IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXV, 1993, Numero 2, Pagina 83

 

 

CITTADINANZA EUROPEA CITTADINANZA COSMOPOLITICA E DEMOCRAZIA INTERNAZIONALE
 
 
Il concetto di cittadinanza ha conosciuto nel dibattito politico-culturale degli anni ‘80 e ‘90 una straordinaria fortuna. C’è la sensazione generale che la questione della cittadinanza racchiuda alcuni elementi cruciali che permettono di definire il ruolo politico dell’individuo (e in particolare un nuovo codice dei diritti e dei doveri del cittadino) nella società futura, una società nella quale la lotta di classe ha cessato di essere il problema centrale della vita politica.
Il concetto di cittadinanza è nato come concetto giuridico nel diritto romano. Lo ius civitatis definiva i diritti politici del civis romanus, in quanto membro dell’ordinamento politico della città, ed era distinto dai diritti civili, i quali garantivano l’uguaglianza di tutti, e quindi anche degli stranieri, di fronte alla legge.
Marshall, nel libro Citizenship and Social Class,[1] ha reinterpretato in termini sociologici il concetto di cittadinanza nella società industriale. Egli ha studiato l’estensione del contenuto della cittadinanza attraverso tre stadi successivi: il riconoscimento dei diritti civili (che garantiscono la sfera di libertà dell’individuo nei confronti dell’invadenza dello Stato e assicurano la vita, la libertà e la proprietà, per usare la nota triade lockiana), dei diritti politici (che assicurano la partecipazione del cittadino alla formazione delle decisioni politiche) e dei diritti sociali (che garantiscono all’individuo un reddito minimo e la sicurezza sociale). Si tratta di tre fasi della storia della lotta di classe e dell’affermazione prima dei diritti della borghesia, poi di quelli delle classi medie, infine di quelli della classe operaia. I diritti civili sono una conquista del movimento liberale, garantita dallo Stato di diritto fondato sul principio della divisione dei poteri. Il movimento democratico è stato il veicolo attraverso il quale hanno potuto affermarsi i diritti politici e con essi i principi della sovranità popolare e dello Stato democratico fondato sul suffragio universale. I diritti sociali sono il risultato della lotta del movimento socialista e dell’affermazione dello Stato sociale.
Bisogna precisare però che la sfera della cittadinanza non coincide, come sostiene Marshall, con tutte e tre le categorie di diritti sopra ricordate, ma solo con quella dei diritti politici. Certo, sia la libertà negativa, che tutela il cittadino dall’ingerenza arbitraria dello Stato nella sua sfera privata, sia i diritti sociali, che offrono all’individuo i mezzi per dare sostanza alla libertà, costituiscono condizioni essenziali che consentono di abbattere le barriere che intralciano una partecipazione libera e indipendente al processo democratico.
Tuttavia la sfera dei diritti politici, in quanto distinta da quella dei diritti dell’uomo, coincide con la partecipazione politica attiva. Il suo carattere specifico consiste nel potere, attribuito ai cittadini, di prender parte al processo di formazione delle leggi e quindi nella possibilità di mobilitare la popolazione contro eventuali attacchi ai diritti dei cittadini e, più in generale, contro possibili degenerazioni del sistema democratico.
 
