IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 4, Pagina 259

 

 

Lucio Colletti, Intervista politico-filosofica, Laterza, Bari, 1975, pp. 118.
 
 
Questo volumetto è diviso in due parti: la prima riproduce una intervista rilasciata dall’autore alla New Left Review nel 1974 e la seconda è costituita da un saggio scritto a chiarimento dell’intervista e intitolato «Marxismo e dialettica».
Il valore principale dell’intervista consiste in alcune esplicite coraggiose ammissioni dell’esistenza di lacune culturali nel marxismo. Oggi è difficile identificare una corrente culturale che possa definirsi in modo univoco come «marxista», senza essere contestata da altre correnti che pretendono di interpretare più correttamente il pensiero di Marx (si pensi solo alla scuola strutturalista francese ed alla scuola di Francoforte).
La teoria politica è stata un aspetto particolarmente trascurato dal marxismo. Colletti a questo proposito afferma: «Per quanto concerne la teoria ‘politica’ in senso stretto, Marx e Lenin non hanno aggiunto nulla a Rousseau, salvo l’analisi (certo assai importante) delle ‘basi economiche’ dell’estinzione dello Stato». E più avanti, in risposta all’intervistatore che contestava questa affermazione, Colletti specifica: «Sotto questo profilo, dobbiamo renderci conto che il discorso di Marx sullo Stato non ha conosciuto mai grandi sviluppo ulteriori. Su questo problema, i suoi testi fondamentali sono la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, del 1843, e la Questione ebraica, del 1844; poi, molto più tardi, le pagine sulla Comune di Parigi nella Guerra civile in Francia del 1871. Tutti questi scritti riprendono e ripetono di continuo dei temi che si trovano in Rousseau. La mia affermazione, ovviamente, non ha valore nel campo della strategia rivoluzionaria: la costruzione del partito, le alleanze di classe o il fascismo. Aveva una portata molto più ristretta. Al tempo stesso, però, voglio mettere in chiaro che essa conteneva un elemento deliberatamente provocatorio. Con essa intendevo richiamare l’attenzione su un fatto preciso: la debolezza e lo sviluppo frammentario della teoria politica all’interno del marxismo. In altre parole, si può anche leggere quella mia affermazione come un modo di dire che al marxismo manca una vera e propria teoria politica. Tutti gli elementi dell’opera di Lenin che tu hai indicato — i suoi scritti sul partito, sui contadini, sulla questione nazionale e via dicendo — hanno una grande importanza: ma essi hanno sempre un legame così stretto con eventi storici specifici che non ci è mai possibile estrapolarli ad un livello di generalizzazione tale da poterli trasferire, puramente e semplicemente, in un contesto storico profondamente diverso da quello in cui Lenin pensò ed agì. La mia affermazione, dunque, aveva in realtà un significato polemico. Nel marxismo, lo sviluppo della teoria politica è stato straordinariamente debole. Vi sono indubbiamente molti motivi che spiegano questa debolezza. È certo che una delle ragioni cruciali fu il fatto che tanto Marx quanto Lenin immaginarono la transizione al socialismo e la realizzazione del comunismo su scala mondiale come un processo estremamente rapido e vicino nel tempo. Il risultato fu che la sfera delle strutture politiche rimase scarsamente indagata ed esplorata. Questo fatto si può esprimere in forma paradossale dicendo che il movimento politico ispirato dal marxismo è stato praticamente privo di una teoria politica. L’assurdità e il pericolo di questo stato di cose sono evidenti oggi, quando è ormai chiaro che la cosiddetta fase di transizione al socialismo è in realtà un processo estremamente lungo, secolare, la cui durata non fu mai prevista da Marx né da Lenin; un processo durante il quale i gruppi dirigenti comunisti esercitano di fatto il potere in nome del marxismo, in assenza di ogni vera teoria di questo potere — per non parlare, poi, di un controllo qualsiasi da parte delle masse su cui esercitano il potere» (pp. 28-31).
Anche a proposito della teoria economica Colletti mette spregiudicatamente in luce l’incongruenza di coloro che si definiscono marxisti, ma poi ripudiano senza rimpianti gli strumenti analitici del Capitale, per ricorrere a quelli più perfezionati della moderna teoria economica, senza tentare nemmeno di giustificare la loro scelta e valutare quanto di vitale vi è ancora nell’analisi del Capitale. Alla domanda se sia verificata la legge della caduta del saggio di profitto, Colletti risponde: «Assolutamente no. In effetti credo che si possano dire cose ben più gravi a proposito delle previsioni contenute nel Capitale. Non solo non si è avuta una verifica empirica della caduta del saggio di profitto, ma non si è neanche realizzato ciò che costituisce la verifica decisiva del Capitale: una rivoluzione socialista in Occidente. Il risultato è che oggi il marxismo è in crisi, e può uscire da questa crisi solo riconoscendone l’esistenza. Ma è proprio questo riconoscimento ad essere coscientemente eluso da ogni marxista, piccolo o grande. Ciò è perfettamente comprensibile