione di farlo.
Il vuoto strategico può innescare un meccanismo psicologico negativo di ansia e inquietudine che può indurre a respingere il realismo indispensabile in una battaglia politica. Tuttavia, se tenuto sotto controllo, quel vuoto può risultare positivo, perché ci spinge a stare all’erta, per non perdere delle occasioni che si potrebbero presentare e che non devono coglierci impreparati.
E’ comunque importante essere consapevoli che uno dei nostri compiti è anche quello di far vivere il federalismo, e che esso è un compito a lunga scadenza, non sottoposto, come quello strategico, alle vicissitudini politiche. Ma per far vivere il federalismo è indispensabile essere rigorosi nel denunciare non solo i suoi nemici, i nazionalisti, ma anche gli errori dell’internazionalismo e del funzionalismo.
I federalisti europei sono i primi ad aver affrontato veramente, sul campo, la sfida del superamento della sovranità assoluta degli Stati, perché la storia ne ha loro offerto l’occasione. La capacità di elaborazione teorica che si è manifestata nel gruppo d’avanguardia del federalismo europeo guidato da Mario Albertini è certamente legata anche al continuo confronto con un processo di unificazione in atto. E sarà proprio questa esperienza accumulata che dovrà indicarci i nostri compiti futuri, in vista dell’obiettivo kantiano della pace perpetua. Ma, come soleva ripetere Albertini, la rivoluzione non può associarsi all’impazienza: il vero rivoluzionario è colui che la associa alla pazienza.
 
Nicoletta Mosconi


[1] Francesco Rossolillo, «Federazione europea e Federazione mondiale», in Il Federalista, XLI (1999), pp. 80 e segg.; Lucio Levi, «L’unificazione del mondo come progetto e come processo. Il ruolo dell’Europa», in Il Federalista, XLI (1999), pp. 150 e segg.
[2] Mario Albertini, «L’unificazione europea e il potere costituente», In Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 291.
[3] «Distensione tradizionale e distensione innovativa», in Il Federalista, XXX (1988), pp. 167 e segg.

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