IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LII, 2010, Numero 1, Pagina 58

 

 

PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA' E STATO FEDERALE.
STORIA, IDEE E POSSIBILI SVILUPPI
 
 
Si intende promuovere in questa sede una riflessione dal carattere storico sul principio di sussidiarietà e, in base a quest’ultima, indicare una possibile relazione del principio stesso con la prospettiva relativa alla costruzione di un’Unione federale europea. In via introduttiva sarà utile fornire alcuni strumenti concettuali attinenti alla teoria politica che verranno poi adottati ed elucidati storicamente nel corso della presente trattazione.
 
Una prolusione concettuale.
 
Si indica con il termine di principio una regola che, nelle intenzioni dei formulatori o nella logica del suo divenire, dovrebbe consentire la realizzazione di un determinato valore all’interno di uno specifico contesto storico-politico-sociale.[1] