IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXII, 1990, Numero 1 - Pagina 71

 

 

L’UNIONE EUROPEA E L’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA*

 

 

1. Il problema dell’Unione economica e monetaria viene analizzato in questo rapporto da un punto di vista particolare: si tratta infatti di mettere in evidenza i legami che esistono fra il processo che deve portare alla creazione della moneta europea ed al rafforzamento delle politiche comuni ed il processo di fondazione dell’Unione europea. Non prenderemo quindi in esame in modo dettagliato gli aspetti tecnici che caratterizzano il dibattito in corso sulla creazione di una Banca centrale ovvero sull’armonizzazione fiscale, ma ci limiteremo a sottolineare i fatti e i problemi su cui i federalisti possono far leva per promuovere lo sviluppo del processo destinato a concludersi con la fondazione dell’Unione europea.

Occorre quindi risalire, in primo luogo, all’adozione dell’Atto Unico e alla valutazione che ne hanno dato i federalisti. E’ un fatto che il nostro giudizio sulle decisioni di Lussemburgo è stato del tutto negativo, in quanto le abbiamo ritenute inadeguate a garantire il minimo politico istituzionale necessario per attribuire alla Comunità una effettiva capacità di decisione. Nello stesso tempo, il progetto di completamento del mercato interno che da Lussemburgo ha preso avvio sulla base delle indicazioni contenute nel Libro bianco del 1985, con l’impegno di procedere all’abolizione delle barriere di natura fisica, tecnica e fiscale alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei fattori della produzione, l’abbiamo giudicato un effettivo passo in avanti in quanto destinato a far maturare alcune contraddizioni su cui sarebbe stato possibile, in un periodo successivo, inserirsi per reclamare che al Parlamento europeo fossero riconosciuti poteri costituenti.

E in effetti, subito dopo la sconfitta di Lussemburgo, Spinelli ha rilanciato il progetto di Unione europea, con una duplice caratterizzazione: da un lato, il Parlamento europeo doveva rivendicare l’attribuzione di un mandato costituente da parte degli Stati, in modo tale che il progetto di Unione europea non dovesse più passare successivamente attraverso una conferenza diplomatica, ma potesse essere sottoposto direttamente alla ratifica da parte degli Stati membri; d’altro lato, era necessario procedere ad una larga mobilitazione dell’opinione pubblica, ed è noto che Spinelli pensava ad un referendum sull’attribuzione del mandato costituente da svolgersi contemporaneamente alle prossime elezioni europee. Ma il problema prioritario che ci dobbiamo porre è il seguente: è possibile rilanciare la lotta per l’Unione nella fase attuale del processo di integrazione europea? E per dare una risposta a questo quesito occorre chiedersi se lo sviluppo del processo di integrazione è in grado di portare sul terreno nuove forze che, grazie all’iniziativa dei federalisti, siano capaci di costituire uno schieramento sufficientemente ampio per sopraffare le resistenze che inevitabilmente si verranno a frapporre al tentativo di promuovere una profonda trasformazione istituzionale della Comunità.

Da questo punto di vista è importante un esame dei problemi relativi alla fondazione dell’Unione economica e monetaria. E in effetti, al di là del continuo discorrere intorno alla mitica scadenza del 1992, si tratta di vedere quali sono i problemi reali che sono oggi sul tappeto e quali sono di conseguenza le forze su cui possiamo contare per rilanciare politicamente il processo che deve portare alla fondazione della Federazione europea.

 

2. Il progetto di completamento del mercato interno ha notevolmente rafforzato l’ipotesi di giungere alla creazione di un’Unione monetaria. Su questo terreno l’UEF ha preso da tempo una posizione molto netta. I federalisti si sono battuti per il superamento del regime di cambi flessibili, che ha prodotto effetti molto negativi sul processo di integrazione europea. E hanno sostenuto con forza, pur mettendone in evidenza i limiti, il progetto di giungere alla creazione del Sistema monetario europeo, che rappresentava un netto passo in avanti rispetto alla situazione precedente caratterizzata da una completa flessibilità e, soprattutto, un punto di partenza in vista di ulteriori progressi verso l’Unione monetaria.

E così in effetti è stato. Lo SME ha consentito di superare le gravi difficoltà prodotte dalla flessibilità dei cambi, sia sul terreno dell’integrazione agricola, sia su quello dell’integrazione industriale. Ha rafforzato la spinta alla stabilità monetaria nei paesi caratterizzati da elevati tassi di inflazione, stimolando al contempo lo sviluppo dei processi di riconversione produttiva. Ha promosso la convergenza delle economie, favorendo così ulteriori avanzamenti del processo di integrazione monetaria.

