IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVIII, 1986, Numero 2-3, Pagina 135

 

 

KEYNESISMO E WELFARE SU SCALA INTERNAZIONALE: A PROPOSITO DI UN PIANO MONDIALE PER L’OCCUPAZIONE E LOSVILUPPO
 
 
A partire dall’inizio degli anni Settanta, da più parti è stata avanzata la proposta di lanciare un «piano Marshall» per il Terzo mondo, destinato ad accelerare in misura considerevole lo sviluppo del Sud, oltre che a fornire nuove occasioni di occupazione e di reddito ai paesi avanzati.
Suggerito inizialmente da alcuni pionieri, il progetto di un nuovo piano di aiuti paragonabile per ampiezza ed effetti a quello lanciato nel secondo dopoguerra dagli Stati Uniti per consentire all’Europa di effettuare la ricostruzione in tempi brevi, ha incontrato crescenti consensi nei nostri paesi, man mano che le recessioni degli anni Settanta ed Ottanta minavano la fiducia nella capacità dei paesi industrializzati di dar vita autonomamente ad una nuova fase di sviluppo dell’economia mondiale, dopo la conclusione del «glorioso trentennio» di crescita postbellica.
Il modello comune cui si sono ispirate le successive versioni del progetto di sviluppo a favore del Terzo mondo, spesso soltanto abbozzate o espresse a grandi linee, aveva mobilitato negli anni compresi fra il 1948 e il 1952 una massa ingente di risorse, 3800 milioni di dollari (per l’85 per cento sotto forma di doni e per il 15 per cento sotto forma di prestiti a lunga scadenza ad un tasso del 2,5 per cento), risollevando in un arco di tempo limitato le economie europee prostrate dalla guerra. Effetto non secondario del piano Marshall fu anche quello di sollecitare i paesi del vecchio continente a forme di collaborazione, dalle quali sarebbe scaturito più tardi il processo di integrazione funzionalista, che condusse sino alla creazione della Comunità europea.
Anche per gli Stati Uniti il programma di aiuti ai paesi d’oltreatlantico ebbe rilevanti effetti positivi: a fronte di una spesa complessiva di 94 miliardi di dollari per il complesso degli aiuti UNRRA e a titolo di piano Marshall, l’occupazione e il grado di utilizzo degli impianti nella loro economia si accrebbero in misura considerevole, mentre l’incremento annuo del loro prodotto nazionale lordo aumentò dal 2,7 per cento del periodo 1945-1949 al 6,1 per cento degli anni fra il 1950 e il 1953.
Con il piano Marshall, in altri termini, era stato possibile sia dotare l’Europa di una nuova capacità di produzione, sia utilizzare la domanda europea per avviare una nuova fase di crescita dell’economia americana, la sola che fosse in grado di fornire le attrezzature e i prodotti necessari per l’opera di ricostruzione nel vecchio continente.
Dato questo precedente storico, si tratterebbe di utilizzare un piano di aiuti per l’occupazione e lo sviluppo a livello mondiale per attivare l’enorme domanda potenziale di cui è portatore il Terzo mondo, per trarlo dalle secche del sottosviluppo e per rilanciare l’occupazione e la crescita anche nei paesi industrializzati.
In tal modo, venuto ormai meno nel Nord il motore della lunga fase di crescita associata all’aumento dei consumi delle masse lavoratrici, se ne attiverebbe uno nuovo capace di produrre reddito e occupazione per un periodo ancora più lungo.[1]
Accanto a questa motivazione di carattere generale, i sostenitori più lucidi del nuovo progetto di sviluppo intendono riproporre le politiche keynesiane e del Welfare State in un contesto che ne assicuri il successo su scala mondiale, e contribuire a superare i limiti dell’attuale situazione di potere a livello internazionale.
La crisi del keynesismo è in effetti in primo luogo la crisi di un pensiero e di un complesso di politiche che non sono stati in grado di svincolarsi dall’orizzonte delle singole economie nazionali.
Keynes aveva in mente un’economia mondiale formata da un insieme di Stati nazionali sovrani, con scambi ridotti al minimo e dediti esclusivamente a massimizzare le occasioni e di occupazione interne.[2]
Il suo progetto fondamentale consisteva nello spingere la Gran Bretagna ad accogliere le politiche da lui suggerite ai fini della piena occupazione; ma perché l’esperimento avesse successo era necessario che i legami economici con il resto fossero ridotti al minimo.[3]
Di fronte alla mondializzazione del modo di produrre e allo aumento dell’integrazione economica internazionale che l’accompagna, era inevitabile che le politiche keynesiane si dimostrassero, alla lunga, inefficaci. Al di là delle possibili cause di carattere interno (modificazioni delle condizioni del mercato del lavoro, accresciuta competizione fra i gruppi sociali ai fini della distribuzione del reddito, endogenizzazione del ciclo dell’intervento, e così via), è soprattutto il vincolo della bilancia dei pagamenti che impedisce di raggiungere la piena occupazione nei singoli paesi.
Associata al declino del keynesismo è poi la crisi del benessere, legata all’interruzione della lunga crescita postbellica, che ha fatto venir meno le risorse necessarie al funzionamento dei servizi sociali.
In questa situazione, il lancio di politiche di attivazione della domanda effettiva in una pluralità paesi tra loro collegati dai canali degli scambi reciproci, se effettuato nell’ambito dei rapporti Nord-Sud, fornisce ad un tempo lo strumento per accrescere il reddito nelle due metà del mondo e per perequarne la distribuzione a livello internazionale, anche mediante l’uso di appropriate politiche di Welfare.
Verrebbero poste, in questo modo, le premesse non solo per superare il bipolarismo che ancora regge le sorti del mondo, ma anche per realizzare forme sempre più avanzate di integrazione fra paesi a livello internazionale, procedendo sulla strada del governo democratico dell’economia mondiale.
In conclusione, l’effetto di un piano per l’occupazione e lo sviluppo rivolto ai paesi del Terzo mondo, consisterebbe non soltanto nel migliorare le condizioni economiche e di benessere del Sud e del Nord, ma anche nel ridurre l’attuale grado di anarchia internazionale, facilitando pertanto il passaggio dal vecchio al nuovo modo di produrre su scala mondiale.[4]
