IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXI, 1979, Numero 3-4, Pagina 211

 

 

ACUME E GRANDEZZA DEGLI ESPERTI
 
 
«La cooperazione politica costituita tra i Nove in seno alla Comunità europea si trova probabilmente in un momento cruciale della sua storia. Sembra aver esaurito ogni possibilità di sviluppo: andare più lontano esigerebbe un nuovo impulso politico. Potrebbe venire dal Parlamento eletto? È una domanda che ci si potrebbe porre». Con questa introduzione l’Agence Europe[1] pubblica il testo integrale d’una conferenza sul tema «Cooperazione politica europea. Realizzazioni e prospettive», tenuta alla Università di Lovanio da Philippe de Schoutheete, Ministro plenipotenziario, capo del servizio delle Organizzazioni europee del Ministero degli esteri del Belgio e, più in particolare, incaricato dell’integrazione europea e della cooperazione politica.
Di fronte a un personaggio così onusto di referenze e ad una presentazione così allusiva, appare giustificata la curiosità del federalista. Ma, al termine della lettura, si comprende perfettamente il senso dell’annotazione dell’Agence Europe: il «nuovo impulso politico… potrebbe (è giusto il condizionale!) venire dal Parlamento eletto». Da contributi quali quello di de Shoutheete, per certo, no!
La conferenza si articola in quattro capitoli: introduzione storica, caratteristiche, realizzazioni, prospettive. Di particolare interesse il primo, che inquadra, e l’ultimo, che riassume e conclude. De. Schoutheete ricorda come il Vertice dell’Aia avesse incaricato i ministri degli esteri di «studiare il miglior modo per realizzare dei progressi nel campo dell’unione politica nella prospettiva dell’allargamento»; come ne sia scaturito il rapporto Davignon che fu adottato nel 1970 a Lussemburgo e che invitava gli Stati a dotarsi di strumenti appropriati (due riunioni all’anno dei ministri degli esteri, quattro riunioni all’anno del Comitato politico, composto dai direttori degli affari politici) per permettere un’azione politica comune. Avviata così la cooperazione, il Vertice di Copenhagen del ‘73 «ha rafforzato considerevolmente i meccanismi»: quattro riunioni all’anno dei ministri, il Comitato politico si riunisce ogniqualvolta è necessario (di fatto una volta al mese), è autorizzata la creazione di gruppi di lavoro secondo i bisogni, è creata una rete di collegamento telex (la rete COREU) che consente lo scambio rapido e confidenziale di informazioni. L’obiettivo è «la ricerca di linee comuni in casi concreti». La terza tappa scaturisce dal Vertice di Parigi (1974) e dal rapporto Tindemans. Nel comunicato del primo lo scopo della cooperazione politica è indicato così: «prendere progressivamente posizioni comuni ed applicare una disciplina concertata in tutti i campi della politica internazionale che pregiudicano gli interessi della Comunità». Nel secondo, si auspicava che, nella prospettiva dell’Unione europea, gli Stati membri dovessero progressivamente trasformare la cooperazione politica in una politica estera comune. Un ulteriore perfezionamento dell’edificio si è avuto con l’istituzione del Consiglio europeo.
Anche l’annalista più rigoroso troverebbe quanto meno scarna questa ricostruzione storica. Come non ricordare, infatti, come l’iniziativa dell’Aia trovasse le sue radici nel disegno gaulliano di Unione — confederale — europea che prese corpo nelle proposte di Parigi e Bad-Godesberg e quindi nel piano Fouchet? Come, ancora, non avvertire l’esigenza di inquadrare la riproposizione di questo discorso all’Aia nel contesto della conclusione del processo di unificazione negativa (lo smantellamento doganale), della crisi dell’equilibrio bipolare e, in particolare, del liquefarsi delle salde coordinate della solidarietà atlantica, nel cui ambito poté giungere a compimento il periodo transitorio del Mercato comune? Come, infine, non stabilire una connessione tra l’iniziativa dell’Aia qui in questione e il progetto di costruzione dell’Unione economico-monetaria, disegni di cui i federalisti denunziarono subito l’inadeguatezza, perché fondati sul presupposto della collaborazione intergovernativa, inefficace ormai rispetto ai nuovi obiettivi dell’unificazione e nella nuova situazione di potere mondiale, ma che davano corpo all’esigenza di procedere oltre l’unificazione doganale e di legare in qualche modo la nuova fase dell’integrazione economica al processo di fondazione dell’autonomia e dell’indipendenza europea?
Ma de Schoutheete non si occupa di queste cose. E la limitatezza della sua percezione storica dei fenomeni rende ragione della povertà dell’analisi relativa alle prospettive. Onestamente de Schoutheete ammette che «sulle attuali basi la cooperazione politica non può produrre una politica estera comune dei Nove. Essa può produrre, in certi casi determinati e dopo una procedura lenta, posizioni comuni, che sono elementi, parziali e frammentari, di una politica comune». I Nove in sostanza «reagiscono più che agire». D’altra parte, «la cooperazione politica è continuata nel puro pragmatismo. E ci si può domandare se i Nove sono ancora oggi (cioè nell’anno del voto europeo!) d’accordo tra loro sugli obiettivi dell’esercizio al quale si dedicano insieme da dieci anni». Né bisogna dimenticare che «la cooperazione politica costituisce per i Nove un’istanza privilegiata ma non esclusiva».
Tutto ciò porta de Schoutheete a una proposta operativa: «un nuovo passo avanti nel campo della cooperazione politica implicherebbe una sensibile modifica dei meccanismi attuali e senza dubbio la creazione di un leggero apparato amministrativo che possa sostenere l’azione della Presidenza». L’elezione diretta del Parlamento europeo dispiega così tutta la sua forza dirompente: quella di far scoprire a de Schoutheete l’importanza della proposta gaulliana (1961) di un segretariato politico!
Ma questa affascinante conferenza riserva ancora, nelle righe conclusive, qualche sorpresa: «Queste considerazioni dimostrano che un progresso qualitativo nel campo della cooperazione politica porrebbe importanti problemi politici, che toccano la sensibilità nazionale degli uni e degli altri. Quindi è molto più probabile che la cooperazione politica continuerà nei canali esistenti con miglioramenti di dettaglio, ed accettando evidentemente i limiti che il sistema attuale comporta. Può darsi che la lenta maturazione degli spiriti, o un giorno, una circostanza esterna particolarmente pressante, permetterà a termine di passare ad un sistema più ambizioso, e quindi anche più vincolante. Nell’attesa, i Nove non hanno motivo d’essere scontenti di ciò che banno realizzato fino ad ora».
Pessimismo o ottimismo, dunque? C’è un passo della conferenza che provvede forse una chiave anche per questo problema: «In tutto i Nove hanno un centinaio di riunioni all’anno e scambiano 5.000 telegrammi per sforzarsi di coordinare le politiche estere. Senza dubbio si tratta dello sforzo più completo e più sistematico che sia stato intrapreso in questo senso da Stati sovrani».
Sursum corda! Quando passeremo a duecento riunioni e diecimila telegrammi gli europei avranno forse una comune politica estera!
 
Luigi Vittorio Majocchi
(ottobre 1979)


[1]Cfr. Europa documenti, n. 1061, 3 luglio 1979.

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