IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LIII, 2011, Numero 1, Pagina 31

 

 

Il Piano Briand di “Unione federale europea”
 
GABRIELE FELICE MASCHERPA
 
 
Il Progetto di Unione federale europea presentato nel 1930 da Aristide Briand all’Assemblea della Società delle Nazioni, più noto con il nome di Piano Briand, rappresenta un caso particolarmente interessante per l’analisi federalista. Innanzitutto si tratta del primo progetto d’integrazione istituzionale dell’Europa che abbia superato lo stadio di semplice proposta intellettuale e sia stato effettivamente vagliato dai governi degli Stati europei. Altri aspetti particolarmente interessanti sono, inoltre, il comportamento dei personaggi politici e dei governi, l’azione dei primi federalisti organizzati nell’associazione Paneuropa di Richard Coudenhove Kalergi, il ruolo degli Stati e del sistema dell’equilibrio nel quadro internazionale estremamente complesso del primo dopoguerra, la nascita delle prime organizzazioni internazionali e la presenza di una drammatica crisi economica. Il progetto porta il nome del francese Aristide Briand, personaggio chiave nella IV repubblica francese, rimasto a lungo sulla scena politica, vestendo più volte i panni di presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri. Di formazione radicale e socialista, Briand è ricordato principalmente per il suo impegno a favore della pacificazione e fu insignito nel 1926 del premio Nobel per la pace assieme al suo omologo tedesco Gustav Stresemann a seguito del Patto di Locarno.
Briand era dotato di un grande slancio ideale ed era molto influente presso i capi di Stato e i diplomatici europei; tuttavia, sotto certi aspetti, mancava di un’acuta capacità analitica, e ciò gli impedì di riconoscere i limiti del proprio progetto. Strinse buoni rapporti di collaborazione con il conte Coudenhove-Kalergi, fondatore dell’Unione Paneuropea, il quale gli offrì la presidenza onoraria dell’organizzazione. Largamente ispirato dalle tesi di Paneuropa, Briand elaborò con la collaborazione di Alexis Leger (meglio noto con lo pseudonimo di Saint-John Perse), il Piano di Unione federale europea.
Per comprendere appieno la genesi del Piano Briand e le ragioni del suo fallimento è necessario analizzare brevemente la situazione dell’Europa nel decennio successivo alla Prima guerra mondiale. La Grande guerra fu una guerra rivoluzionaria, che cambiò il volto dell’Europa: aveva mobilitato risorse materiali, umane e morali, aveva modificato le strutture sociali, aveva creato le condizioni perché si scatenassero rivoluzioni, aveva modificato gli attori del sistema creando nuovi Stati e aveva mutato i rapporti di forza tra essi. Gli estensori dei trattati di pace furono condizionati dalla necessità di contenere la rivoluzione comunista, che rischiava di espandersi all’Europa occidentale;[1] da quella di ridimensionare la Germania, che era riuscita, praticamente sola, a tenere in scacco l’intera coalizione occidentale e dal bisogno di riempire i vuoti geopolitici lasciati dal crollo degli Imperi tedesco, asburgico, ottomano e russo. I nuovi confini vennero disegnati seguendo ufficialmente il principio espresso nei 14 punti wilsoniani dell’“autodeterminazione” dei popoli, e cioè creando Stati-nazione su basi etnico-linguistiche, anche se il principio che fu realmente determinante fu quello dell’equilibrio, seguendo il quale i vincitori intendevano stabilire un sistema di sicurezza basato sul bilanciamento di potenza. Non si spiegherebbero altrimenti le mutilazioni subite da Ungheria e Germania in regioni a forte maggioranza etnica magiara e tedesca e l’impedimento alla neo-costituita Repubblica d’Austria di unificarsi con la Germania attraverso la clausola della garanzia internazionale alla sua indipendenza. La dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico e il tracollo dell’Impero Ottomano avevano altresì visto il sorgere in un ampio territorio di un gran numero di Stati indipendenti, lasciando l’area preda di un equilibrio instabile. La Germania fu sottoposta a condizioni di pace molto dure, ma non venne smembrata. La nuova repubblica tedesca dovette cedere un’ampia parte del proprio territorio alla Francia (l’Alsazia-Lorena), al Belgio e, soprattutto, alla Polonia, con la cessione del “corridoio polacco” per l’accesso al Baltico, che fece venir meno la continuità tra la Germania e la sua provincia della Prussia Orientale. Altre aree furono scorporate dal Reich e sottoposte a controllo internazionale (l’area della Saar, l’area delle città portuali di Danzica e Memel). Inoltre, la Germania fu privata di tutti i possedimenti coloniali e le fu imposta la smilitarizzazione della Renania. Il Trattato prevedeva anche limitazioni molto severe riguardo alle dimensioni delle forze armate tedesche. A Versailles i vincitori introdussero il principio di colpevolezza della Germania, accusata di essere stata l’unica e sola causa della guerra e dunque costretta al pagamento di tutte le spese del conflitto, le cosiddette “riparazioni di guerra”, allo scopo di ridurre la potenza tedesca in condizioni di non nuocere. Il comandante in capo francese, maresciallo Foch aveva commentato il contenuto del trattato dicendo “Questa non è una pace, è un armistizio per vent’anni”. Il nuovo assetto geopolitico era il risultato dell’esigenza di sicurezza percepita dalla Francia, percezione forzata che fece trascurare gli evidenti problemi di sicurezza derivanti dallo status dell’Austria e della Polonia, problemi che coinvolgevano l’Italia, la Germania e l’Unione Sovietica. Il conflitto aveva ridimensionato ampiamente la centralità del continente europeo, segnando l’ascesa di potenze extraeuropee. In particolare, il Giappone aveva inglobato tutti i possedimenti tedeschi nel Pacifico, e stava cominciando a espandersi sulla terraferma asiatica. L’Unione Sovietica si presentava come un avversario temibile, almeno in prospettiva, offrendo un’alternativa al sistema politico economico e sociale dell’Occidente. Gli Stati Uniti nel 1900 erano già la prima potenza manifatturiera al mondo e alla vigilia del conflitto la loro produzione industriale equivaleva al 32 per cento del totale mondiale, e il primato si consolidò a conflitto terminato.[2] La sostanziale insularità del Nord America, la possibilità di esercitare egualmente la propria potenza nell’oceano Pacifico e nell’oceano Atlantico (grazie al controllo del canale di Panama e delle isole dei Caraibi e del Pacifico), permisero in breve tempo agli Stati Uniti di affiancarsi alla Gran Bretagna come potenza marittima dominante.[3] Se all’inizio del conflitto gli USA erano debitori nei confronti della Gran Bretagna per oltre tre miliardi di dollari, nel 1917 erano divenuti creditori nei confronti della stessa per cinque miliardi di dollari.[4] Nel 1917 Keynes aveva calcolato in 1890 milioni di sterline[5] il credito degli USA nei confronti degli alleati dell’Intesa, i quali a loro volta erano creditori tra loro e nei confronti della Germania. Inoltre, gli Stati Uniti avevano sacrificato nel conflitto un numero di vite umane (116.000)[6] molto ridotto in proporzione al tributo di sangue versato dagli altri belligeranti sul teatro europeo, che erano provati dal punto di vista demografico dalle perdite e dai feriti.
Il problema del mantenimento della pace.
La tragedia rappresentata dal conflitto globale aveva spinto le classi politiche di tutto il mondo a pensare a come gestire la vita internazionale una volta terminata la guerra. Il presidente statunitense Woodrow Wilson, parlando al Congresso americano nel gennaio 1918, aveva avanzato l’ipotesi di una grande “associazione generale di nazioni” fondata su un sistema di uguaglianza tra gli Stati e su mutue garanzie. Il progetto wilsoniano si concretizzò con l’inserimento nei Trattati di pace di Parigi del testo del Covenant, il patto fondativo della Società delle Nazioni (SdN). La Società delle Nazioni era un’organizzazione internazionale permanente,[7] un’istituzione innovativa, “universalistica e democratica”, che si poneva l’obiettivo ambizioso di trasformare la meccanica del sistema internazionale, basato essenzialmente sull’equilibrio, in un sistema fondato sulla “sicurezza collettiva”, che mantenesse la pace sfruttando il potenziale dissuasivo dell’accordo preventivo tra gli Stati firmatari, che sarebbero intervenuti a difesa degli Stati aggrediti. I principi sui quali si basava il mantenimento della pace erano quello del sistema di garanzie, quello del “governo dei rapporti internazionali” (evoluzione del Concerto europeo del XIX secolo), quello della considerazione che la guerra fosse un problema universale che interessasse tutti gli Stati del pianeta e, infine, quello della “pacifica risoluzione delle controversie”.[8] Allo scopo di tradurre concretamente le istanze espresse da quest’ultimo principio fu costituita nel 1922 la Corte permanente di giustizia internazionale.[9] La Società delle Nazioni introdusse un nuovo modello di organizzazione internazionale (articolato in tre organi, il Consiglio, l’Assemblea e il Segretariato), a cui poi si ispirò Briand per la redazione del suo progetto. Sin dalla nascita, tuttavia, l’organizzazione fu affetta da profonde contraddizioni, in primis la mancata inclusione iniziale degli Stati sconfitti e della Russia, fatto che limitò enormemente l’“universalità” della Società e che ne compromise sin dall’inizio la capacità organizzativa.[10] Ancor più grave fu, inoltre, la mancata adesione (a seguito di un voto contrario del Senato) degli Stati Uniti. Così facendo, essi privavano la neo-costituita Società dell’apporto dello Stato che, non solo ne era stato il principale promotore, ma che si stava anche profilando come la più grande potenza mondiale. Nonostante queste carenze, nel decennio successivo alla sua creazione, la mediazione della Società delle Nazioni poté risolvere alcune diatribe tra gli Stati europei, in particolare questioni territoriali e di confini, facendo largo ricorso allo strumento del plebiscito (strumento che comunque fu sempre subordinato alla delibera da parte delle potenze vincitrici, e quindi influenzato dai loro interessi). La mediazione internazionale, tuttavia, non evitò che alcune divergenze sfociassero in incidenti violenti e localizzati, come quelli di Corfù, Vilnius e Fiume. In larga misura, dunque, il mantenimento della pace rimase ancora legato al vecchio sistema dell’equilibrio di potenza, tanto che gli Stati contrari ad una revisione dei trattati crearono un sistema di alleanze per potersi assicurare la superiorità militare contro un’eventuale rinascita tedesca. La politica delle nuove nazioni orientali trovò ampio sostegno da parte della Francia, che stipulò alleanze bilaterali con Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania, queste ultime legate dalla Piccola Intesa del 1921, una coalizione di Stati troppo deboli per potersi effettivamente difendere da soli e ancor meno capaci di rassicurare pienamente la Francia.[11] Un episodio di particolare tensione si verificò nel 1923, allorché con il pretesto del mancato pagamento delle riparazioni di guerra, la Francia e il Belgio occuparono il distretto industriale tedesco della Ruhr. Il governo tedesco ordinò la “resistenza passiva” degli impiegati delle fabbriche portando così la Francia in una situazione d’impasse totale. L’episodio dimostrava nuovamente la centralità del problema tedesco e la necessità di giungere a una qualche forma di compromesso, con la normalizzazione dei rapporti franco tedeschi. La nomina del conservatore Gustav Stresemann a cancelliere tedesco nell’agosto del ‘23 permise l’attuazione di una politica di distensione, imperniata sul riconoscimento da parte tedesca dei nuovi confini occidentali. L’apice di questa politica fu rappresentato dai trattati di Locarno, firmati nell’ottobre del 1925, da Stresemann (allora ministro degli Esteri) e Briand, con la garanzia della Gran Bretagna e dell’Italia e la successiva adesione della Germania alla Società delle Nazioni. Senza dubbio, l’attività politica di Stresemann fu di estrema rilevanza per l’instaurarsi del duraturo rapporto di collaborazione con Aristide Briand che sfociò nel Piano di unione federale.
La crisi economica.
Un altro fattore, determinante per capire il quadro europeo in cui maturò la proposta di Briand, attiene alla situazione economica che, già grave nel corso degli anni Venti, collassò con il disastroso ribasso della borsa di New York il 24 ottobre 1929. Senza spingerci fino all’analisi dettagliata delle cause di tale crisi, possiamo ricondurne l’origine alle difficoltà della riconversione del sistema produttivo dall’economia di guerra all’economia di pace (l’aumento di produzione in ogni settore non fu più sostenuto da un parallelo incremento della domanda), a un sistema monetario instabile (il gold exchange standard) e all’incapacità dei governi di attuare scelte politiche efficaci per fronteggiare il problema economico. La soluzione privilegiata da parte dei governi fu il ricorso a misure protezionistiche (che in Europa assunse connotati drammatici per il proliferare delle frontiere a seguito dei trattati di pace), e dunque allo smantellamento del sistema mondiale di commercio multilaterale sul quale doveva fondarsi la prosperità economica, tanto che lo stesso Briand espresse la sua perplessità riguardo a queste forme di chiusura. Nel 1927 la Società delle Nazioni convocò una conferenza sul commercio internazionale, tentando di stabilire una “tregua tariffaria”. Ma gli Stati europei, pur manifestando la loro volontà di agire su un comune piano internazionale, di fatto agirono esclusivamente nell’ottica di tutelare il proprio interesse nazionale. Anche gli USA puntarono alla difesa della propria produzione inasprendo il protezionismo e riducendo progressivamente, per poi sospendere, l’erogazione di crediti all’estero, non assumendosi le responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico, in primis la difesa della stabilità del sistema finanziario internazionale.[12] Questo rese gli effetti della crisi ancora più profondi e diffusi su scala planetaria. Le conseguenze di tale situazione furono particolarmente devastanti in Germania. Il paese si ritrovava indebolito, sin dalla fine della guerra, sotto tutti gli aspetti. Un’analisi, per quanto breve, della situazione tedesca negli anni Venti è utile non soltanto per comprendere le dinamiche della crisi, ma anche per capirne le implicazioni sul piano politico e su quello delle relazioni internazionali europee. Nella prima metà del decennio, la Germania, attanagliata dei debiti di guerra, aveva sperimentato la crescita esponenziale dell’inflazione e l’azzeramento del valore della propria moneta. Il risparmio privato fu cancellato da quest’evento, creando un “vuoto” di capitali da reinvestire nelle attività produttive; ciò spinse la Germania ad affidarsi quasi completamente ai prestiti esteri, mentre i cittadini tedeschi si ritrovarono sul lastrico.[13] Nel 1923, inoltre, l’occupazione francese del bacino della Ruhr al fine di ottenere il pagamento dei debiti aveva privato la Germania di una delle aree industriali più sviluppate. Fu così che, nel 1924, gli Stati Uniti negoziarono con la Francia e la Gran Bretagna al fine di trovare una soluzione all’annoso problema delle riparazioni, concordando il piano quinquennale Dawes, che prevedeva la rateizzazione dei debiti, la modifica del sistema monetario tedesco (riorganizzando la Banca centrale, sostituendo il Rentenmark con il Reichsmark e sospendendo l’offerta di moneta) e la possibilità per Berlino di emettere un prestito obbligazionario da piazzare sul mercato mondiale al fine di reperire risorse. Il prestito fu finanziato quasi interamente dal mercato statunitense e accompagnato da investimenti privati degli americani nelle grandi imprese tedesche (Krupp, Thyssen).[14] Gli effetti immediati del piano Dawes furono positivi per la Repubblica Tedesca, riuscendo persino a stabilizzare temporaneamente il tasso di disoccupazione nel paese, i cui valori elevatissimi costituivano un altro problema endemico. La disoccupazione iniziò infatti ad essere elevatissima già nel 1918, con il ritorno dei reduci al termine delle ostilità, e si mantenne su tassi molto elevati fino al 1925, quando sembrò stabilizzarsi appunto a seguito della ripresa industriale per effetto del piano Dawes, che portò la Germania a superare la produzione manifatturiera della Francia. Tuttavia la stabilizzazione fu breve, e la situazione precipitò allorché gli americani sospesero l’erogazione del credito. Nel 1929, alla scadenza del piano Dawnes, fu concordato il nuovo piano Young per i pagamenti, che però cessarono definitivamente nel 1932.
La presentazione del progetto alla SdN.
Sebbene la Società delle Nazioni si fosse dimostrata inefficace nel mantenimento della pace e nella stabilizzazione del continente, questa svolse comunque un ruolo di forum privilegiato per la diplomazia europea, tenuto conto della composizione degli Stati aderenti – la quasi totalità degli Stati europei – e della scelta nel 1920 di una città dell’Europa continentale, Ginevra, come sede delle istituzioni. Le decima sessione ordinaria dell’Assemblea si tenne nel settembre 1929 presso Palazzo Wilson e in queste sedute si pronunciarono il ministro francese Briand e il suo omologo tedesco Gustav Stresemann. Briand pronunciò il 5 settembre un discorso emblematico,[15] in cui venivano evidenziati i punti cruciali del problema della pace e veniva avanzata, per la prima volta da parte di un ministro degli Esteri di una potenza europea in una sede ufficiale, una proposta ambiziosa. Briand affermò infatti che non era possibile assicurare la “pace economica” in Europa secondo mezzi “puramente tecnici”, perché, operando così, il futuro avrebbe riservato solo una sequela di assemblee per pronunciare discorsi inutili. Egli sostenne che tra i popoli appartenenti a una medesima area geografica, come quelli dell’Europa, dovesse essere stabilita una “sorta di legame federale”, un legame di tipo solidaristico che permettesse di far fronte ai problemi comuni; per fare ciò era necessario istituzionalizzare il “legame federale” con “un’Associazione” (ovvero un’organizzazione) che operasse nel settore economico e sociale, senza intaccare in alcun modo la sovranità delle nazioni che volessero aderire. Da Hamilton in poi, è chiaro che la coesistenza di un legame federale e della sovranità assoluta degli Stati è un controsenso. Con questa locuzione, tuttavia, Briand aveva voluto utilizzare un’espressione forte, che sin dalla stipula dei trattati di pace era entrata nel dibattito politico, a partire dal testo di Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati “Federazione europea o Lega di nazioni” fino alle proposte di Coudenhove-Kalergi presentate presso la stessa Società delle Nazioni. Nonostante l’ambiguità della proposta, il tema rimase centrale per tutta la sessione dell’Assemblea e fu discusso ampiamente. Il 9 settembre parlò Stresemann, pronunciandosi sulla “nuova forma da dare alle relazioni tra gli Stati europei”.[16] Egli espresse il suo dissenso verso chi non intendeva discutere una questione europea nella sede “universalista” della SdN, affermando la centralità della questione europea in rapporto alla situazione economica mondiale, e criticando la stampa che bollava la proposta di Briand come “romanzesca” o “folle”. Nel suo discorso, il ministro tedesco evidenziava come il Trattato di Versailles avesse istituito un gran numero di nuovi Stati senza preoccuparsi della loro integrazione nell’economia europea. Questa ridefinizione della struttura politica aveva profondamente mutato anche quella economica del continente, e Stresemann guardava con preoccupazione alla frammentazione delle regioni economiche dell’Europa in competizione reciproca, in una situazione a suo avviso simile a quella degli Stati tedeschi prima dello Zollverein. Stresemann addusse un altro esempio delle contraddizioni della frammentazione del continente, ricordando da una parte gli sforzi per “ridurre la durata del viaggio tra la Germania del sud e Tokyo” e dall’altra come tuttavia “non si possa attraversare l’Europa in treno senza perdere ore in controlli di frontiera”. Chiuse il suo intervento citando i bisogni materiali di un blocco economico continentale, dalla moneta unica alla tutela del lavoro. Nel complesso, nel discorso di Stresemann si ravvisava la spinta da parte della Germania di Weimar, democratica e federale, ad integrarsi pacificamente nello spazio europeo per sopperire alla limitatezza dello spazio angusto nella quale era stata costretta dalla sconfitta. Nello stesso giorno Briand riunì a pranzo i delegati dei ventisette Stati europei presenti all’Assemblea e in questa riunione informale, della quale esiste un resoconto dettagliato, furono espressi i primi pareri e sollevati i primi dubbi. L’opposizione più comune sollevata dai partecipanti era quella che Briand intendesse creare un blocco regionale europeo che in futuro si contrapponesse alle altre compagini continentali, mettendo fine alla Società delle Nazioni. Al termine dell’incontro, un comunicato ufficiale diramato alla stampa dichiarava che, in seguito a un cambiamento di opinione, tutti i delegati avevano espresso simpatia per il progetto e incaricavano il ministro degli Esteri francese Briand di redigere un “Memorandum” dettagliato da presentare successivamente ai governi.
Il Memorandum.
Il “Memorandum sull’organizzazione di un regime di unione federale europea” fu presentato ufficialmente dal governo francese il 17 maggio 1930.[17] Il testo non è una proposta di trattato, bensì un manifesto programmatico che definisce i “punti essenziali”. Consta di una prefazione, ove viene brevemente analizzata la situazione contemporanea ed esplicata la natura del futuro trattato, e di quattro paragrafi.[18] Il primo espone la proposta di un Patto tra gli Stati, il secondo paragrafo descrive la struttura dell’organizzazione federale, il terzo elenca i principi generali, il quarto definisce le aree di cooperazione previste. Nel Memorandum stilato da Briand e dal suo staff sono utilizzati alternativamente e in maniera piuttosto imprecisa i termini Union, Union fédérale, Communauté e ancora Confédération per definire la medesima entità. La prefazione menziona chiaramente la “responsabilità collettiva di fronte al pericolo che minaccia la pace europea” in termini economici politici e sociali e la necessità di riorganizzare razionalmente i rapporti di solidarietà tra gli Stati del continente. Il testo evidenzia la gravità della dispersione delle forze “morali e materiali” del continente che limita le possibilità di espansione del mercato, i tentativi di razionalizzazione e sviluppo della produzione industriale e la lotta alla disoccupazione. Questa situazione – si sottolinea – era aggravata ulteriormente dagli oltre ventimila chilometri di barriere doganali, create contestualmente alle frontiere, stabilite dai trattati di pace “per render giustizia alle aspirazioni nazionali”. La politica di solidarietà alla quale gli estensori del Memorandum si ispirano si pone in aperto contrasto con i tentavi di unione doganale proposti tra gruppi di paesi che il testo definisce come “strumenti di lotta contro gli Stati che non ne fanno parte” (riferimento implicito al proposto Zollverein tra Austria e Germania). Un punto fondamentale ribadito nella prefazione è quello della “sovranità assoluta e totale indipendenza politica” degli Stati che intendono partecipare al progetto, nato nell’ambito della Società delle Nazioni che a sua volta ne fa un punto cardine dell’organizzazione. Briand sottolinea nuovamente, ed erroneamente, come un regime federale sia interamente compatibile non solo con le peculiarità di “ogni popolo”, ma anche con la sovranità indiscussa degli Stati. Nel primo paragrafo, titolato Necessità di un patto d’ordine generale ed elementare per affermare il principio dell’unione morale europea e consacrare solennemente il fatto della solidarietà istituita tra Stati europei è definita la natura del futuro accordo, un Patto simbolico ed essenziale, che impegni i governi firmatari a fissare incontri periodici (nella “formula più liberale possibile”) per esaminare in comune tutte le questioni relative alla creazione della “comunità dei popoli europei”. Nel Patto devono essere riconosciuti a un organismo assembleare (denominato provvisoriamente la “Conferenza europea”) il ruolo di “personalità morale dell’Unione” e il compito di costruire il “legame vivente di solidarietà tra le nazioni europee”. In questo passaggio del Memorandum viene esplicitata la natura dell’Unione europea come “intesa regionale conforme alle disposizioni dell’articolo 21 della Società delle Nazioni” e la subordinazione di questa Unione alla stessa SdN, riservando la possibilità di adesione ai paesi europei già membri della società. Nel secondo paragrafo (dal titolo Necessità di un meccanismo preposto ad assicurare all’Unione europea gli organi indispensabili all’assolvimento del suo compito) viene delineato l’assetto istituzionale dell’Unione federale europea, che ricalca la forma di organizzazione internazionale introdotta con la Società delle Nazioni, e cioè una struttura articolata su tre organi: il già citato organo assembleare, un organo collegiale di composizione più ristretta e un segretariato. L’organo assembleare, la Conferenza europea, è un organo puramente intergovernativo composto dai rappresentanti dei governi di tutti gli Stati aderenti all’Unione. Si tratta di un organo che si ispira al modello dell’Assemblea della SdN e rappresenta, nelle intenzioni di Briand, proprio il legame con quest’ultima. Non viene fatta menzione né del numero dei rappresentanti né della proporzionalità delle delegazioni rispetto alle dimensioni degli Stati, ma è presumibile che Briand pensasse a una rappresentanza identica per tutti gli Stati come nell’Assemblea della SdN, nella quale le votazioni avvenivano a maggioranza sulle questioni procedurali e all’unanimità su tutte le altre. L’organo “esecutivo”, denominato “Comitato politico permanente”, è un organo costituito da membri della Conferenza, in numero inferiore a quello degli Stati membri, e ha il ruolo di organismo di studio e contemporaneamente di strumento esecutivo dell’Unione. Il Comitato, con presidenza a rotazione, avrebbe potuto invitare alle proprie sedute altri rappresentanti di governi europei, anche di Stati esterni alla SdN, con la facoltà di concedere o meno voto consultivo o deliberativo quando si fosse trovato nella condizione di deliberare su una materia di interesse per il governo “ospite”. Il Memorandum specifica inoltre che i criteri di designazione dei membri, l’organizzazione della presidenza e delle sessioni, sarebbero stati fissati in una futura riunione degli Stati europei, e non fa alcuna menzione al criterio di voto nell’ambito del Comitato politico permanente. Il Segretariato è un organo tipicamente amministrativo, con compiti relativi al funzionamento dell’organizzazione. Il Memorandum sanciva la possibilità che, in via provvisoria, il ruolo di segretario venisse affidato al governo che avrebbe avuto l’incarico di presidenza della Conferenza, o che le funzioni di quest’organo potessero essere temporaneamente esercitate dal Segretariato della SdN. Degna di nota è l’assenza di un organo giudiziale di risoluzione delle controversie tra Stati, organo tipico delle Unioni federali propriamente dette e delle organizzazioni internazionali create nel secondo dopoguerra.[19] E’ ipotizzabile che questo ruolo potesse essere affidato alla Corte permanente di giustizia internazionale, istituita congiuntamente alla Società delle Nazioni con sede all’Aja.
Successivamente, nel terzo paragrafo, il testo definisce in tre punti le “direttive essenziali” a cui dovranno attenersi gli estensori del progetto definitivo. Nel primo punto è evidenziata la subordinazione dei problemi di ordine economico a quelli di ordine politico: la ridefinizione del sistema di sicurezza in Europa e la “pacificazione degli spiriti” erano prerequisiti indispensabili per un programma di unificazione economica di vasta portata che cominciasse dall’abbattimento delle barriere doganali. Secondo Briand, la legittimità stessa di tutti gli interventi economici dell’Unione si sarebbe basata sulla ritrovata intesa tra i governi e la pacificazione dei popoli. Nel secondo punto Briand, con ampio sfoggio di retorica, esplicita il “concetto di cooperazione politica europea” utilizzando ancora in modo equivoco e improprio i termini “federazione” e “sovranità”. Infatti, è ambigua la formula utilizzata per definire la natura dell’Unione: “una Federazione fondata sull’idea d’unione e non di unità, cioè abbastanza elastica da rispettare l’indipendenza e la sovranità nazionale di ciascuno degli Stati, assicurando a tutti i benefici della solidarietà collettiva per regolare le questioni politiche riguardanti le sorti della comunità europea o quella di uno dei suoi Stati membri”. Briand prospetta l’estensione del sistema di garanzie di Locarno a tutto il sistema degli Stati europei, subordinando così la sicurezza della “Comunità” al bilanciamento di potere e alle garanzie bilaterali. Il terzo punto definisce l’organizzazione economica dell’Europa come indirizzata alla creazione di un mercato comune, per incrementare il livello del benessere, da realizzarsi tramite l’abbattimento delle barriere doganali, tema cardine nella politica di Briand. Era quindi prospettato un mercato unico privo di limiti di circolazione di merci, capitali e persone, con la sola riserva dei “bisogni della difesa nazionale di ciascuno Stato”, e che subordinava così l’unione economica all’esercizio della sovranità degli Stati nella materia della sicurezza. Infine, nell’ultima parte del Memorandum vi è la definizione dei campi e dei metodi della cooperazione europea, con un lungo elenco di ambiti di competenza articolato su dieci punti: economia generale, infrastrutture, trasporti e comunicazioni, finanza, lavoro, igiene, cooperazione intellettuale (tra le università), rapporti interparlamentari e amministrazione. Il testo si conclude con l’invito del governo francese a valutare il Memorandum, redatto volutamente in forma semplice e concisa, come proposta da sviluppare successivamente anche nelle sedi ipotizzate dal documento (le riunioni periodiche, la Conferenza e il Comitato), ricordando la necessità di “unirsi per sopravvivere e prosperare” per il bene dell’Europa e dell’umanità.
Le risposte dei governi al Memorandum.
Il governo francese aveva fatto proprio il contenuto del Progetto Briand, presentando ufficialmente il Memorandum il 17 maggio 1930.La spinta morale e ideale in favore del Progetto che muoveva Briand, come emerge anche dalla corrispondenza privata, fu tuttavia percepita da alcuni governi e opinioni pubbliche come un mero tentativo della Francia di stabilizzare il sistema di equilibrio postbellico, ed è forse in questa prospettiva che si spiega il sostegno del governo francese alla proposta del suo ministro. Le risposte dei governi europei furono fatte pervenire nei due mesi successivi, sebbene già da diverso tempo la questione dell’organizzazione soprannazionale dell’Europa fosse entrata nel dibattito politico di alcuni paesi e i governi avessero già assunto una propria posizione a riguardo. Le opinioni delle cancellerie europee erano varie e discordanti, con posizioni determinate tanto dalla necessità contingente dei governi al potere quanto dalla posizione geopolitica degli Stati, quanto ancora da esigenze di carattere storico, morale o ideale. In generale il recepimento della proposta fu, almeno formalmente, positivo, con alcune significative eccezioni, come il caso italiano. Numerose sono le linee di frattura tra Stati e gruppi di Stati, ed è possibile riscontrare risposte omogenee tra Stati con caratteristiche simili. Le potenze coloniali, o gli Stati possessori di territori d’oltremare o ancora quelli con una proiezione extracontinentale, in primis la Gran Bretagna, si mostrarono preoccupati per la messa in discussione dei loro legami con i territori extracontinentali. Questa posizione venne esplicitata nella nota della Danimarca, che sottolineava come i mezzi di comunicazione dell’età contemporanea rendessero ancora più stretti questi legami o ancora nella risposta della Spagna, che ricordava l’intimo legame culturale con i paesi ibero-americani. Altri paesi, come la Germania, il cui ministro degli esteri Stresemann aveva lanciato congiuntamente a Briand la proposta di Unione, o come l’Austria (desiderosa di congiungersi con la Germania in qualche forma di legame) si mostravano particolarmente disponibili e nella nota sollevavano solo questioni di carattere tecnico ed organizzativo. Il gruppo degli Stati sorti dalla disgregazione degli Imperi europei o mutati territorialmente a seguito dei trattati, localizzati principalmente nell’area balcanica, sollevavano perplessità di vario genere. L’Ungheria in particolare chiedeva una chiara presa di posizione della SdN a proposito delle minoranze ungheresi rimaste negli Stati confinanti, prospettando, in effetti, una revisione completa dei confini. Altri si mostravano favorevoli al progetto, ad esempio la Cecoslovacchia, in quanto il trattato avrebbe potuto cristallizzare la situazione dell’area a proprio vantaggio, o la Grecia che nella nota diplomatica si esprimeva a favore, proponendo però la partecipazione della Turchia al fine di integrare la corposa minoranza di greci della penisola anatolica. Un argomento riscontrabile nella quasi totalità delle risposte al Memorandum è quello della difesa della sovranità degli Stati, tema che viene espresso in forme diverse, come quella esplicita del Granducato di Lussemburgo (“su un piano di sovranità assoluta e totale indipendenza politica”),[20] o in forme più velate come quella adottata dal governo olandese, nella quale viene utilizzato il termine “coordinamento” a sottolineare la natura intergovernativa e confederale del progetto. Numerosi governi esprimevano la preferenza per un’unione di tipo economico rispetto a una di tipo politico. Particolarmente significativo è poi analizzare in dettaglio le posizioni dei governi di due Stati, il Regno Unito e l’Italia, nei confronti del Progetto Briand.
La posizione del governo britannico.
Nel maggio del 1929 il governo del Regno Unito venne affidato al laburista Ramsay MacDonald, al termine di un decennio che aveva visto i conservatori al potere quasi ininterrottamente (ad eccezione del primo breve governo laburista del 1924, guidato dallo stesso MacDonald). Fu un periodo relativamente turbolento per il Regno, con un tasso di disoccupazione del 10-12% nel periodo 1924-29[21] e forti tensioni sociali che sfociarono in grandi scioperi come quello dei minatori del 1926, durato oltre sette mesi.
Nel 1929 gli scambi commerciali della Gran Bretagna si svolgevano per il 55% con i territori del Commonwealth,[22] l’organizzazione dell’Impero Britannico, che comprendeva, oltre al Regno Unito e alle sue dipendenze dirette in Europa, i Dominions, cioè territori dotati di autogoverno ma subordinati al parlamento di Londra per questioni di difesa e rappresentanza estera,[23] l’immenso Raji Britannico dell’India, i territori con amministrazione coloniale, i territori sottoposti a mandato della Società delle Nazioni e i protettorati. In Europa lo stato di Dominion era stato concesso, dopo la guerra civile del 1922, anche allo Stato Libero d’Irlanda, rappresentato all’Assemblea della SdN e anch’esso destinatario del Memorandum Briand.
Già dopo il discorso di Briand all’Assemblea della SdN del settembre 1929, un importante membro del governo britannico si era espresso sulla questione. Winston Churchill, all’epoca Primo Lord dell’Ammiragliato, cioè il ministro della Marina – l’arma che garantiva la continuità strategica tra i territori dell’Impero – aveva pubblicato un articolo titolato eloquentemente “The United States of Europe”[24] su un importante quotidiano inglese. Nell’articolo Churchill sottolineava che l’assenza degli Stati Uniti di fatto già rendesse la Società delle Nazioni un’organizzazione internazionale prettamente europea. Riprendendo le posizioni di Coudenhove-Kalergi, egli analizzava il rapporto tra la prospettata Federazione europea (comprensiva dei territori coloniali dei suoi Stati) e l’Impero Britannico, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. L’Impero Britannico, appartenendo “non a uno ma a tutti i continenti”, doveva mantenersi in stretto legame con l’Europa senza farne parte: “We are with Europe, but not of it” in quanto, per la particolare distribuzione del territorio e delle risorse, gli interessi dell’impero coincidevano con “la gran parte degli interessi del mondo”. La risposta ufficiale da parte del Foreign Office[25] fu redatta negli ultimi giorni del maggio 1930 da un comitato appositamente istituito, che si espresse “con simpatia verso il tentativo di riorganizzazione dell’Europa” purché questo non entrasse in contraddizione con i capisaldi della politica inglese e con gli interessi del Regno Unito (e delle sue estensioni imperiali), nonché con il mantenimento del quadro della Società delle Nazioni. Nella nota, il ministero espose le linee guida della propria politica nei riguardi dell’integrazione europea: a) nessun appoggio a proposte che indebolissero la Società delle Nazioni; b) supporto al rafforzamento della cooperazione tra i paesi europei; c) nessun supporto alla creazione di gruppi politici o economici ostili ad altri gruppi continentali o che indebolissero i legami tra Regno Unito e Impero; d) gli Stati europei avrebbero dovuto enfatizzare gli aspetti economici del Piano senza tuttavia entrare in contraddizione col punto precedente; e) l’elaborazione e lo sviluppo del Piano avrebbero dovuto essere discussi nell’ambito istituzionale della Società delle Nazioni e non in una conferenza degli Stati europei, separata “e rivale” rispetto all’Assemblea della SdN. Nella nota erano sollevati dubbi riguardo al funzionamento degli organi dell’Unione, che avrebbero potuto ingenerare confusione rispetto a quelli della Società delle Nazioni, e il Foreign Office suggeriva che queste istituzioni fossero direttamente inquadrate nella struttura della SdN.[26] La posizione britannica era in parte dettata da ragioni di tipo geopolitico (la proiezione imperiale transcontinentale del Regno Unito) e in parte dalla posizione del governo laburista riguardo alla politica internazionale, visione che si fondava sull’universalismo e sull’autorità morale della Società delle Nazioni. La partecipazione così distaccata, se non la velata opposizione, al Progetto da parte del governo del principale attore nel sistema europeo si rivelerà determinante per gli sviluppi e il successivo fallimento del progetto stesso.
La posizione dell’Italia fascista.
Sin dalla presa del potere da parte dei fascisti nel 1922, il ministero degli Esteri era retto “ad interim” dal capo del governo Benito Mussolini, mentre l’incarico di sottosegretario agli Esteri era affidato a Dino Grandi. Nel 1929 Mussolini decise di affidare il dicastero a Grandi, principalmente allo scopo di liberarsi dal continuo impegno rappresentato dalle numerose conferenze nelle quali era richiesta la presenza del titolare del ministero,[27] e per poter attuare una politica estera libera dai vincoli della ricerca del consenso interno, riservandosi di fare personalmente i discorsi ad uso interno.[28] Per tutto il periodo che intercorre tra la nomina a ministro di Grandi e la sua rimozione dall’incarico nel 1932, quando fu destinato come ambasciatore a Londra, la politica estera italiana fu segnata dal dualismo tra la diplomazia tradizionale e sostanzialmente libera da pregiudiziali ideologiche di Grandi e la roboante e violenta retorica delle dichiarazioni pubbliche di Mussolini. La politica estera che secondo Grandi il fascismo avrebbe dovuto attuare per realizzare il proprio obiettivo storico – la creazione di un impero coloniale – si sarebbe dovuta sviluppare lungo le direttive della pace e del disarmo nell’ambito della SdN (in aperto contrasto con la retorica bellicista del regime). L’Italia avrebbe dovuto porre la Francia nelle condizioni di accettare l’espansione coloniale italiana, nel quadro di un nuovo rapporto di parità tra le potenze europee. Per fare ciò occorreva ostacolare i tentavi di egemonia francese, in particolare quelli basati sulla superiorità negli armamenti, ponendo l’Italia come portavoce di una politica di disarmo generalizzato in Europa. Nella Conferenza navale di Londra dell’aprile del 1930 (poche settimane prima della pubblicazione del Memorandum), Grandi applicò la sua nuova politica di contenimento della Francia, annunciando che l’Italia avrebbe accettato anche i più bassi limiti di tonnellaggio navali, purché nessun’altra potenza ne avesse di superiori. Con questo espediente Grandi intendeva smascherare “il falso pacifismo francese”, cercando tuttavia di mantenere un atteggiamento conciliante nei confronti della Francia per giungere infine a un accordo condiviso. Alla diplomazia di Grandi, Mussolini contrappose una serie di discorsi tenuti in alcune città italiane in contemporanea con la Conferenza navale, nel corso dei quali si dichiarava che il programma navale italiano sarebbe stato realizzato “fino all’ultima tonnellata”, lanciando l’accusa a gruppi di potere esteri di voler sabotare i programmi dell’Italia e scatenare una guerra.[29] Fu in questo contesto che il progetto Briand giunse alla Farnesina. Il ministero degli Esteri italiano ordinò alla stampa di lanciare una campagna di propaganda per attaccare le tesi di Briand, denunciando il progetto non da un punto di vista strettamente nazionalistico, ma al contrario indicando la portata limitata del progetto, contrapponendo a un’intesa europea un’intesa mondiale basata sulla Società delle Nazioni. Mentre per Mussolini un semplice rifiuto dell’offerta sarebbe apparso sufficiente, la linea che Grandi intendeva perseguire era di deliberato sabotaggio del progetto Briand. Non solo l’Italia non avrebbe dovuto aderire a un’Unione europea, ma era anche necessario che nessun altro Stato vi aderisse, e che dunque il progetto si riducesse “al suo scheletro essenziale, la Francia e le sue alleanze”. Grandi infatti era dell’opinione che il governo francese cercasse di costruire una “Piccola Intesa” allargata anche alla Germania, estromettendo l’Italia dai Balcani. Il ministro preparò personalmente una nota diplomatica di risposta al Memorandum, che fu inviata il 2 luglio a Mussolini: era sua intenzione proporre un accordo al governo laburista per ostacolare la politica francese, ma il Duce si rivelò fortemente contrario a qualunque collaborazione con i “nemici”, accendendo così il contrasto tra le necessità tattiche della diplomazia italiana, incarnate da Grandi, e l’intransigenza ideologica della dittatura fascista. Mussolini trattenne la nota e, senza avvertire Grandi, fece pubblicare sul quotidiano britannico Evening Standard[30] un articolo di feroce critica al progetto paneuropeo, rendendo di fatto inutile ogni possibile risposta diplomatica elaborata da Grandi. La nota che Grandi aveva approntato e che non fu resa pubblica esponeva le premesse al progetto ritenute essenziali dall’Italia, volte a realizzare il reale obiettivo della Farnesina, ovvero la neutralizzazione del Piano Briand: a) garanzie agli Stati minori; b) cancellazione delle distinzioni tra popoli vincitori e popoli vinti, ristabilendo l’eguaglianza formale e sostanziale tra gli Stati; c) rifiuto della posizione francese di riservare l’adesione al Piano ai soli membri della Società delle Nazioni, estendendo l’invito a tutti i paesi con legami storici e geografici con il continente europeo, in primis Unione Sovietica e Turchia; d) rigetto della struttura di Unione europea basata sul modello organizzativo della SdN; il Comitato[31] avrebbe dovuto accogliere come membri permanenti tutti gli Stati aderenti all’Unione; e) necessità di inquadrare l’Unione in un contesto di solidarietà e coesione globale per non frazionare la SdN in blocchi regionali in competizione tra loro; f) “armonizzazione” della struttura dell’Unione con quella della SdN. Con queste proposte il ministro intendeva “diluire” il progetto, sostenendo preventivamente un allargamento sconsiderato a paesi estranei al sistema politico ed economico europeo (Turchia e URSS)[32] e puntando alla revisione dei trattati di pace per favorire gli alleati balcanici dell’Italia sulla questione della ridefinizione dei confini (principalmente l’Ungheria). Il documento italiano proponeva di ribaltare l’ordine delle priorità indicate dal governo francese, sicurezza-arbitrato-disarmo, ponendo come obiettivo principale del sistema europeo la riduzione degli armamenti, cercando così l’appoggio del governo laburista e delle sinistre francesi al fine di mettere in difficoltà la stessa maggioranza di governo francese. Nell’agosto del 1930, Grandi si presentò all’Assemblea di Ginevra seguendo l’ordine del Duce di trattenersi lo stretto necessario e non pronunciare alcun discorso. A proposito del risultato dell’incontro scrisse che Briand sarebbe rimasto così a “dibattersi come un tonno nella rete della sua Paneuropa, che l’Inghilterra sembra voglia incaricarsi di portare in secco, facendola boccheggiare e morire in una delle tante numerose commissioni ginevrine”.[33] La previsione del ministro non si rivelò infondata e, nonostante i dissidi con Mussolini, che avevano impedito di sfruttare appieno le potenzialità diplomatiche italiane nell’ambito delle assemblee ginevrine, alcuni degli obiettivi fissati da Grandi furono di fatto raggiunti nei mesi successivi. È quantomeno curioso come il governo fascista tentò di utilizzare consapevolmente lo strumento dell’allargamento (già nella fase di elaborazione) al fine di ridurre la portata del progetto e causarne il fallimento.
La commissione di studio.
Sul finire dell’estate del 1930, in occasione delle riunioni preliminari alla XI sessione dell’Assemblea della SdN, il governo francese rese pubblica una relazione contenente un riassunto ragionato e un’analisi delle risposte pervenute in via ufficiale dai governi a cui era stato inviato il Memorandum.[34] Appariva evidente come tutti i governi fossero concordi nel porre l’Unione europea sotto “l’autorità morale” della Società delle Nazioni. Il governo francese fece propria la proposta formulata da Polonia e Finlandia sulla creazione di un organo di studio sul programma dell’Unione, da stabilirsi dopo la prima sessione dell’ipotetica Conferenza della comunità e dipendente direttamente da quest’ultima. Tuttavia l’Assemblea della SdN decretò che fosse istituita subito una Commissione di studio per l’Unione europea come diretta emanazione della SdN, e che fosse incaricata di studiare le modalità della “cooperazione europea” e di presentare alla successiva sessione dell’Assemblea una relazione contenente “proposte concrete e fattuali”. La composizione della Commissione consisteva nei rappresentanti dei ventisette Stati, ma sin dall’inizio fu decisa la partecipazione di altri Stati europei non membri della SdN per “partecipare allo studio della crisi economica mondiale”. La Commissione riunitasi nel marzo 1931 decise di creare una sotto-commissione incaricata di studiare “l’organizzazione e i metodi di lavoro della Commissione di studio sull’Unione europea”, e istituì anche (in realtà ratificò e ne ufficializzò l’esistenza) comitati più ristretti, incaricati dello studio di questioni specifiche. Nei due anni di lavori furono riuniti il sotto-comitato per le relazioni industriali, il sotto-comitato per l’esame delle questioni finanziarie, la sotto-commissione di coordinamento in materia economica, la commissione per la disoccupazione. Molte delle commissioni erano l’evoluzione di quelle istituite a seguito della Conferenza economica internazionale del 1927 e operarono in un contesto più ampio rispetto a quanto deciso al momento della loro creazione; furono infatti avviati rapporti di collaborazione con l’International Labour Organization di Ginevra e l’Institut International d’Agriculture di Roma. Tra le proposte più interessanti vi furono quella per la creazione di una banca ipotecaria agricola internazionale (e non europea), quella per un accordo di non aggressione economica con l’Unione Sovietica, aperto alla firma di “tutti gli Stati del mondo” e quelle per istituire una “borsa di lavoro europea” sotto gli auspici dell’ILO e per l’avvio di un programma di lavori pubblici europei volto a creare infrastrutture, ma non inquadrato chiaramente dal punto di vista istituzionale. Di fatto, le commissioni nel loro lavoro di analisi e studio, in particolare degli effetti della crisi e dei possibili rimedi da attuare, avevano valicato i limiti del campo di ricerca affidato loro dal mandato e si erano occupate ben poco degli aspetti istituzionali del progetto di Unione. La situazione venutasi a creare, in effetti, confermò il giudizio di Dino Grandi sul proliferare di “commissioni ginevrine” che avrebbero rallentato o addirittura affossato il progetto Briand.
Le diverse commissioni di studio presentarono i loro resoconti nell’estate 1931, in occasione della sessione dell’Assemblea della Società delle Nazioni, la quale non adottò risoluzioni significative.
Conclusioni.
I motivi che portarono al fallimento del Piano Briand furono molteplici, e dalla comprensione di questi si possono trarre alcune conclusioni, utili per l’azione federalista. Innanzitutto, Briand mancò l’obiettivo fondamentale, ovvero quello che dal suo piano, una semplice proposta che indicava solo delle linee guida, si passasse a stilare una bozza di trattato. La proposta di Briand era la più avanzata tra quelle fino ad allora presentate da un governo e per la prima volta il concetto di Europa unita su basi consensuali diveniva materia di politiche governative e di relazioni internazionali. Altri progetti, maggiormente elaborati e concreti, erano rimasti però allo stadio di semplice elaborazione teorica di qualche intellettuale o appannaggio di movimenti politici estranei ai governi. Per esempio, il “Progetto di patto paneuropeo” presentato da Coudenhove-Kalergi al congresso dell’Associazione Paneuropa nel 1930 (aperto proprio con l’intervento di Briand) era senza dubbio più completo e articolato del Piano Briand, e differiva da questo perché prevedeva la creazione di un vero e proprio Stato federale. Inoltre, diversi storici evidenziano che il progetto di Unione Federale di Briand, a dispetto del nome, era quello di un’Unione di tipo confederale (e non federale o sopranazionale), una “comunità” di Stati sostanzialmente indipendenti e legati da un vincolo di “cooperazione” e “coordinazione”. Sin dall’inizio il piano fu viziato dalla necessità di Briand di non violare il tabù della sovranità nazionale. Come si evince dalle risposte ufficiali dei governi, il mantenimento della sovranità era prerequisito essenziale anche solo per la presa in analisi del piano. Per citare Lord Lothian, ne Il pacifismo non basta, del 1935, “la sovranità dello Stato nazionale è stata la causa principale del fallimento della Società delle Nazioni e del movimento pacifista postbellico, come fu la causa prima della guerra mondiale e sarà quella che scatenerà la prossima guerra, se non la limiteremo in tempo”.[35] E’ del tutto plausibile ipotizzare che, se l’Unione federale europea si fosse realizzata nella forma confederale progettata da Briand, essa sarebbe stata soggetta alla medesime limitazioni della Società delle Nazioni o ancora, del Consiglio d’Europa creato nel secondo dopoguerra, organizzazioni entrambe fondate sul mutuo riconoscimento dell’indipendenza degli Stati membri e sull’autonomia dei governi; difficilmente, quindi, essa avrebbe potuto adempiere ai compiti ipotizzati nel Memorandum. Critiche di questo tenore furono mosse anche da Coudenhove-Kalergi direttamente all’amico Briand, manifestando la sua irritazione per il mantenimento del principio di sovranità e domandando come una qualsivoglia federazione potesse essere immaginata senza la limitazione di sovranità degli Stati-nazione.[36] Numerosi furono poi i problemi nella fase di studio ed elaborazione del definitivo trattato di Unione. Il mandato affidato alla Commissione di studio non era chiaro; era indicato solo il compito di “studiare la situazione” e non era indicata la finalità dell’operazione. Infatti la Commissione sminuì notevolmente l’originaria iniziativa francese, e quanto propose fu in effetti solo una cooperazione di tipo economico.[37] Inoltre, sebbene la Commissione di studio fosse composta esclusivamente da rappresentanti europei, la volontà manifestata da molti dei governi destinatari del Memorandum che la nuova organizzazione nascesse come ente sussidiario e incorporato alla SdN comportava necessariamente che l’ipotetico trattato fondativo fosse subordinato all’approvazione unanime da parte dell’Assemblea della SdN. Per di più, la presenza in Europa di alcuni regimi dittatoriali o autoritari (l’Italia fascista, la Polonia di Pilsudski, l’Albania, la Jugoslavia del re Alessandro Karageorgevic, il Portogallo) minava sin dall’inizio l’affermazione dei valori democratici espressi nell’introduzione al memorandum. Da evidenziare è anche che l’Italia fascista pubblicamente criticò il piano, mentre in realtà fu segretamente intenzionata a sabotarlo in modo che nemmeno gli altri Stati aderissero all’iniziativa. Infine vi erano i problemi derivati dalla situazione politica internazionale. Innanzitutto il successo dell’iniziativa dipendeva dall’intesa tra i due attori più importanti del continente, la Francia e la Germania. L’integrazione stabile della Repubblica Tedesca nell’Europa era la chiave di volta di tutta la costruzione europea. Con la morte di Stresemann nell’ottobre del 1929 era venuto a mancare il partner ideale del governo francese per continuare la politica di riconciliazione franco-tedesca nello “spirito di Locarno”. Nel 1930 cadde il governo di grande coalizione del socialdemocratico Müller, al quale successe il cancelliere Brüning del centro conservatore, che sostanzialmente rigettò il piano Briand per dedicarsi alla realizzazione dell’unione doganale con l’Austria. E’ opinione dello storico romeno Simion Costea che senza il nucleo franco-tedesco, la costruzione dell’Unione di Briand divenisse impossibile.[38] Inoltre, bisogna aggiungere che il quadro europeo era solo apparentemente stabile, ma che in realtà le relazioni tra gli Stati erano basate sull’espressione di rapporti di forza. La differenza rispetto allo scenario successivo alla Seconda guerra mondiale, è proprio dovuto al fatto che nel secondo dopoguerra il quadro europeo era invece stabilizzato dall’instaurarsi del bipolarismo sovietico-americano. La sicurezza della parte occidentale del continente era garantita dall’espressione del potere egemonico degli Stati Uniti, i quali mostrarono parecchio interesse verso il tema dell’unificazione europea e addirittura subordinarono l’erogazione di aiuti del piano Marshall alla comune gestione da parte degli Stati europei. Nell’Europa del 1929, invece, l’unica potenza europea di dimensione mondiale, la Gran Bretagna, si mostrava tiepida nei confronti del progetto e anziché guidare l’europeismo di Briand verso un esito federale, lo spinse verso il cul de sac della Società delle Nazioni.[39] Se, due decenni dopo, la Dichiarazione Schuman, che diede origine alla CECA, poté essere accolta, in gran parte fu grazie all’ombrello della sicurezza atlantica e al beneplacito degli Stati Uniti d’America, fortemente interessati alla realizzazione del progetto. Il quadro internazionale del 1929, pur considerando le debite differenze, ha invece degli elementi di somiglianza con il quadro attuale: la natura del sistema internazionale basato sulla frammentazione del precedente ordine, la presenza di aree di crisi in Europa e ai suoi margini, una profonda crisi economica che coinvolge attori fortemente interdipendenti, l’assenza di una potenza esterna che favorisca il progetto di unificazione, il reiterato tentativo di boicottaggio del processo europeo da parte della Gran Bretagna, pur sempre influente nel quadro europeo, anche se non più potenza di rango mondiale. Anche per queste pur generiche analogie, la lezione che ci viene dall’analisi del fallimento del piano Briand deve essere di monito oggi all’Europa perché sappia cogliere l’occasione storica di imboccare finalmente la strada giusta scegliendo, nel dilemma tra “unirsi o perire”, la via dell’unità.


[1] E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914/1991, Milano, BUR Rizzoli, p. 45.
[2] E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici, Bari, Laterza, 2007, p. 5.
[3] L. Dehio, Equilibrio o egemonia, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 219.
[4] E. Di Nolfo, op. cit., p. 8.
[5] Ibidem, p. 58.
[6] E.J. Hobsbawm, op. cit., p. 39.
[7] A. Caffarena, Le organizzazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 68.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] G. Sabbatucci, e V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Bari, Laterza, 2005, p. 268.
[11] E. Di Nolfo, op. cit., p. 63.
[12] G. Sabbatucci, e V. Vidotto, op. cit., p. 333.
[13] E.J. Hobsbawm, op. cit., p. 112.
[14] E. Di Nolfo, op. cit, p. 60.
[15] Il testo integrale del discorso, “Discours d’Aristide Briand devant la Xe session de l’Assemblée de la Société des Nations” è riportato in O. Keller e L. Jilek, Le Plan Briand d’Union fédérale européenne: documents, textes choisis, Fondation Archives Européennes, Ginevra, 1991, p. 1.
[16] Il testo integrale del discorso, “Discours de Gustav Stresemann devant la Xe session de l’Assemblée de la Société des Nations” è riportato in O. Keller e L. Jilek, op. cit., p. 3.
[17] Il testo integrale si trova in “Le Plan Briand-Leger et les réponses des gouvernements” in O. Keller e L. Jilek, op. cit., p. 37.
[18] Nel testo originale, rispettivamente: “Nécessité d’un pacte d’ordre général, aussi élémentaire fut-il, pour affirmer le principe de l’union morale européenne et consacrer solennellement le fait de la solidarité instituée entre Etats européens”; “Nécessité d’un mécanisme propre à assurer à l’union européenne les organes indispensables à l’accomplissement de sa tâche”; “Nécessité d’arrêter d’avance les directives essentielles qui devront déterminer les conceptions générales du Comité européen et le guider dans son travail d’étude pour l’élaboration du programme d’organisation européenne”; “Opportunité de réserver, soit à la prochaine conférence européenne, soit au futur Comité européen, l’étude de toutes les question d’application”.
[19] Nel Progetto di Patto paneuropeo di Coudenhove–Kalergi (pubblicato O. Keller e L. Jilek, op. cit., p. 17) gli organi dei progettati “Etats fédérés d’Europe” erano Conseil fédéral, Assemblée fédérale, Chancellerie fédérale e Cour fédérale.
[20] O. Keller e L. Jilek, op. cit., p. 55.
[21] E.J. Hobsbawm, op. cit., p. 113.A.
[22] Bosco, “The British Foreign Office and the Briand Plan”, in A. Fleury e L. Jilek (a cura di), Le Plan Briand d’Union fédérale européenne, Berna, Peter Lang, 1998.
[23] Nel 1931 lo Statuto di Westminster concesse la piena autonomia ai governi dei Dominions, che si costituivano in Stati in unione personale col Sovrano britannico.
[24] W. Churchill, “The United States of Europe”, riportato in O. Keller, e L. Jilek, op. cit., p. 16.
[25] A. Bosco, op cit., p. 348.
[26] Ibidem, p. 351.
[27] M. Petricioli, “La risposta italiana al progetto di Unione federale europea di Briand”in L. Tosi (a cura di), L’Italia e le organizzazioni internazionali, Padova, CEDAM, 1999, p. 116.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem, p. 117.
[30] Ibidem, p. 119.
[31] Nella nota diplomatica tale organo viene chiamato “Consiglio”.
[32] Dai Documenti Diplomatici Italiani (DDI) risulta che si svolsero dei colloqui tra gli ambasciatori italiani a Mosca ed Ankara ed i governi sovietico e turco.
[33] DDI, 7a, IX, D234 Grandi a Mussolini, Roma, 31.8.1930, riportato in M. Petricioli, op. cit.
[34] “Rapport du gouvernement français sur les résultats de l’enquête instituée au sujet de l’organisation d’un régime d’union fédérale européenne” riportato in O. Keller, e L. Jilek, “Le Plan Briand d’Union fédérale européenne...”, op. cit., p. 58.
[35] F. Pozzoli, Federalismo e autonomia, breviario, Milano, Rusconi, 1997, p. 125.
[36] H. Mikkeli, Europa, Storia di un’idea e di un’identità, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 98.
[37] Ibidem.
[38] S. Costea, The Briand Project of European Union,(on line,).Versione 2. Knol. 2008 set3.
[39] A. Bosco, op cit., p. 353.

 

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