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E’ da notare che la democrazia ha trovato finora realizzazione solo entro i confini degli Stati e finché sussisterà questa situazione sopravviveranno atteggiamenti, politiche e istituzioni che violano i principi della democrazia.
Da una parte, i diritti dell’ uomo e del cittadino, affermati sul piano nazionale, sono negati a livello internazionale, perché la politica internazionale resta tuttora il terreno dei rapporti di forza tra gli Stati e appartiene dunque allo stato di natura. D’altra parte, l’anarchia internazionale impedisce di realizzare pienamente la democrazia anche sul piano nazionale, perché spinge i governi nazionali a privilegiare la sicurezza rispetto ai valori di libertà e uguaglianza e persino a sacrificare, se necessario, questi valori alle esigenze difensive, al militarismo e al centralismo. Più specificamente, la divisione del mondo in Stati sovrani mette in luce tre limiti della democrazia.
Il primo limite dipende dal fatto che la democrazia si è affermata finora solo in alcuni Stati. Di conseguenza, la divisione tra Stati democratici e Stati non democratici rappresenta un ostacolo all’affermazione della democrazia mondiale, la cui premessa, come aveva già messo in luce Kant nella Pace perpetua, è che «la costituzione di ogni Stato» sia «repubblicana».[2]
Il secondo limite consiste nel fatto che la democrazia ha assunto finora quasi esclusivamente la forma di democrazia nazionale. La volontà generale dei cittadini ha avuto finora soltanto la possibilità di esprimersi separatamente nelle istituzioni rappresentative nazionali.
Quindi, se la formazione della volontà generale è limitata entro i confini nazionali è un concetto contraddittorio: è una volontà particolare in conflitto con altri interessi nazionali. In altri termini, il suffragio non è universale, ma nazionale. Coesistono tanti suffragi nazionali che esprimono molte volontà nazionali in conflitto.
Questa contraddizione può essere superata con l’affermazione dell’idea della volontà generale dell’umanità, che può prendere forma solo nel quadro di una Federazione mondiale. Infatti, soltanto un governo democratico mondiale può rendere possibile un controllo democratico e razionale dello scontro tra le diverse e divergenti volontà nazionali.
Va sottolineato che è estraneo al disegno federalistico il proposito di distruggere le nazioni. Il superamento della sovranità esclusiva delle nazioni comporta semplicemente il trasferimento di poteri verso l’alto (ma anche verso il basso), in modo tale che le nazioni perdano soltanto quei poteri che possono essere esercitati in modo più efficace ad altri livelli, ma non li perdano tutti. I grandi cambiamenti rivoluzionari hanno il carattere di una rottura, che non interrompe però la continuità della storia. Secondo la concezione dialettica della storia, l’azione rivoluzionaria è negazione, ma nello stesso tempo conservazione, cioè trasformazione o, per usare un’espressione hegeliana, superamento (Aufhebung) del vecchio ordine.
In altri termini, il conflitto tra istanze nazionali e istanze sovranazionali, che caratterizza i processi di unificazione politica, può trovare una soluzione nel compromesso federale, la cui essenza consiste nel superamento della sovranità esclusiva delle nazioni, pur rispettando l’indipendenza di queste ultime. La sovranità popolare, sulla quale si fonda la legittimità del potere, si esprime, secondo lo schema federale di distribuzione del potere, su due livelli, e potenzialmente su una pluralità di livelli, lungo una scala che va dal quartiere al mondo.
Il terzo limite consiste nella coincidenza tra cittadinanza e nazionalità. In base a questo principio, lo Stato nazionale riconosce i diritti politici solo a chi possiede il requisito della nazionalità, mentre esclude gli stranieri dalla partecipazione al processo democratico. In un mondo nel quale la guerra è il mezzo al quale gli Stati ricorrono, in ultima istanza, per risolvere i conflitti internazionali, l’esclusione degli stranieri dal godimento dei diritti politici ha un solido fondamento: in caso di guerra, questi ultimi potrebbero infatti solidarizzare con il nemico dello Stato che li ospita.
Ne consegue che, mentre la democrazia si fonda sul principio del suffragio universale, di fatto, a causa della divisione del mondo in Stati sovrani, il diritto di voto è riconosciuto solo a coloro che possiedono la nazionalità dei singoli Stati. Gli stranieri sono dunque esclusi dall’esercizio dell’elettorato attivo e passivo nel paese dove risiedono. Il principio democratico è stato dunque interpretato nel senso che solo chi possiede il requisito della nazionalità ha il diritto di partecipare alla vita politica, mentre gli stranieri ne sono esclusi.
Va ricordato, a questo proposito, che tanto la rivoluzione francese quanto la rivoluzione russa, nella fase iniziale, quando il prevalere del nazionalismo non aveva ancora spento la loro carica universalistica, avevano affermato il principio dell’estensione del diritto di voto agli stranieri. Il problema si ripropone oggi in modo ancora più acuto in corrispondenza con la crisi dello Stato nazionale e lo sviluppo dei processi di unificazione politica. Dopo l’estensione del diritto di voto a un numero crescente di individui, grazie all’abbattimento dei limiti di censo e di sesso e all’abbassamento dei limiti di età, il nuovo traguardo nella lotta per l’allargamento del diritto di voto è rappresentato dall’ abbattimento dei limiti di nazionalità.
In altri termini, il riconoscimento del diritto di voto e degli altri diritti politici dovrebbe essere legato al semplice requisito della residenza. Le implicazioni di questo principio sono esplosive, perché esso permette di separare ciò che il principio nazionale aveva tenuto unito: la nazionalità e la cittadinanza. E, in effetti, l’attribuzione dei diritti politici in base al criterio della residenza, indipendentemente dalla nazionalità, è un principio che è applicato in tutte le federazioni di Stati. Si tratta di estenderlo a tutto il pianeta attraverso la realizzazione di quel «diritto cosmopolitico», di cui parlava Kant nella Pace perpetua,[3] e l’istituzione di una cittadinanza cosmopolitica.
Il superamento di questi tre limiti della democrazia ci riporta alle condizioni, individuate da Kant duecento anni fa, per istituire la pace perpetua. Mi riferisco ai tre «articoli definitivi per la pace perpetua tra gli Stati»,[4] il cui contenuto essenziale è il seguente: 1) tutti gli Stati devono avere un regime repubblicano; 2) la Federazione mondiale è il mezzo per dare forza legale al diritto internazionale; 3) il diritto cosmopolitico deve riconoscere agli stranieri il diritto a ricevere protezione dallo Stato nel quale risiedono, a condizione che non si comportino in modo ostile nei confronti dello Stato che li ospita.
Sono questi i tre aspetti del progetto kantiano, che tende a dare una soluzione di carattere giuridico al problema della pace. Sono, in altri termini, tre stadi del processo di estensione del diritto a tutte le relazioni sociali: prima alle relazioni tra gli uomini che formano i singoli popoli (diritto pubblico), poi alle relazioni tra gli Stati nei quali è suddiviso il genere umano (diritto internazionale), infine alle relazioni tra tutti gli uomini, in quanto cittadini di uno Stato universale (diritto cosmopolitico).
 
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La crisi dello Stato nazionale, derivante dall’internazionalizzazione del processo produttivo e dalle dimensioni internazionali assunte dai maggiori problemi politici, economici e sociali, ha determinato anche la crisi della democrazia. Infatti, i poteri democratici hanno perso, a causa della loro dimensione nazionale, il controllo del processo storico, mentre sul piano internazionale, dove possono trovare soluzione i maggiori problemi, non esistono istituzioni democratiche. Il significato ultimo dell’unificazione europea sta nel superamento dello Stato nazionale e nell’ avvio della democrazia internazionale.
Habermas[5] ha recentemente sostenuto che l’Unione europea, in quanto comunità multinazionale, può essere il terreno della sperimentazione di un nuovo principio di legittimazione del potere: il patriottismo costituzionale. Questa espressione designa un nuovo punto di riferimento attorno al quale potrebbe coagularsi l’identità collettiva nelle società post-nazionali: i principi universali dello Stato di diritto e della democrazia.
E’ da rilevare che si tratta di un principio di legittimità che ha per oggetto il regime politico, mentre la legittimazione della comunità politica, che ha la funzione di assicurare la coesione del popolo in seno allo Stato, continuerà a essere un elemento indispensabile a mantenere l’unità dello Stato finché il mondo resterà diviso in Stati sovrani. Infatti, ogni Stato dovrà giustificare e, se necessario, difendere i propri confini e legittimare l’appartenenza della popolazione a una comunità politica distinta. Ciò significa che nelle società post-nazionali sopravviverà una forma di sentimento nazionale, che avrà come punto di riferimento l’unione delle nazioni. Questo sentimento sarà indebolito dalla contraddizione che lo minerà, cioè di sopravvivere in un’epoca post-nazionale e di giustificare il potere in una comunità multinazionale.
Il principio nazionale potrà dunque dirsi pienamente superato solo quando il processo federativo tra le nazioni si sarà esteso a tutto il pianeta.
Ma la Federazione europea rappresenterà l’avvio del processo di transizione verso questo traguardo. Essa sarà infatti il primo esempio del superamento delle nazioni storiche dell’Europa, che sono espressione dell’idea della divisione naturale del genere umano in comunità ostili e bellicose, e aprirà la via all’affermazione di principi di convivenza cosmopolitici.
In primo luogo, la Comunità europea non solo ha sviluppato un processo di unificazione tra Stati democratici, ma ha anche esercitato un’influenza internazionale sugli Stati confinanti, che ha favorito la caduta dei regimi autoritari fascisti e comunisti, la quale, a sua volta, costituisce la premessa del suo progressivo allargamento.
In secondo luogo, con l’elezione europea si è avviato il processo di affermazione, accanto alla democrazia nazionale, della democrazia internazionale. Essa ha due limiti: da una parte, continua a essere una democrazia che governa una parte del mondo, dall’altra, al Parlamento europeo non sono ancora attribuiti pieni poteri legislativi. Di conseguenza, il disegno della democrazia internazionale non sarà pienamente realizzato finché non saranno superati questi limiti.
In terzo luogo, per quanto riguarda più specificamente la cittadinanza europea, essa è stata istituita dal Trattato di Maastricht. Si tratta di un obiettivo importante sulla difficile strada che porta alla trasformazione democratica della Comunità europea e alla nascita dello Stato europeo. Va sottolineato che si tratta semplicemente dell’indicazione di un traguardo, che non potrà essere raggiunto finché non sarà risolta la questione del deficit democratico, dell’attribuzione cioè di pieni poteri legislativi al Parlamento europeo. Senza il pieno sviluppo del processo democratico sul terreno europeo, la cittadinanza europea resterebbe un’espressione vuota di contenuto. Che senso ha infatti l’esercizio del diritto di voto sul piano europeo nello Stato di residenza da parte di tutti i cittadini della Comunità se l’ultima parola nel processo legislativo la mantengono perlopiù i governi nazionali in seno al Consiglio?
Resta però il fatto che il Trattato di Maastricht, attribuendo il diritto di voto nelle elezioni comunali ed europee ai cittadini degli Stati membri nel luogo di residenza, ha spezzato il legame tra nazionalità e cittadinanza, facendo compiere alla Comunità un passo verso la sua trasformazione in senso federale.
Ma occorre aggiungere che l’unificazione europea, proprio perché la sua essenza consiste nel processo di superamento del principio nazionale, ha permesso di compiere dei progressi sulla via del riconoscimento dei diritti politici anche ai cittadini extracomunitari. E’ recentissima la decisione del Parlamento europeo di estendere il diritto di petizione ai cittadini extracomunitari. Inoltre, alcuni paesi della Comunità (Danimarca, Irlanda e Olanda), seguendo l’esempio della Svezia e della Norvegia, hanno riconosciuto il diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni comunali a tutti i cittadini residenti, quindi anche a quelli extracomunitari. Tutto ciò è espressione dell’emergere in seno alla società europea dei principi di una cittadinanza cosmopolitica.
Il fatto che i diritti elettorali siano stati, per ora, riconosciuti solo a livello delle elezioni comunali mostra che non sono ancora maturate le condizioni per estendere questi diritti al livello al quale si prendono le decisioni relative alla politica internazionale. Tuttavia la partecipazione al voto sul piano locale permette agli emigranti di influire su politiche che hanno una grande rilevanza per le loro condizioni di vita, come quelle della casa, dell’istruzione e della sanità e favorisce un loro effettivo inserimento nella comunità che li accoglie. E si potrebbe aggiungere che nulla si oppone già oggi all’estensione a tutti i residenti dei diritti elettorali a livello provinciale e regionale. D’altra parte, la prospettiva della trasformazione degli Stati nazionali in Stati membri della Federazione europea crea le condizioni per estendere il riconoscimento di questi diritti anche a livello nazionale. Quanto alla Federazione europea, se saprà collocarsi nel solco delle grandi trasformazioni rivoluzionarie che l’hanno preceduta, non è da escludere che essa possa affermare progressivamente il principio del riconoscimento dei diritti politici ai residenti sul proprio territorio, a cominciare dai cittadini degli Stati con i quali esistono particolari vincoli di amicizia, come ha fatto il Regno Unito con i cittadini del Commonwealth o il Portogallo con i cittadini brasiliani. Solo con l’applicazione di questo principio a tutti i livelli essa potrà far valere la propria natura di formazione politica multinazionale aperta al resto del mondo, che le permetterà di presentarsi come la prima tappa sulla via dell’unificazione del genere umano.
 
Lucio Levi


[1] T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Torino, UTET, 1976.
[2] I. Kant, «Per la pace perpetua» (1795), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, UTET, 1965, p. 292.
[3] Ibid., p. 301.
[4] Ibid., sezione seconda.
[5] J. Habermas, «Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa» (1991), in Morale, diritto, politica, Torino, Einaudi, 1992.

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