nel caso dei numerosi intellettuali apolitici e apologetici che stanno nei partiti comunisti occidentali, e che hanno la sola funzione di decorare con una patina di marxismo la pratica politica assolutamente non marxista di questi partiti. Ben più grave è l’esempio offerto da intellettuali di indiscussa levatura che nel loro lavoro tengono sistematicamente nascosta la crisi del marxismo, e così facendo contribuiscono a prolungarne la paralisi come scienza sociale. Mi spiegherò con due esempi. Baran e Sweezy, nella loro introduzione al Capitale monopolistico, informano i lettori in una breve nota che non si serviranno del concetto di plusvalore ma di quello di surplus, e che al posto del concetto di lavoro salariato useranno quello di lavoro dipendente. Che vuol dire tutto ciò? Significa che Baran e Sweezy avevano deciso che era impossibile servirsi della teoria del valore e del plusvalore nella loro analisi del capitalismo americano del dopoguerra. Hanno tutti i diritti di compiere questa scelta; possono anche aver ragione di farla — non c’è bisogno di entrare adesso nel merito della questione. Ma il modo in cui si comportano è significativo. In realtà essi fanno saltare le fondamenta della costruzione di Marx: privato della teoria del valore e del plusvalore il Capitale crolla. Ma essi si limitano a menzionare questa eliminazione in una nota a piè di pagina, e poi procedono con noncuranza come se nulla fosse avvenuto — come se, una volta eseguita questa correzione di secondaria importanza, l’opera di Marx rimanesse più sicura e resistente che mai.
Prendiamo un altro caso, quello di un intellettuale e studioso di grande valore: Maurice Dobb. Presentando una edizione italiana del Capitale a cent’anni dalla pubblicazione, Dobb ha scritto una Prefazione in cui afferma che tutto è a posto se non fosse per una minuscola imperfezione, un piccolo difetto dell’originale. Questo errore di poco conto, dice Dobb, è il modo in cui Marx opera la trasformazione dei valori in prezzi nel III Libro del Capitale: per fortuna, tuttavia, l’errore è stato corretto da Sraffa, e adesso tutto fila liscio di nuovo. Dobb può benissimo aver ragione di non essere soddisfatto del modo in cui Marx risolve il problema della trasformazione, così come è possibile che Sweezy avesse ottimi motivi per respingere la teoria del valore. Pier ora possiamo sospendere il giudizio su questi argomenti. Dove però essi hanno certamente torto è nel credere, o nel far mostra di credere, che si possano asportare le fondamenta su cui poggia la costruzione teorica di Marx e al tempo stesso mantenere in piedi tutto l’edificio. È questo un modo di comportarsi che non è semplicemente illusorio. Rifiutando di ammettere che ciò che si respinge dell’opera di Marx non è secondario ma essenziale, si occulta e, quindi, si rende più grave la crisi del marxismo nel suo complesso. Elusioni intellettuali di questo genere rendono solo più acuta la stagnazione del pensiero socialista oggi evidente dappertutto nel mondo occidentale. Lo stesso vale per i giovani economisti marxisti italiani che hanno fatto proprie la maggior parte delle idee di Sraffa. Non voglio dire che Sraffa ha torto: sono disposto ad accettare in via di ipotesi che egli abbia ragione. Ma è del tutto assurdo accettare Sraffa, la cui opera implica la completa demolizione dei fondamenti dell’analisi di Marx, e pretendere al tempo stesso che si tratti del modo migliore per puntellare l’opera di Marx» (pp. 43-46).
Nel saggio «Marxismo e dialettica», Colletti tratta infine della differenza fra le categorie di «opposizione reale», cioè opposizione senza contraddizione, e contraddizione dialettica, che è incompatibile con la logica formale. Su questa differenza «il marxismo non ha mai avuto idee chiare» e la distinzione in oggetto non ha rilevanza puramente accademica. Una rilettura del Capitale che ne tenesse conto sarebbe oltremodo feconda e chiarificatrice per separare gli elementi scientifici da quelli più propriamente filosofici e dialettici. «Il principio fondamentale del materialismo e della scienza è il principio di non contraddizione. La realtà non sopporta contraddizioni dialettiche ma solo opposizioni reali, conflitti di forze, rapporti di contrarietà. E questi, sono opposizioni ohne Wiederspruch, cioè non-contraddizioni, anziché contraddizioni dialettiche… D’altra parte, le opposizioni capitalistiche sono, per Marx, contraddizioni dialettiche e non opposizioni reali» (pp. 112-113).
Certamente queste osservazioni di Colletti non costituiscono un punto di arrivo: sono solo un punto di partenza coraggioso per chi non accetti un certo dogmatismo marxista intorno ai problemi politici ed economici, che il marxismo non ha certo contribuito a chiarire. Forse non è immodesto pensare che la teoria del federalismo fornisce, almeno in parte, quegli strumenti concettuali carenti nel marxismo o, almeno, un punto di vista privilegiato per approfondire ed esplorare le zone oscure delle scienze sociali individuate da Colletti.
 
Guido Montani

 

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