Oggi una spinta rilevante all’unificazione monetaria viene dalla decisione di procedere ad una completa liberalizzazione dei movimenti di capitale. E’ chiaro che una decisione di questo tipo, che mira ad una efficiente allocazione del risparmio in formazione sul mercato europeo dei capitali, presuppone una stabilità dei rapporti di cambio. E in effetti, soltanto in questo caso è possibile che i flussi di risparmio siano determinati unicamente dalle differenze di redditività fra progetti di investimento alternativi, e non vengano invece condizionati dalla forza relativa delle diverse monete, e quindi dalle prospettive di svalutazione (o rivalutazione) di ciascun investimento.

La strada da seguire è ormai segnata, dopo la decisione del Vertice di Hannover di assegnare il compito ad un Comitato presieduto da Jacques Delors di preparare un rapporto sulla creazione della Banca centrale europea e sul ruolo dell’Ecu, da presentare in occasione del Vertice di Madrid, a conclusione del semestre di presidenza spagnola. Su questo terreno il ruolo dei federalisti, che è quello dell’iniziativa, sembra ormai esaurito: altre forze economiche e sociali sono ormai sul campo, e si battono per il raggiungimento di quegli obiettivi che da tempo l’UEF ha posto in evidenza. A noi spetta in questa fase il compito della sorveglianza attiva. Evidentemente, i risultati che emergeranno da Madrid dovranno quindi essere valutati attentamente per vedere in che misura è possibile far leva sugli avanzamenti proposti nel settore monetario per consolidare prima la realizzazione dell’Unione monetaria e per procedere poi verso il completamento dell’Unione europea.

 

3. E’ chiaro che nell’ipotesi di completa liberalizzazione dei movimenti di capitale la politica monetaria perde di efficacia a livello nazionale in quanto i tassi di interesse verrebbero determinati sul mercato europeo e una variazione dei tassi da parte di un singolo paese, per fini espansivi o restrittivi dell’attività produttiva, non avrebbe alcuna influenza sulla domanda effettiva, ma soltanto sulla bilancia dei pagamenti. Se la politica di stabilizzazione e sviluppo perde uno strumento a livello nazionale, è quindi necessario che vengano rafforzati i poteri – attribuiti alla Comunità – di gestione della politica economica. E questa necessità è ancora più evidente se si tengono presenti i limiti che il progetto di completamento del mercato interno impone anche sul lato della politica fiscale.

Con l’Atto Unico gli Stati membri della Comunità hanno infatti deciso di promuovere entro il 1992 la creazione di uno «spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali». Ma la creazione di un mercato unico delle merci presuppone necessariamente che venga rivisto il regime dell’IVA e delle accise attualmente in vigore. Oggi, sulla base della normativa del Trattato di Roma, l’esistenza di frontiere fiscali è resa necessaria dall’applicazione del principio della tassazione nel paese di destinazione: le merci, infatti, per evitare che si manifestino distorsioni di natura fiscale nella concorrenza fra i beni prodotti nei diversi Stati membri, caratterizzati da regimi differenziati di imposizione indiretta, ottengono alla frontiera, al momento dell’esportazione verso un altro paese della Comunità, un rimborso delle imposte pagate all’interno e pagano al momento dell’importazione un diritto compensativo pari alle imposte del paese di consumo finale del bene. In questo modo le scelte di localizzazione della produzione non risultano influenzate dalla struttura dei diversi sistemi fiscali dei paesi membri, in quanto vi è un uguale trattamento fiscale, all’interno di ciascun mercato di consumo, per tutte le merci, indipendentemente dal fatto che siano importate o di origine domestica. Nello stesso tempo, rimangono larghi margini di autonomia nella gestione della politica fiscale, in quanto le autorità nazionali di politica economica possono fissare aliquote e basi imponibili tenendo conto delle esigenze di ciascun paese.

La realizzazione del mercato unico prevede invece l’eliminazione delle barriere fiscali, e le proposte avanzate dalla Commissione, almeno per quanto riguarda il regime dell’IVA, prevedono il passaggio all’applicazione del principio della tassazione nel paese di origine. Le esportazioni non costituiscono più operazioni non imponibili, ma vengono tassate sulla base delle aliquote del paese in cui avviene la produzione, e possono poi circolare liberamente all’interno della Comunità. Questa proposta implica come necessario corollario l’armonizzazione delle basi imponibili e anche un certo allineamento delle aliquote. Se si tiene presente che, nel caso delle accise, le proposte della Commissione presuppongono una completa uniformazione delle aliquote, si può ritenere in conclusione che la Comunità si sta avviando verso un’unione tributaria, e quindi verso una diminuzione dell’autonomia finanziaria degli Stati membri. Sulla base di queste osservazioni, un recente documento elaborato dal Servizio Studi della Banca d’Italia conclude che «il passaggio alla tassazione secondo l’origine e la nascita di un’unione tributaria si giustificano soprattutto nella prospettiva di un sistema di finanza comunitaria molto più sviluppato dell’attuale, che preveda il passaggio al livello sovra-nazionale di funzioni oggi assolte a livello statale e un sistema di trasferimenti molto più articolato dell’attuale. Il rafforzamento della finanza comunitaria in senso federale e gli sviluppi politici e istituzionali ad esso connessi costituirebbero un momento di grande rilievo nel processo di integrazione europea».

 

4. La spinta verso una estesa armonizzazione fiscale è ulteriormente rafforzata dal processo in atto per la creazione di uno spazio finanziario europeo, in quanto la liberalizzazione dei movimenti di capitale rischia di provocare notevoli distorsioni nell’allocazione del risparmio in presenza di differenze significative nella struttura della tassazione. E in effetti le decisioni di investimento sono influenzate dalle caratteristiche del sistema fiscale, per quanto riguarda la localizzazione della sede e delle attività produttive relativamente alle società e per quanto riguarda l’impiego del risparmio relativamente agli investitori privati. Per questa ragione la Commissione intende avanzare proposte precise in ordine ad un riavvicinamento della base imponibile e delle aliquote delle imposte sulle società e ad un’armonizzazione della tassazione sui redditi di capitale dei paesi membri.

Al di là delle specifiche soluzioni proposte occorre qui sottolineare come anche in questo caso si manifesti la logica di fondo del processo che deve portare al completamento del mercato interno. Negli anni successivi alla creazione del Mercato comune si è avviato e portato a compimento il processo di liberalizzazione degli scambi per quanto riguarda le merci, attraverso l’eliminazione dei dazi doganali e dei contingentamenti che gravavano sul commercio intra-comunitario. La crisi monetaria seguita alla decisione di rendere inconvertibile il dollaro in oro e la crisi economica seguita al rialzo dei prezzi delle materie prime, ed in particolare del petrolio, hanno interrotto questo processo evolutivo per circa un quindicennio. Ma, soprattutto a seguito dell’azione intrapresa dal Parlamento europeo grazie all’iniziativa di Altiero Spinelli, che ha rilanciato il processo per realizzare l’Unione economica e monetaria e per promuovere le profonde riforme istituzionali necessarie per far fronte al deficit democratico che tuttora caratterizza la Comunità, la Commissione Delors ha potuto proporre, e far accettare dai governi, un programma definito in termini concreti per il completamento del mercato interno entro il 1992. Si tratta in sostanza di portare a compimento l’effettiva unificazione del mercato interno per quanto riguarda la produzione e lo scambio di merci, eliminando gli ostacoli di natura fisica, tecnica e fiscale che ancor oggi sussistono e che sono evidenziati in modo emblematico dal mantenimento delle frontiere. E si tratta soprattutto di far avanzare il processo di liberalizzazione per quanto riguarda i servizi ed i fattori della produzione.

Ma il processo, una volta avviato, richiede necessariamente che ulteriori passi in avanti vengano realizzati. Con un atteggiamento molto più realista che nel passato, la Commissione ha quindi presentato le sue proposte per quanto riguarda l’armonizzazione fiscale. E ben presto, non appena sono state definite le regole per garantire la liberalizzazione dei movimenti di capitale, è apparso evidente che era necessario procedere ulteriormente sul terreno dell’armonizzazione delle imposte sulle società e della tassazione dei redditi di capitale. Con uguale chiarezza si è presentata ai governi l’urgenza di riprendere il processo verso la costituzione di un’unione monetaria, con la creazione di una Banca centrale europea e la trasformazione in prospettiva dell’Ecu in una vera e propria moneta. La Comunità si è quindi avviata lungo un piano inclinato verso l’unione economica e monetaria, in cui ogni decisione assunta rende ancor più indispensabili ulteriori avanzamenti che avvicinano il conseguimento dell’obiettivo finale.

E’ su questa base che si è definito il giudizio dei federalisti sull’Atto Unico, che da un lato hanno subito valutato in modo negativo dal punto di vista della sua inadeguatezza a superare il deficit democratico che caratterizza la Comunità, mentre d’altro lato ne mettevano in evidenza le potenzialità legate alla decisione di promuovere il completamento del mercato interno. Il salto dagli Stati nazionali all’Europa è possibile, infatti, soltanto in una fase del processo in cui alcuni nodi decisivi sul terreno della sovranità, in sostanza la moneta e la difesa, non possono più essere affrontati in modo positivo a livello nazionale e richiedono una soluzione europea. Nello stesso tempo, lo sviluppo del processo di integrazione economica sposta gli interessi sul terreno europeo e favorisce quindi un’iniziativa politica destinata a trasferire la sovranità dagli Stati all’Unione europea in via di formazione. E’ questa la base su cui possono inserirsi i federalisti per fondare la loro rivendicazione per l’attribuzione di un potere costituente al Parlamento europeo, in quanto ogni passo in avanti verso il completamento del mercato interno e la realizzazione dell’unione monetaria accresce al contempo il deficit democratico della Comunità e rende quindi più urgente la fondazione di un governo efficace dell’economia europea.

 

5. In un recente studio elaborato su incarico della Commissione – il Rapporto Cecchini – vengono analiticamente determinati i vantaggi economici conseguenti al completamento del mercato interno. E’ opportuno ricordare rapidamente i principali risultati messi in evidenza da questo Rapporto, per valutare in che misura essi siano conseguibili senza il supporto di interventi attivi di politica fiscale da parte della Comunità.

Il Rapporto stima innanzitutto i costi diretti delle formalità alle frontiere interne ed i costi amministrativi che ne risultano per il settore pubblico e per il settore privato, che vengono calcolati in misura pari all’1,8% del valore delle merci commercializzate all’interno della Comunità. A questi si devono aggiungere i costi per l’industria derivanti dall’esistenza di altre barriere, ed in particolare delle barriere tecniche, che risultano pari almeno al 2% dell’insieme dei costi delle imprese. Il totale rappresenta circa il 3,5% del valore aggiunto industriale.

Il Rapporto dimostra che le economie di scala potenziali non sfruttate dall’industria europea sono sostanziali. Un mercato europeo unificato sarebbe in grado infatti di garantire una concorrenza più vivace fra imprese di dimensioni efficienti, ed in questo modo circa un terzo dell’industria europea si stima che possa godere di una riduzione dei costi che, a seconda dei settori, potrebbe variare fra l’l% e il 7%. Le economie di scala così realizzate equivarrebbero in valore cumulato al 2% del PIL europeo.

Nel complesso, tenendo conto di tutti i settori e di tutti i tipi di riduzione dei costi e dei prezzi, il Rapporto giunge alla conclusione che i vantaggi economici complessivi ammonterebbero ad un valore compreso fra il 4,25% ed il 6,5% del PIL per la Comunità nel suo insieme. Ai prezzi del 1988, per l’insieme dei dodici paesi membri, il valore complessivo dovrebbe oscillare in una forchetta compresa fra 170 e 250 miliardi di Ecu.

Per quanto riguarda le valutazioni macro-economiche, gli effetti del completamento del mercato interno sono stati raggruppati nel Rapporto in tre categorie, aventi impatto diverso: a) soppressione dei ritardi e dei costi legati alle formalità delle frontiere interne; b) apertura dei mercati pubblici alla concorrenza; c) liberalizzazione ed integrazione dei mercati finanziari. Vengono inoltre considerati gli effetti più generali dal lato dell’offerta, che riflettono i mutamenti nelle strategie aziendali nel nuovo clima di più accentuata concorrenzialità.

L’impatto globale si manifesterebbe innanzitutto in una pressione al ribasso sui prezzi e sui costi e, con un leggero ritardo, in una spinta all’aumento della produzione. Entro i11992 l’impatto cumulativo sarebbe pari al 4,5% in termini di PIL e ad una riduzione del 6% del livello dei prezzi. L’impatto sull’occupazione sarebbe positivo a medio termine, con la creazione di due milioni di posti di lavoro. La Commissione ha stimato altresì che, nell’ipotesi di politiche macro-economiche più attive di accompagnamento, l’incremento del PIL potrebbe raggiungere il 7% ed accompagnarsi alla creazione di cinque milioni di posti di lavoro. In definitiva, i vantaggi economici potenziali che si potrebbero conseguire attraverso il completamento del mercato interno sono consistenti. Ma occorre rilevare che, in assenza di politiche macro-economiche espansive destinate a creare condizioni favorevoli dal lato della domanda, non è affatto certo che questi effetti potenziali possano concretamente manifestarsi.

Appare quindi più che mai di attualità la proposta di Albert che il completamento del mercato interno debba accompagnarsi ad un programma europeo di investimenti, capace di sostenere la domanda globale e quindi il riassorbimento della disoccupazione. Esiste in effetti un «moltiplicatore di efficacia per la spesa comunitaria». Rispetto a manovre nazionali isolate, una politica fiscale espansiva gestita a livello comunitario produce effetti da due a quattro volte maggiori per quanto riguarda l’accelerazione del tasso di sviluppo e da una a due volte minori per quanto riguarda gli effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti. Si tratta quindi di utilizzare le capacità di prestito della Comunità, ed in particolare della BEI, per finanziare progetti addizionali di investimento. Un prestito comunitario pari a circa 20 miliardi di Ecu per tre anni (con un aumento pari a circa due volte e mezzo dei finanziamenti concessi dalla BEI nel 1987) porterebbe così ad un aumento del tasso di crescita di un punto percentuale annuo.

Per quanto riguarda la destinazione di questi investimenti, è sufficiente ricordare come la Round Table di industriali, presieduta dal Presidente della Volvo Guyllenhamar, abbia identificato in Europa una massa di investimenti pari a circa 50 miliardi di Ecu, per un insieme di progetti (tunnels, TGV transnazionali, telecomunicazioni, ambiente, trasporti) con una redditività finanziaria dell’ordine del 7-10%. E’ ormai del tutto evidente che la politica di austerità nei bilanci pubblici condotta in questi anni nella maggior parte dei paesi della Comunità ha creato una serie rilevante di bisogni insoddisfatti. Ma la necessità di un rafforzamento dell’intervento pubblico a livello comunitario deve essere ulteriormente sottolineata se si tengono presenti gli altri obiettivi che deve perseguire la politica economica nell’ambito della Comunità.

 

6. Il Rapporto Cecchini, come in generale il dibattito economico corrente, tende a sottolineare i vantaggi in termini di efficienza che possono derivare dal completamento del mercato interno. Queste valutazioni sono certamente importanti e non vanno affatto sottovalutate. Ma mentre alcune forze politiche e culturali conservatrici, che trovano espressione nella linea di politica europea adottata dal governo inglese, sottolineano la necessità di affidarsi unicamente alle forze di mercato e di garantire la sopravvivenza della sovranità esclusiva degli Stati membri, i federalisti si battono per un coronamento politico del processo avviato con la decisione di promuovere il completamento del mercato interno. Per i federalisti, infatti, questo sviluppo politico è indispensabile non soltanto per colmare il deficit democratico della Comunità, ma anche – e parallelamente – per consentire la realizzazione di altri obiettivi rilevanti di politica economica, al di là della maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse resa possibile dalla caduta delle barriere che ancora si frappongono alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei fattori della produzione.

La necessità di un rafforzamento delle dimensioni del bilancio comunitario, in misura pari almeno al 2,5% del PIL comunitario, al fine di garantire una adeguata capacità di stabilizzazione automatica dei livelli di attività produttiva ed un sostegno efficace alle aree più deboli della Comunità nel corso del processo di unificazione monetaria, è già stata messa in evidenza in modo definitivo nel Rapporto MacDougall, su cui i federalisti hanno più volte attirato l’attenzione delle forze politiche, sociali e culturali. Questa necessità deve oggi essere riproposta con forza, se si vuole evitare che il completamento del mercato interno entro il 1992 si trasformi in una selvaggia deregulation, con un mercato dominato dalle grandi concentrazioni economiche e finanziarie e con una totale abdicazione da parte della Comunità rispetto al perseguimento dei valori che caratterizzano in modo specifico la società europea.

Non è qui necessario definire in modo preciso lo sviluppo delle politiche comuni già attivate e le caratteristiche delle nuove politiche da promuovere. Ci limiteremo quindi ad un sommario richiamo degli obiettivi prioritari che si debbono perseguire in parallelo con il completamento del mercato interno grazie ad un consistente rafforzamento delle dimensioni del bilancio comunitario.

a) Si tratta in primo luogo di garantire la massimizzazione della produzione e la riduzione della disoccupazione. Da questo punto di vista, come si è già ricordato, l’eliminazione delle barriere di qualsiasi natura che ancora sussistono si deve accompagnare all’uso di una politica attiva di sostegno della domanda effettiva.

b) Un secondo obiettivo, richiamato anche nell’Atto Unico, è la coesione sociale ovvero la creazione di uno spazio sociale europeo, che presuppone un rafforzamento delle politiche strutturali già esistenti e l’avvio di nuovi interventi, soprattutto nelle aree più deboli della Comunità.

c) La creazione di un grande mercato di per sé non garantisce un’equa ripartizione dei benefici su base territoriale. Anche sotto questo profilo si pone quindi l’esigenza di più ampi stanziamenti per le politiche strutturali e di una maggiore capacità di spesa a livello comunitario soprattutto per interventi di creazione di adeguate infrastrutture, indispensabili per ridurre gli squilibri territoriali che già si manifestano all’interno della Comunità e che si rafforzeranno inevitabilmente, senza i necessari interventi correttivi, nel corso del processo di completamento del mercato interno.

d) Si tratta inoltre di avviare un’efficace riconversione ecologica dell’economia europea. E’ vero infatti che il problema è innanzitutto di carattere normativo, in quanto si devono imporre vincoli al mercato in modo da orientare a fini di tutela dell’ambiente e di conservazione delle risorse naturali la produzione ed il consumo. Ma si pongono anche problemi rilevanti di impiego di risorse finanziarie, che risulteranno indispensabili per rendere compatibili i processi di riconversione produttiva con gli altri obiettivi di politica economica (ad esempio, la coesione sociale).

e) Si tratta infine di avviare a livello europeo una politica attiva per rendere compatibile la crescita dell’economia europea con lo sviluppo dei paesi del Terzo mondo. Anche in questo caso si deve ricordare come l’idea di un «Piano Marshall», soprattutto per sostenere i paesi del bacino del Mediterraneo ed i paesi africani, faccia ormai parte del patrimonio culturale dei federalisti europei e sia stato esplicitamente affermato nel «Manifesto del Mediterraneo» di Mario Albertini, approvato nella I Conferenza della forza federalista del Mediterraneo che si è tenuta a Potenza il 28-30 ottobre 1988. E questo tema viene ripreso in termini fortemente innovativi, anche con riferimento agli aspetti sociali del fenomeno relativamente ai problemi dell’immigrazione, in una mozione presentata a questo Congresso a conclusione dei lavori di una Commissione sui diritti dei cittadini istituita nell’ambito del Comitato federale dell’UEF.

Da questo pur sommario esame risulta evidente che la Comunità ha bisogno di un bilancio di dimensioni più ampie per garantire il raggiungimento di questi obiettivi, in parallelo al completamento del mercato interno. Ma questo rafforzamento delle dimensioni del bilancio e delle politiche comuni tende necessariamente ad aggravare in modo insostenibile il deficit democratico della Comunità e rappresenta quindi un’ulteriore spinta alla rivendicazione da parte dei federalisti della necessità di procedere alla costruzione di un potere democratico per governare l’economia europea.

 

7. Se la Comunità avanza verso l’Unione economica e monetaria, appare sempre più cogente l’esigenza, già messa in evidenza dal Rapporto Werner, di promuovere un coordinamento efficace delle politiche di bilancio degli Stati membri, in particolare per quanto riguarda la determinazione del saldo e delle modalità di finanziamento.

In proposito, esistono una pluralità di modelli che possono essere utilizzati. Nella generalità delle federazioni esistenti gli Stati membri conservano il potere di decidere sul rispettivo livello di indebitamento, e quindi sull’ammontare complessivo di spesa e di prelievo fiscale. Di conseguenza, gli Stati membri si riservano la facoltà di ottenere attraverso il mercato, non potendo più disporre della leva monetaria, i prestiti necessari per conseguire l’equilibrio del bilancio. L’unica eccezione è costituita dal Loan Council australiano, dato che in questo paese le autorità federali hanno un ruolo preminente nel decidere la quantità di ricorso al credito da parte degli Stati membri e il Loan Council agisce come ente che contrae il prestito per conto degli Stati.

Si tratta, come è evidente, di due modelli polari: infatti, nel primo caso appare eccessivamente debole il potere di gestire una variabile fondamentale della politica economica da parte del livello centrale di governo; nel secondo caso è invece massimo il grado di accentramento, in quanto gli Stati membri perdono l’autonomia nella determinazione del livello complessivo di spesa e di prelievo, anche se possono avvantaggiarsi presumibilmente di un minor costo dell’indebitamento grazie alla gestione centralizzata dei prestiti realizzata dall’ente federale.

Un’opzione alternativa consiste nello stabilire, attraverso norme a fondamento costituzionale, l’obbligo per lo Stato membro di azzerare il disavanzo strutturale ovvero di mantenere in equilibrio il bilancio su base ciclica. Ma, in termini più generali, se si vuole impostare correttamente il problema dell’equilibrio della finanza degli Stati membri sulla base dei principi che caratterizzano una struttura statuale di natura federale, non sembra opportuno prevedere che sia il mercato, in ultima istanza, a decidere sul livello di indebitamento consentito ai diversi livelli di governo. Appare invece più adeguata una soluzione che preveda l’attribuzione alla Comunità del potere di decidere sul livello complessivo di indebitamento dell’insieme delle pubbliche amministrazioni in funzione delle esigenze di equilibrio e di sviluppo dell’intera economia europea. Gli Stati membri, in questo caso, vedranno definito esogenamente il livello possibile di indebitamento, e su questa base dovranno stabilire l’ammontare rispettivo delle entrate e delle spese. La determinazione del livello complessivo di indebitamento dovrà tener conto naturalmente della necessità di gestire la politica economica in funzione anticongiunturale, mentre la distribuzione del credito fra i diversi paesi dovrà essere effettuata anche in funzione dell’obiettivo di riduzione degli squilibri regionali a carattere strutturale, e comunque in funzione dell’obiettivo di una maggiore coesione sociale all’interno della Comunità.

Ancora una volta, l’attribuzione di questi compiti così delicati alla Comunità, e la parallela riduzione della sovranità nazionale in materia fiscale, è concepibile soltanto se in parallelo si manifesta un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e della sua capacità di controllo sull’Esecutivo europeo. In caso contrario, non soltanto la struttura del processo decisionale risulterebbe in contrasto, in modo inaccettabile, con i principi democratici fondamentali, ma risulterebbe altresì sicuramente paralizzata dalle resistenze degli Stati membri, che nella situazione attuale della Comunità possono addirittura avvalersi del diritto di veto.

 

8. Nella prospettiva di una costruzione progressiva dell’Unione economica e monetaria è possibile definire una politica di risanamento della finanza pubblica nei paesi europei che presentano consistenti problemi di disavanzo di bilancio, in modo tale da garantire al contempo il rafforzamento, e non lo smantellamento, del welfare state. Il punto di riferimento per affrontare questo problema è evidentemente la teoria del federalismo fiscale. E l’analisi deve prendere avvio dal fatto che comunque, nei prossimi anni, la domanda pubblica giocherà un ruolo decisivo per stimolare un nuovo ciclo di sviluppo dell’attività produttiva e l’avvio di un processo di riconversione ecologica dell’economia.

Nel quadro del sistema keynesiano, il compito prioritario dello Stato è di intervenire per garantire la piena occupazione o attivando direttamente nuova domanda attraverso la spesa pubblica al fine di compensare una domanda privata insufficiente o rendendo effettiva una domanda potenziale di beni e servizi che non si manifesta sul mercato a causa di una indisponibilità di reddito monetario. In questo caso lo Stato, per stimolare la domanda, trasferisce reddito alle classi più povere o riduce il prelievo sui redditi privati. Così, sfruttando la domanda potenziale disponibile, si è garantito un intero ciclo di sviluppo dell’economia, in particolare nel secondo dopoguerra.

Oggi, almeno nei paesi europei, i bisogni fondamentali della popolazione sono largamente soddisfatti e, quindi, la domanda potenziale che si può rendere effettiva riguarda soprattutto beni non di prima necessità, ad elevata elasticità rispetto al reddito e la cui produzione è controllata largamente dal settore pubblico. E, nello stesso tempo, l’avvio di una riconversione ecologica della produzione e del consumo presuppone necessariamente un consistente intervento pubblico. In sostanza, si prefigura un’espansione, in questo ambito, della spesa pubblica, e non una sua riduzione.

D’altro lato, nonostante le tendenze del momento favorevoli ad una drastica riduzione dell’intervento pubblico nell’economia, non è ragionevolmente sostenibile che le conquiste che il welfare state è stato in grado di assicurare ai cittadini europei in presenza di livelli di reddito molto inferiori e che hanno portato l’Europa all’avanguardia su questo terreno rispetto agli Stati Uniti e al Giappone, siano cancellati ora in presenza di un livello assoluto di ricchezza molto più elevato.

Il fatto è che il vero problema all’ordine del giorno non è quello di ridurre la spesa per il welfare, ma di renderla più efficiente. Da questo punto di vista occorre sottolineare un limite del pensiero tradizionale, che tende ad identificare l’intervento pubblico con la produzione diretta di beni pubblici da parte dello Stato. In realtà, se si vuole combinare l’efficienza con l’equità, e procedere quindi verso il superamento della crisi della finanza pubblica senza sacrificare le conquiste sociali realizzate in passato, occorre attribuire maggiori responsabilità di governo della spesa sociale alle collettività direttamente interessate.

In sostanza, gli enti di livello inferiore (e quindi in prospettiva non solo gli Stati membri, ma anche le regioni, le province ed i comuni) dovranno provvedere – direttamente o attraverso convenzioni con i produttori privati nei casi in cui sia tecnicamente possibile ed economicamente più efficiente – all’erogazione dei servizi sociali che interessano le rispettive popolazioni, ponendo a carico delle stesse il relativo finanziamento. La premessa necessaria è, evidentemente, che il livello centrale di governo, ossia il livello europeo, garantisca, attraverso un’adeguata politica di perequazione territoriale delle risorse, un livellamento dei punti di partenza su tutto il territorio della Comunità.

L’attribuzione di responsabilità di finanziamento della spesa pubblica a livello decentrato aumenta il controllo sociale della spesa, evitando i fenomeni di degrado e di corruzione che lo statalismo tende a portare con sé, e garantisce che la spesa sociale si espanda nella misura in cui i cittadini interessati siano disposti parallelamente a rinunziare alla disponibilità di beni privati, attraverso il consenso che manifestano ad un inasprimento dei livelli di tassazione.

Queste considerazioni dovrebbero servire a sgombrare il campo da una polemica artificiosa che viene montata nei confronti dello sviluppo dell’Unione economica e monetaria, sulla base dell’affermazione che la costruzione dell’Unione appare destinata a trascinare con sé inevitabilmente un aumento del grado di centralizzazione. E’ questa una tesi che viene utilizzata in modo strumentale per contrastare gli sviluppi che discendono dalla decisione di procedere entro il 1992 al completamento del mercato interno. Al contrario, la realizzazione di una reale unità sul terreno economico e monetario, e l’attribuzione all’Esecutivo di effettivi poteri di governo dell’economia europea, rappresentano la premessa indispensabile per realizzare il massimo di decentramento sulla base dei principi del federalismo fiscale, senza entrare in contrasto con il perseguimento degli obiettivi di equità che rappresentano un patrimonio inalienabile della civiltà europea.

 

9. In conclusione, si è visto che il completamento del mercato interno entro il 1992 ha posto sul tappeto il problema della costruzione di un’unione monetaria e di un’unione tributaria, e di un rafforzamento della politica di bilancio a livello europeo. Per quanto riguarda il problema della Banca centrale e della trasformazione dell’Ecu in una vera e propria moneta europea, il processo è ormai avviato e ai federalisti, e quindi all’UEF, non spetta più il compito dell’iniziativa, ma quello altrettanto importante, ma comunque di diverso significato, della vigilanza attiva, per evitare che gli ostacoli che inevitabilmente verranno frapposti da parte dei gruppi più conservatori possano impedire il buon esito del processo.

E’ invece sul terreno dell’unione economica che i federalisti devono oggi assumersi la responsabilità dell’iniziativa, promuovendo il dibattito in seno all’UEF sui temi che sono stati qui sommariamente esposti, cercando di definire una posizione comune e confrontandosi quindi in modo serrato con le altre forze politiche, sociali e culturali. Questo lavoro è strettamente collegato con la politica dell’UEF che mira a rilanciare l’iniziativa costituzionale per giungere alla fondazione dell’Unione europea. Senza avanzamenti sul terreno politico non si può infatti pensare, in termini realistici, che il completamento del mercato interno venga in effetti portato a compimento entro il 1992.

Il primo interlocutore dell’UEF su questo terreno è quindi necessariamente il Parlamento europeo, che dovrà essere nuovamente investito dei problemi analizzati nel Rapporto MacDougall e nel Rapporto Albert - Ball, dei problemi della costruzione dell’Unione tributaria e degli sviluppi dell’Unione economica sulla base dei principi del federalismo fiscale. Ma l’UEF dovrà rivolgersi anche alle forze economiche, sociali e culturali, prospettando le soluzioni elaborate dai federalisti per far fronte ai problemi che inevitabilmente si porranno nella prospettiva del 1992. E in questo modo si allargherà lo schieramento delle forze che l’UEF potrà parallelamente mobilitare nella lotta per la costruzione di un potere democratico a livello europeo. E’ questo infatti l’obiettivo decisivo da cui dipende il completamento del mercato interno e lo sviluppo dell’Unione economica e monetaria. E anche in questa prospettiva è quindi indispensabile che il Congresso si esprima in termini precisi sul rilancio di una iniziativa federalista in vista della costruzione dell’Unione europea e sulle condizioni necessarie per realizzarla.

 

Alberto Majocchi

 


* Si tratta di un Rapporto presentato nella II Commissione al XIV Congresso dell’Unione europea dei federalisti (UEF), svoltosi a Bruxelles il 7-9 aprile 1989.

 

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