IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVIII, 2016, Numero 1, Pagina 37

 

 

Consegna del riconoscimento
“Altiero Spinelli” ai costruttori dell’Europa federale
al Presiedente emerito della Repubblica
Giorgio Napolitano

(Roma, Palazzo Giustiniani, 22 gennaio 2016)

 

 

Intervento del Presidente del MFE

 

 

Signor Presidente della Repubblica,

Signor Presidente del Senato,

Caro Presidente Napolitano,

Stimate Autorità e rappresentanti del mondo della cultura e dell’informazione che ci onorate della vostra presenza,

Gentili amiche e cari amici federalisti,

 

siamo i custodi e gli eredi di quel Manifesto di Ventotene che nel periodo più buio della storia europea si chiudeva con parole che sono ben scolpite nelle nostre menti: “La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà.” Questa manifestazione di volontà e di speranza, a cui siamo rimasti sempre fedeli fin dal 1943, quando venne fondato a Milano il Movimento federalista europeo, non ci impedisce di osservare con sguardo severo il volto dei tempi che stiamo vivendo. Non ci impedisce di vedere che in Europa tornano ad essere innalzati muri, stesi fili spinati, chiuse le frontiere. Non ci impedisce di constatare che si mettono in discussione gli Accordi di Schengen, la libera circolazione dei cittadini, la stessa possibilità per le giovani generazioni di costruirsi un percorso di studio e di lavoro veramente europeo. Non ci impedisce di notare che a sette anni dallo scoppio della crisi economico–finanziaria i paesi della zona euro non sono stati ancora in grado di approntare gli strumenti per uscirne: un bilancio dotato di risorse adeguate ed autonome, un grande piano di investimenti per favorire la ripresa, un governo fornito dei poteri necessari per orientare le scelte economiche e non lasciarsi trascinare dagli eventi. Non ci impedisce di prendere atto con amarezza e preoccupazione che le principali aree di crisi a livello mondiale sono ai nostri confini o non lontano da essi: dall’Ucraina alla Siria, dall’Iraq alla Libia. Non ci impedisce di vedere con orrore quelle nere bandiere issate nel Medio Oriente e nel Maghreb, a ricordarci il possibile ritorno di un passato che pensavamo definitivamente sepolto. Non ci impedisce di constatare che movimenti euroscettici, nazionalisti, populisti sembrano averla sempre più vinta. Non ci impedisce di osservare, infine, che conflitti, controversie, recriminazioni tra gli Stati o tra gli Stati e le istituzioni europee sono la triste realtà di ogni giorno.

Il gioco è così scoperto da diventare persino stucchevole: all’Europa si addossano tutte le colpe, mentre gli Stati si attribuiscono tutti i meriti. Ben si addicono ai nostri orgogliosi Stati nazionali le amare parole di Tomasi di Lampedusa: “Non vogliono mai migliorare, pensano di essere perfetti: la loro vanità è superiore alla loro miseria”. Eppure, in un mondo in cui si vanno vieppiù affermando vecchie e nuove potenze di dimensioni continentali ed aree geografiche ed economiche che comprendono miliardi di persone, la miseria dei nostri Stati si rivela con sempre maggiore intensità e fa apparire gli sforzi con cui essi rivendicano un protagonismo anacronistico, spesso frutto dei sogni del passato, per quello che realmente sono: ridicoli.

Un lunga tradizione descrive i federalisti europei come nemici degli Stati. E’ una caricatura che rifiutiamo. Siamo nemici della sovranità assoluta, del resto ormai nient’altro che vuota parvenza, non degli Stati. Nessuno degli eminenti statisti ed uomini politici italiani che hanno contribuito al processo di unificazione europea è venuto meno alla lealtà verso l’Italia. Non Luigi Einaudi. Non Alcide De Gasperi. Non Altiero Spinelli. Non Carlo Azeglio Ciampi. Non certamente Giorgio Napolitano. Al contrario, tutti coloro che si sono battuti e si battono per l’unità federale dell’Europa hanno sempre ritenuto di servire nel migliore dei modi il proprio Paese ed i suoi veri interessi. Non quelli di breve durata e di corta veduta, che attirano forse qualche applauso, ma che si rivelano alla lunga controproducenti o addirittura nefasti. La lungimirante scelta europea attuata nel secondo dopoguerra e poi sempre confermata ha invece assicurato al nostro Paese decenni di pace ed una prosperità mai prima conosciuta. Rimetterla in discussione proprio oggi, in un mondo sempre più disordinato e caotico, sarebbe davvero segno di imperdonabile leggerezza e di scarsa chiaroveggenza. Anche perché tutto lascia credere che la fine del processo di unificazione europea non ci ricondurrebbe al mondo ottocentesco degli Stati nazionali, ma ad una ulteriore frammentazione degli stessi Stati. Quel che è successo ad Est dopo la caduta del Muro di Berlino potrebbe verificarsi anche ad Ovest, e con ben più gravi conseguenze. Allora, infatti, l’Unione europea, pur tra incertezze e contraddizioni, fu in grado di riempire quel vuoto e di offrire una prospettiva ai vecchi ed ai nuovi Stati sorti dalla dissoluzione dell’impero sovietico. Domani, senza un potere sovranazionale europeo non esisterebbero né un’àncora, né una rete, né un ordine. Il Vecchio continente diventerebbe quel che sono state per secoli l’Italia e la Germania per l’Europa: il ventre molle del mondo.

Noi federalisti abbiamo per questo l’ardire di affermare che l’unione federale è la sola risposta in grado di assicurare all’Europa un posto ed un ruolo nel nuovo equilibrio internazionale che si va faticosamente costruendo, di garantire ai nostri Stati la sopravvivenza e la diversità nell’unità, di salvare la democrazia dai rischi che la minacciano se rimane chiusa nell’orizzonte nazionale.

“La dissolvenza della sovranità statuale – ha scritto un grande intellettuale come Edgar Morin – pone il problema di una sua ricomposizione, che potrà avvenire solo all’interno di un pluriverso antitotalitario che non può essere se non federale: federale perché il federalismo è complesso, flessibile, come la vita, la pace, l’amore (che è amore per le complessità culturali, psicologiche, economiche), mentre, invece, il totalitarismo (in tutte le sue forme, anche quelle dissimulate della democrazia) è rigido, come la guerra, come la morte, ed è la tentazione permanente per la nostra fatica, la nostra inquietudine, i nostri dubbi, le nostre vertigini di diserzione spirituale”. Occorre però fare presto. Prima che i mali individuati diventino troppo potenti e troppo invasivi per essere affrontati e sconfitti. Per questo, caro Presidente, noi facciamo nostro l’accorato appello della sua lectio doctoralis all’Università di Pavia: “Europa, se non ora, quando?”.

Giorgio Anselmi

 

 

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