Occupiamoci ora del progetto presentato da Angelopoulos in uno scritto recente,[5] che affronta i diversi aspetti della questione con un certo dettaglio.
Angelopoulos parte dal presupposto, indubbiamente corretto, che a nulla vale un piano di aiuti straordinari se non si risolve in via preliminare il problema dell’indebitamento: non intervenendo su questo fronte le nuove risorse finirebbero per essere assorbite dalla voragine del servizio dei prestiti.
Data questa premessa, il piano proposto dovrebbe articolarsi in due fasi: a) in un primo tempo si dovrebbe procedere al risanamento della situazione finanziaria esterna del Terzo mondo, consolidando i prestiti privati esistenti e liquidandoli in quindici anni, dopo una sospensione dell’ammortamento del capitale per cinque anni; il tasso d’interesse dei debiti consolidati dovrebbe essere ridotto al 5 per cento e il rinvio dell’ammortamento sarebbe subordinato all’impiego delle somme risparmiate in progetti di investimento, con il vincolo dell’acquisto delle attrezzature necessarie presso il paese creditore; b) successivamente verrebbe attivata la nuova domanda reale nell’ambito del Terzo mondo, mediante la concessione, da parte dei paesi industrializzati membri del Comitato di aiuto allo sviluppo, di crediti a lungo termine a condizioni di favore.
La concessione dei prestiti, che si estenderebbe lungo l’arco di cinque anni e riguarderebbe complessivamente circa 200 miliardi di dollari, dovrebbe prevedere: a) l’aumento progressivo dei crediti da 35 a 50 miliardi di dollari all’anno per un ammontare pari allo 0,5-1 per cento del PIL dei paesi avanzati; b) una durata di venti anni, con un periodo di grazia di cinque anni per il rimborso del capitale; c) un interesse effettivo del 5 per cento, per i soli quindici anni successivi ai primi cinque, durante i quali i crediti sarebbero infruttiferi; d) la destinazione vincolata delle somme prestate all’effettuazione di acquisti nei paesi creditori.
Il costo annuo del piano viene quantificato da Angelopoulos in 11 miliardi di dollari per i primi cinque e in 26 miliardi di dollari per i successivi quindici anni.
Le risorse finanziarie necessarie alla copertura dell’onere dell’operazione dovrebbero essere gestite da un «Fondo internazionale per lo sviluppo», da costituirsi ad hoc, e potrebbero essere ottenute sia dai finanziamenti già disponibili per gli aiuti ufficiali, che risultano ampiamente sufficienti, sia da nuovi introiti. A questo proposito si cita la possibilità di istituire un’imposta sul prezzo del petrolio, o sui redditi degli eurodepositi o infine sugli incrementi di prezzo dell’oro.
Ancora, ogni paese industrializzato dovrebbe istituire presso la propria Banca centrale un «Fondo per il finanziamento del Terzo mondo» e trasferirgli annualmente lo 0,5 per cento del reddito nazionale, mentre i paesi che desiderano accedere al nuovo strumento dovrebbero impegnarsi a utilizzare i fondi in progetti di sviluppo concreti e ad acquistare presso le imprese del paese creditore i beni necessari per dar corso all’investimento.
Concludono il piano Angelopoulos l’indicazione del referente politico dell’intera operazione (dovrebbe trattarsi della Banca mondiale) e il suggerimento che qualora difficoltà insormontabili impedissero il varo di un piano mondiale, potrebbero essere realizzati tre piani regionali facenti capo rispettivamente all’Europa occidentale, ai paesi dell’Est e agli Stati Uniti.[6]
La proposta di Angelopoulos è corretta nel suo principio ispiratore, dato che prevede l’adozione di politiche keynesiane su scala internazionale, ma si presta ad alcuni rilievi critici.
In primo luogo il suo esame suscita l’impressione che non siano state colte pienamente le grandi differenze che intercorrono tra la situazione odierna del Terzo mondo e quella dei paesi europei all’indomani della seconda guerra mondiale. L’Europa doveva ricostruire le sue attrezzature produttive, ma aveva a disposizione un’immensa ricchezza in termini di capacità scientifiche e organizzative, accumulate nel corso dei due secoli precedenti. Il Terzo mondo si trova ancora in una fase in cui queste capacità sono assenti o fortemente carenti. Il periodo su cui estendere il piano non può pertanto limitarsi ad alcuni anni, ma deve abbracciare un arco di tempo più vasto, dell’ordine dei venticinque, trent’anni.
Anche i mezzi finanziari previsti sembrano insufficienti di fronte all’ampiezza del compito. Si pensi a questo proposito che, mentre Angelopoulos prevede la concessione di prestiti per circa 40 miliardi di dollari l’anno, per cinque anni, i soli pagamenti degli interessi sul debito del Terzo mondo sono stati di 45-50 miliardi di dollari all’anno nel periodo 1982-1984.
Al di là di ciò, ci si può chiedere in che misura un piano che vincola la destinazione degli aiuti all’acquisto di attrezzature e manufatti nei paesi creditori possa contribuire concretamente alla industrializzazione dei paesi in via di sviluppo e non semplicemente alla riproposizione degli attuali rapporti fra centro e periferia fra le due metà del mondo.
Perché l’aiuto contribuisca ad una più equilibrata divisione internazionale del lavoro è indispensabile che possa anche tradursi in domanda effettiva rivolta alle industrie nazionali del Terzo mondo, i cui prodotti dovrebbero anche godere di un accesso privilegiato ai mercati del Nord.
Più in generale, manca al progetto Angelopoulos il conforto di un quadro istituzionale dei rapporti Nord-Sud, in grado di assicurare la collaborazione su un piano di parità dei due gruppi di paesi.
Sotto questo profilo, un ruolo importante potrebbe essere svolto non certo dagli Stati Uniti, la cui politica egemonica contribuisce a rafforzare il governo bipolare del sistema mondiale, ma dalla Comunità europea, che interessi oggettivi e legami storici candidano a fornire un apporto rilevante al processo di emancipazione dei popoli del Sud e alla creazione di un assetto economico e di potere del mondo, fondato sul principio del multipolarismo.
 
