IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXV, 1993, Numero 1, Pagina 44

 

 

ARNOLD J. TOYNBEE
 
 
Nato nel 1889 e morto nel 1975, Arnold J. Toynbee insegnò filologia classica a Oxford. In qualità di esperto dei problemi medio-orientali, partecipò con la delegazione britannica alla Conferenza di Versailles. Dal 1919 al 1924 fu professore di letteratura bizantina all’Università di Londra e diresse per lunghi anni l’Ufficio Studi del Royal Institute of International Affairs. Nella sua vastissima produzione egli si è dedicato spesso, e con partecipazione, anche ai problemi contemporanei. Il suo coinvolgimento morale emerge particolarmente in un libro, Mankind and Mother Earth,[1] che ha scritto verso la fine della sua lunga vita, in cui ha ripercorso la storia universale dell’uomo a partire dalla sua comparsa sulla Terra. Con esso ci ha consegnato un messaggio, una specie di testamento spirituale, che invita solennemente alla pacificazione degli uomini tra di loro e con la loro «Grande Madre», la Terra.
Di questo libro pubblichiamo qui di seguito l’ultimo capitolo, ma vale la pena citare qualche altro passo del volume che sottolinea le affinità con il pensiero federalista sia per quanto riguarda alcune premesse e categorie di interpretazione dell’evoluzione del processo storico, sia per quanto riguarda le conseguenze che trae dalla sua analisi globale.
La premessa di valore fondamentale che ha spinto Toynbee a ripercorrere l’intera storia dell’umanità è la salvaguardia della vita. Una delle idee guida — che corrisponde a una profonda inquietudine — su cui continuamente, nel corso del libro, l’autore ci invita a riflettere è la dialettica fra la potenziale malvagità dell’uomo («Gli uomini sono gli unici capaci di essere malvagi perché sono gli unici ad essere coscienti di quello che fanno e in grado di fare scelte deliberate»)[2] e la sua capacità, basata sulla coscienza, di odiare e condannare ciò che è male.
L’inquietudine nasce non tanto da questa possibilità di scelta fra bene e male da parte degli uomini, basata sulla loro natura di esseri consapevoli, quanto da ciò che condiziona i loro comportamenti in quanto sono inseriti in strutture istituzionali o tecnico-produttive di cui non sono diventati ancora interamente padroni. I due miti fondamentali di cui l’uomo è ancora schiavo sono per Toynbee da una parte gli Stati sovrani e dall’altra la convinzione di avere sempre perfettamente il controllo dell’uso della biosfera.
«Nel corso degli ultimi 5000 anni, egli scrive, i principali oggetti di culto dell’umanità sono stati gli Stati sovrani, e sono state divinità che hanno preteso e ottenuto ecatombi di sacrifici umani. Gli Stati sovrani si fanno guerra ed esigono che il fior fiore dei giovani maschi loro sudditi uccida i sudditi dello Stato ‘nemico’, col rischio di rimanere essi stessi uccisi dalle vittime designate. A memoria d’uomo, tutti gli esseri umani, salvo alcune piccole minoranze…, hanno considerato l’uccidere e l’essere uccisi in guerra come impresa non solo giusta, ma anche meritoria e gloriosa».[3]
Per quanto riguarda il secondo mito, altrettanto pericoloso per la salvaguardia della vita, Toynbee scrive: «La biosfera ha potuto dare asilo alla vita perché è stata un’associazione di componenti mutualmente complementari dotata di autoregolazione, e, prima dell’emergere dell’Uomo, nessun singolo componente… aveva acquisito la capacità di rovesciare quel delicato equilibrio delle forze in gioco che aveva consentito alla biosfera stessa di diventare una sede ospitale della vita…
L’Uomo è il primo abitante della biosfera che è più potente della biosfera stessa… L’Uomo può riuscire a sopravvivere finché non distrugge la biosfera».[4]
E una delle sfide a cui deve far fronte oggi è legata alla svolta cruciale della scoperta e dell’uso dell’energia atomica «strappata di mano al padre della vita, il Sole… Oggi non sappiamo se egli vorrà o sarà in grado di evitare a sé stesso ed agli altri esseri viventi il destino di Fetonte».[5]
L’aspetto costruttivo, propositivo, del pensiero di Toynbee consiste nell’identificazione del quadro all’interno del quale si manifestano i problemi e dal quale non si può prescindere per indicarne la soluzione. Questo quadro è la progressiva crescita dell’interdipendenza globale, che ha le sue radici in un lontano passato, ma che oggi è il presupposto essenziale da cui partire per indicare il cammino verso il futuro: «Si è già rilevata l’incongruenza tra la suddivisione politica dell’Ecumene in Stati locali sovrani e l’unificazione globale dell’Ecumene sul piano tecnologico ed economico. Essa è oggi la croce dell’umanità. Una qualche forma di governo mondiale è ormai necessaria per conservare la pace tra le comunità umane e per ristabilire l’equilibrio tra l’Uomo e la biosfera, ora che questo equilibrio è stato sconvolto dall’enorme sviluppo della potenza materiale dell’Uomo».[6]
La scelta fra bene a male è dunque la scelta fra unione e divisione, che noi federalisti identifichiamo come alternativa fra federalismo e nazionalismo. Toynbee non indica in modo esplicito lo Stato federale come struttura istituzionale adeguata a un governo mondiale, ma ne intuisce le caratteristiche e le potenzialità democratiche quando suggerisce la creazione di un «corpo politico universale, costituito da cellule delle dimensioni delle comunità di villaggio neolitiche — una dimensione entro la quale i membri possono conoscersi personalmente, e nel contempo ciascuno di essi possa essere anche cittadino di uno Stato mondiale».[7]
La stessa alternativa fra unione e divisione è stata la categoria che gli ha permesso di interpretare le vicende della Grecia del VI e V secolo,[8] i secoli dell’apogeo e della definitiva decadenza di un microcosmo che presentano stimolanti parallelismi, sia pure con le dovute distinzioni, con la storia e le prospettive dell’Europa moderna.
La rivoluzione economica, egli scrive, basata sulla colonizzazione e sul commercio, che ha permesso alla Grecia di svilupparsi nonostante il suo frazionamento in unità territoriali di dimensioni molto ridotte, le città-Stato, e il mantenimento della loro sovranità politica crearono uno squilibrio che non poteva durare. Le città-Stato, se non volevano tornare all’autarchia e all’arretratezza economica, dovevano rinunciare a parte della loro sovranità e dar vita a un organismo politico panellenico per la gestione dei problemi comuni. L’occasione, prosegue Toynbee, per affrontare il problema politico dell’unità fu offerta da un nemico esterno, i Persiani, di fronte alla cui potenza in espansione l’unica alternativa per i Greci era unirsi. Ma l’occasione fu colta solo parzialmente: l’organizzazione di una difesa comune permise ai Greci di respingere il tentativo di conquista, ma la fine delle guerre coincise con la ripresa delle divisioni e delle contrapposizioni all’interno della Grecia e con il suo irreversibile declino.
Non diversa è la situazione dell’Europa. Da un lato, il processo di integrazione economica avviatosi nel secondo dopoguerra difficilmente potrà sviluppare tutte le sue potenzialità se non si arriverà a una gestione politica dell’economia basata su un governo comune. Dall’altro lato, la risposta unitaria, la creazione cioè della Federazione europea, è l’unica alternativa a un nemico con cui per quasi due secoli l’Europa ha dovuto fare i conti, il nazionalismo. Il declino a cui andrebbe incontro l’Europa se prevalesse questa forza disgregatrice avrebbe conseguenze ben più gravi di quelle a cui andarono incontro le città-Stato greche, in quanto non ricadrebbero solo sugli Stati europei, ma sul mondo intero. Se prevalesse la divisione, avrebbe fine un esperimento storico che contiene in sé il germe culturale e morale, oltre che politico, dell’unità del genere umano, il superamento della sovranità assoluta degli Stati, la quale, come ha indicato Toynbee, costituisce il maggiore pericolo per la salvezza dell’Uomo e della «Madre Terra».
  
 
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1973: UNO SGUARDO RETROSPETTIVO
 
 
Il futuro non esiste ancora, il passato non esiste più, quindi, fino a quando ne sopravvive la memoria, gli avvenimenti registrati sono immutabili. Tuttavia, questo passato immutabile non presenta sempre e ovunque lo stesso volto, ma appare diverso in diversi luoghi e momenti, e un aumento o una diminuzione delle nostre conoscenze può, anche modificare il quadro. La nostra visione delle interrelazioni degli avvenimenti passati, della loro importanza relativa, e del loro significato, muta costantemente a seconda del continuo mutare del fuggevole presente. Il passato considerato dallo stesso paese e dalla stessa persona, prima nel 1897 e poi nel 1973, presenta due immagini molto diverse, e senza alcun dubbio il passato, sempre lo stesso, sarà visto in modo ancor più diverso se visto dalla Cina nel 2073, e ancora di più dalla Nigeria nel 2173.
In questo capitolo l’autore ha scelto, per ricordarli, aspetti della memoria del passato che gli sono sembrati rilevanti e significativi nel 1973, e che probabilmente (un’ipotesi arrischiata) presenteranno a suo avviso lo stesso aspetto quando saranno considerati nel futuro e in altri luoghi.
Da quando i nostri progenitori sono divenuti umani, l’umanità ha sempre vissuto, tranne che in quest’ultima frazione — forse l’ultimo sedicesimo — del suo arco cronologico a tutt’oggi, alla maniera del Paleolitico inferiore. Un gruppo di raccoglitori di cibo e cacciatori di questo periodo doveva essere composto da pochi individui che si tenevano lontani dagli altri gruppi: a quel livello tecnologico ed economico, una concentrazione di popolazioni avrebbe significato sicuramente la fame. Nel Paleolitico inferiore la tecnologia era quasi statica, e ciascun gruppo era abbastanza piccolo da permettere che tutti i suoi membri si conoscessero personalmente. E tale era ancora fino a poco tempo fa l’assetto della vita sociale dell’Uomo.
Forse 40.000 anni fa, o, al massimo, non più di 70.000 anni fa, si verificò un’evoluzione tecnologica relativamente repentina e veloce. L’avvenimento è comprovato dalle testimonianze archeologiche, anche se le sue cause ci sono del tutto ignote. Gli utensili del Paleolitico inferiore subirono nel Paleolitico superiore tutta una serie di miglioramenti. Da allora in poi la tecnologia è andata evolvendosi, anche se non in progressione continua, poiché ci sono stati successivi sprazzi di inventiva tecnologica intercalati da momenti di stasi. A tutt’oggi, gli sprazzi principali si sono verificati nel Paleolitico superiore (miglioramenti degli utensili, archi e frecce, addomesticamento del cane), nel Neolitico (utensili ancora più evoluti, insieme all’addomesticamento di molte altre specie di animali e di piante ed all’invenzione della filatura, della tessitura e della ceramica), nel quinto millennio a. C. (vela, ruota, metallurgia, scrittura) e con la rivoluzione industriale (vasto incremento della meccanizzazione), avviata 200 anni fa e tuttora in corso. Il progresso tecnologico non è stato quindi ininterrotto, ma ha avuto un effetto cumulativo, poiché è stata ben rara la perdita di una tecnica già acquisita; nell’area egea, nel XII secolo a. C., la tecnica della scrittura andò perduta, ma si trattò di un avvenimento eccezionale.
La tecnologia è l’unico campo dell’attività umana in cui si sia verificato un progresso. Il passo dalla tecnologia del Paleolitico inferiore a quella meccanizzata è stato immenso, ma non si è verificato un corrispondente progresso nella vita sociale dell’Uomo, sebbene anche in questo campo siano stati compiuti passi avanti, richiesti dalla modificazione delle condizioni sociali imposta all’umanità dal suo progresso tecnologico.
A tutt’oggi, le più importanti conquiste nella serie degli sviluppi tecnologici sono state l’addomesticamento di altri animali, oltre al cane, e l’invenzione dell’agricoltura nel Neolitico. Agricoltura e allevamento hanno fornito la base a ogni ulteriore progresso tecnologico, compresa l’attuale rivoluzione industriale, e anche la base del sistema di vita di tutte le civiltà finora sorte e scomparse.
La comunità di villaggio del Neolitico era assai più numerosa del gruppo preagricolo di cacciatori e raccoglitori, ma non tanto che le relazioni interpersonali dei suoi membri dovessero essere integrate dall’introduzione di istituti impersonali, né la tecnologia del Neolitico era così complessa da richiedere una quantità rilevante di specializzazione e divisione del lavoro, oltre alla differenziazione fisiologica tra le funzioni dei due sessi. Inoltre, sebbene la comunità neolitica di villaggio fosse sedentaria, essa era isolata dalle altre comunità da fasce successive di lande deserte e vergini. Quindi, per quanto notevoli fossero le modificazioni nelle condizioni di vita, tecnologiche ed economiche, tra il Paleolitico superiore e il Neolitico, il livello di socialità a cui l’umanità era stata condizionata durante il lunghissimo Paleolitico inferiore poteva essere adottato per soddisfare le esigenze del sistema di vita neolitico. Questo è il motivo per cui nel IV secolo a. C., più di un millennio dopo che la civiltà cinese aveva sostituito questo modo di vivere, i filosofi taoisti del periodo degli «Stati combattenti» guardavano con nostalgia alle condizioni di vita del Neolitico. L’esistenza che conducevano nella loro epoca li induceva a pensare che il successivo progresso tecnologico e le sue conseguenze sociali fossero state delle disgrazie.
Nel 1973 i contadini che vivevano in comunità di villaggio di tipo neolitico costituivano ancora la maggioranza della popolazione umana vivente, ma vennero peraltro rapidamente trascinati dalla campagna nelle baraccopoli che circondano le città, mentre, per converso, la meccanizzazione inventata per trattare la materia inanimata nelle fabbriche veniva applicata all’agricoltura e all’allevamento. Inoltre, negli ultimi 5000 anni, i contadini dell’Ecumene sono stati gravati dall’onere di dover sopportare una sovrastruttura di civiltà.
Questo è stato possibile perché, nel quarto millennio a. C., lo sviluppo tecnologico ha cominciato a fornire un surplus di produzione superiore a quella necessaria alla pura e semplice sussistenza, mentre il retaggio paleolitico della socialità si rivelava moralmente inadatto per un equo impiego di questo surplus. Parte di questa produzione era stata sciupata nella guerra; del resto si era appropriata iniquamente una minoranza dei membri della società che lo aveva prodotto con un lavoro collettivo.
Lo sviluppo tecnologico del quarto millennio a. C. aveva richiesto lavoratori specializzati (minatori, fabbri e progettisti, ispiratori e organizzatori di opere pubbliche su vasta scala, come, per esempio, per la bonifica e l’irrigazione). Il contributo dei lavoratori specializzati alla produzione del surplus si rivelò molto più rilevante di quello della maggioranza dei lavoratori non specializzati, e una distribuzione differenziata della rimunerazione economica, anche se non lodevole, non era forse ingiusta in linea di principio, e in ogni caso era probabilmente inevitabile, se si considera che l’Uomo, come tutte le altre specie viventi, è animato da un’avidità innata e che i limiti imposti a tale avidità dal suo livello di socialità nel Paleolitico inferiore non erano più adeguati alla nuova situazione tecnologica e sociale dell’Uomo. Le differenze nella distribuzione del surplus erano ingiustamente grandi e tendevano anche a diventare ereditarie. L’ingiustizia sociale e la guerra furono quindi il prezzo da pagare per il benessere della collettività. E queste due malattie sociali congenite alla civiltà affliggono tuttora l’umanità.
Fin dall’alba della civiltà c’è sempre stato un divario tra il progresso tecnologico dell’Uomo e le sue realizzazioni sociali. Lo sviluppo tecnologico, in particolare il più recente, verificatosi durante i due secoli 1773-1973, ha accresciuto ampiamente ricchezza e potere dell’Uomo, e il «divario morale» tra il potere fisico dell’Uomo di fare il male, e la sua capacità spirituale di far fronte a questo potere, si è spalancato come le mitiche porte dell’inferno. Nel corso degli ultimi 5000 anni, il crescente «divario morale» ha costretto l’umanità ad autoinfliggersi dolorose catastrofi.
L’inadeguatezza spirituale dell’Uomo ha posto un limite al suo progresso sociale e quindi anche a quello tecnologico; perché, come quest’ultimo si è sviluppato in dimensioni e in complessità, così ha anche accresciuto la necessità di collaborazione sociale tra i produttori di ricchezza. Dagli inizi della rivoluzione industriale in corso, la meccanizzazione ha introdotto un secondo limite al progresso tecnologico: ha reso infatti il lavoro industriale ancor più produttivo materialmente, ma a costo di renderlo meno soddisfacente sul piano spirituale, così che gli operai sono disaffezionati e il livello di capacità lavorativa ha teso ad abbassarsi.
All’alba della civiltà la produttività fu accresciuta attraverso la bonifica e l’irrigazione delle paludi incolte nei bassi bacini del Tigri, dell’Eufrate e del Nilo, imprese che richiesero però uno sviluppo delle attività tecnologiche, che a loro volta imposero un aumento della forza numerica delle comunità, aumento che superò di molto i limiti di una socialità fondata sulle relazioni interpersonali tra i membri della società stessa. Quando le esigenze della tecnologia costrinsero i fondatori delle più antiche civiltà a raccogliere la manodopera in quantità eccedente gli stretti limiti delle comunità precivili, questi inventarono un nuovo dispositivo sociale: le istituzioni impersonali, che potevano dar vita a comunità più vaste in quanto erano in grado di produrre collaborazione tra esseri umani che non avevano alcun rapporto personale tra di loro. Tuttavia le relazioni sociali istituzionalizzate sono insieme formali e fragili, e gli esseri umani non sono mai stati a loro agio in queste condizioni come lo sono nelle relazioni interpersonali. Vi è inoltre sempre il rischio che le istituzioni perdano il controllo e si deteriorino, e quindi le autorità preposte alla loro conservazione subiscono la costante tentazione di fare ricorso alla coercizione per sostituire quella collaborazione spontanea che le istituzioni non riescono a sollecitare.
Fin dall’alba della civiltà, l’istituzione principale creata dall’Uomo è stata rappresentata dagli Stati — al plurale appunto, non al singolare, perché a tutt’oggi non è mai esistito un unico Stato che abbracciasse tutta intera una generazione di viventi su tutto il globo. Si sono invece avuti sempre numerosi Stati coesistenti l’uno accanto all’altro e, a differenza dei gruppi paleolitici e delle comunità di villaggio neolitiche, gli Stati dell’era civile non sono rimasti isolati l’uno dall’altro, ma anzi si sono scontrati, e queste collisioni hanno portato alle guerre, uno dei mali della civiltà.
Il tipo di Stato tradizionale è stato quello sovrano su area locale contiguo a numerosi altri Stati dello stesso tipo. Nell’Ecumene globale dei nostri giorni se ne contano circa 170, e la loro configurazione politica è uguale a quella di Sumer nel terzo millennio a. C.
Gli Stati sovrani locali sono un’istituzione pericolosa, in bilico tra due scelte. Persino una città-Stato, per non parlare di uno Stato nazionale, o di una federazione delle due forme precedenti, è troppo vasta perché si possa fondare socialmente su quelle relazioni interpersonali in cui gli uomini si sentano a proprio agio. D’altro canto, anche il più vasto Stato locale è soltanto uno dei tanti Stati dello stesso genere. Esso è in grado di muovere guerra, ma non di garantire la pace. In ogni luogo e tempo in cui si è avuta una costellazione di Stati sovrani locali contigui, essi hanno sempre finito col farsi guerra e, per il passato, la guerra si è sempre conclusa con l’imposizione della pace per mezzo dell’instaurazione forzata di un impero che abbracciava quella parte dell’Ecumene che rientrava nei confini degli Stati locali belligeranti che erano stati sconfitti. La civiltà egiziana dei faraoni rappresentò un’eccezione, essendo stata unificata politicamente con la forza all’alba della sua storia, senza la prolungata fase iniziale di guerra tra Stati locali. E’ significativo che questa civiltà sia stata poi la più stabile e la più duratura tra tutte quelle finora sorte.
L’attuale insieme globale di Stati sovrani locali non è in grado di conservare la pace, né è in grado di salvare la biosfera dall’inquinamento provocato dall’Uomo o di conservarne le riserve naturali non ricostituibili. L’anarchia universale, sul piano politico, non può durare più a lungo in un’Ecumene che peraltro si è già trasformata in unità dal punto di vista tecnologico ed economico. Quella che negli ultimi 5000 anni si è rivelata indispensabile, e negli ultimi cento anni è risultata fattibile sul piano tecnologico, ma non ancora su quello politico, è la costituzione di un corpo politico universale, costituito da cellule delle dimensioni delle comunità di villaggio neolitiche — una dimensione entro la quale i membri possano conoscersi personalmente, e nel contempo ciascuno di essi possa essere anche cittadino di uno Stato mondiale. Ma l’Ecumene non può essere unificata politicamente attraverso il metodo tradizionale, barbaro e disastroso, della conquista militare. Nel 1945 un’Ecumene non ancora unita politicamente è stata colta di sorpresa dall’invenzione delle armi nucleari, e appare evidente che essa non potrebbe mai essere unificata attraverso l’impiego di quest’arma letale: l’esito inevitabile di una guerra atomica mondiale non sarebbe l’unificazione, bensì la distruzione.
La storia del passato sumerico, ellenico, cinese e medievale italiano dimostra come una costellazione di Stati sovrani locali non può rappresentare altro che una effimera sistemazione politica. In un’età in cui l’umanità ha acquisito il dominio della potenza nucleare, l’unificazione politica può realizzarsi solo spontaneamente, e, poiché è evidente che questa soluzione sarebbe accettata controvoglia, sembra probabile che sarà rimandata fino a quando l’umanità non si sarà tirata addosso catastrofi ulteriori e di tale ampiezza da indurla ad accettare in ultima istanza l’unione politica mondiale come un male minore.
A questo punto della nostra storia, noi esseri umani potremmo essere tentati di invidiare gli insetti sociali, condizionati dalla natura a collaborare tra di loro su vasta scala. L’ape o la formica o la termite, in quanto individui, si subordinano e si sacrificano al servizio della comunità e la loro abnegazione non è né spontanea né imposta da coercizioni esterne: è bensì intrinseca alla costituzione psichica dell’insetto. Per l’Uomo, essere dalla doppia natura, si rivela ben più difficile ampliare la sua socialità dal minimo necessario acquisito nel Paleolitico inferiore fino a una società umana che abbracci il complesso della biosfera, perché l’Uomo, a differenza della termite, della formica o dell’ape, non è soltanto un organismo psicosomatico costituzionalmente sociale, ma è anche un’ anima, dotata di coscienza, che può, e deve, operare delle scelte, nel bene come nel male.
Per fortuna, la socialità umana non è confinata entro lo stretto ambito di relazioni interpersonali, come si addiceva alle società precivili.Un Uomo è anche in grado di provare un senso di pietà per ogni altro suo simile che si trova in angustie, anche se, nel gergo della tribù, questo suo simile è un «estraneo». Un essere umano avrà pietà di ogni malato e di ogni bambino perduto, e si muoverà in aiuto di chi soffre. In imperi come quello cinese e quello romano, i cui governanti identificavano i propri domini con tutta l’Ecumene, i sudditi arrivarono col tempo a considerarsi non come vittime di conquistatori stranieri, ma come cittadini di uno Stato universale. Le religioni missionarie si avviarono a evangelizzare tutta l’umanità, e il filosofo cinese Mo-tzu affermò che un essere umano doveva amare e fare del bene a tutti i suoi simili con imparziale dedizione. Il più autorevole interprete di Confucio, Mencio, giudicò, irrealizzabile il precetto di Mo-tzu, e ribadì invece l’ideale confuciano di una gerarchia di dedizioni; ma l’esperienza insegna che l’amore ispirato da una conoscenza diretta e quello rivolto a tutti gli esseri umani solo in virtù di una comune condizione non sono necessariamente espressioni di socialità incompatibili tra loro. In India, la sfera dell’amore era stata limitata dalla barriera delle caste, ma si era anche estesa fino a comprendere tutti gli esseri viventi di ogni specie. Nell’Ecumene dell’età della rivoluzione industriale, l’amore umano deve estendersi fino a comprendere tutte le componenti della biosfera, inanimate e animate.
Queste sono le riflessioni fatte nel 1973 da un osservatore inglese nato nel 1889. Quali sono, nello stesso anno, le riflessioni degli altri esseri umani colleghi dell’autore? In quale misura sono consapevoli del passato? E con quanta decisione essi si comportano in base alle lezioni desunte da un panorama retrospettivo della storia?
Evidentemente, ben pochi sono disposti a riconoscere che l’istituto dello Stato sovrano locale, nell’arco degli ultimi 5000 anni, ha fallito ripetutamente il compito di soddisfare le esigenze politiche dell’umanità e che, in una società universale, questo istituto dovrà rivelarsi ancora una volta transitorio, e questa volta ancora più sicuramente che nel passato. Dalla fine della seconda guerra mondiale il numero degli Stati sovrani nell’Ecumene è più che raddoppiato, nonostante il fatto che, contemporaneamente, tutti i frammenti dell’umanità politicamente separati siano divenuti sempre più interdipendenti sul piano tecnologico e su quello economico.
Il popolo cinese, che un tempo faceva coincidere il proprio impero con «tutto quello che esiste sotto il Cielo», si è ormai rassegnato a vedere il proprio paese ridotto al ruolo di membro di una costellazione di Stati in competizione su un’area globale. Implicitamente, i Cinesi non ricordano un cupo capitolo della loro storia, quando la Cina stessa era un’arena di Stati locali in guerra tra loro. D’altro canto, i Cinesi sembrano essere consapevoli della storia del loro paese dopo la sua unificazione politica nel 221 a. C. perché stanno compiendo decisi sforzi per evitare il ripetersi di quella separazione tra amministrazione statale e contadini che è stata «la croce della Cina» fin dal regno dell’imperatore Han Wu-ti.
Nel II secolo a. C., questo imperatore aveva instaurato il reclutamento nell’amministrazione dello Stato secondo criteri di merito, e l’accertamento attitudinale dei candidati attraverso concorso. L’amministrazione statale dell’impero cinese era stata la migliore di tutta l’Ecumene, e aveva tenuto uniti, nella pace e nell’ordine, una grande quantità di uomini, per un numero di anni maggiore rispetto a qualsiasi altra amministrazione statale. Tuttavia, a poco a poco, i funzionari statali cinesi erano venuti meno alloro compito e avevano portato alla rovina la Cina abusando del loro potere a proprio vantaggio. I dirigenti cinesi hanno preso iniziative per evitare il ripetersi di una situazione simile. Resta da vedere se avranno maggiore fortuna degli antichi riformatori, ma almeno l’energia con cui applicano questa loro attuale direttiva è di buon auspicio.
Se i Cinesi hanno fatto propria la lezione degli errori passati, e se riusciranno a evitare di ripeterli, essi potranno rendere un grande servigio non solo al loro paese, ma anche a tutta l’umanità, che deve affrontare una fase critica della sua enigmatica storia.
L’Uomo è un abitante psicosomatico della biosfera, l’involucro che avvolge la superficie della Terra, e sotto questo aspetto è solo una tra le specie delle creature viventi, figlie della Madre Terra. Ma l’Uomo è anche spirito e, come tale, è in comunicazione — e nell’esperienza mistica, addirittura coincide — con una realtà spirituale che non è di questo mondo.
In quanto spirito, l’ Uomo è dotato di coscienza, distingue tra bene e male, e nelle sue azioni compie delle scelte. Nel campo etico, nel quale le scelte dell’Uomo sono per il bene o per il male, esse danno vita a un bilancio di dare e avere di ordine morale. Non sappiamo se questo bilancio si chiude definitivamente alla morte di ogni effimero essere umano, o se invece (come credono hinduisti e buddhisti) esso si sviluppa attraverso una serie potenzialmente infinita di reincarnazioni. Per quanto attiene la rete di relazioni tra gli esseri umani incarnati, che ne costituisce la società, questo bilancio è tuttora aperto e tale rimarrà fino a quando l’umanità consentirà l’abitabilità della biosfera.
L’Uomo ucciderà la Madre Terra, o la salverà? Può, ucciderla con il cattivo uso della sua crescente potenza tecnologica. Ma può anche salvarla, sconfiggendo quell’avidità suicida e aggressiva, che in tutte le creature, Uomo compreso, rappresenta il prezzo del dono della vita da parte della Grande Madre. Questo è l’enigma che l’Uomo si trova ad affrontare.
 
(a cura di Antonio Mosconi)


[1] A.J. Toynbee, Mankind and Mother Earth, Londra, Oxford University Press, 1976 (trad. it. Il racconto dell’uomo, Milano, Garzanti, 1987; la traduzione del capitolo pubblicato qui di seguito è stata rivista dal curatore).
[2] A.J. Toynbee, Il racconto dell’uomo, cit. p. 23.
[3] Ibidem, pp. 22-3.
[4] Ibidem, p. 27.
[5] Ibidem, p. 27.
[6] Ibidem, p. 594.
[7] Ibidem, p. 600.
[8] A.J. Toynbee, Hellenism. The History of a Civilization, Londra, Oxford University Press, 1959 (trad. it. Il mondo ellenico, Torino, Einaudi, 1967).

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