Franco Praussello


[1] A. Spinelli, PCl, che fare?, Torino, Einaudi, 1978.
[2] In alcuni articoli scritti nel 1933, Keynes difese apertamente l’autarchia, giungendo ad affermare: «Simpatizzo dunque con quelli che vorrebbero ridurre al minimo, invece di spingere al massimo, i legami economici fra le nazioni» (cfr. R.F. Harrod, La vita di J.M. Keynes, Torino, Einaudi, 1965). Su questo argomento cfr. anche l’introduzione di G.Montani a L. Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985.
[3] R.F. Harrod, op. cit.
[4] A. Majocchi, «Thurow e il problema dell’equità», in Il Federalista, XXVI (1984), pp. 66-72.
[5] A. Angelopoulos, Un plan mondial pour l’emploi, Paris, PUF, 1984. Versioni precedenti del piano sono contenute in: A. Angelopoulos, The Third World and the Rich Countries, New York, Praeger, 1974 e Per una nuova politica di sviluppo internazionale, Milano, Etas Libri, 1979. Altre proposte analoghe sono descritte in: G. Montani, Il Terzo mondo e l’unità europea, Napoli, Guida, 1979.
[6] L’autore si limita ad illustrare quest’ultima possibilità, che comporterebbe un costo annuale di 8 miliardi di dollari per i primi cinque anni e di 5 miliardi di dollari per i successivi quindici anni.

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia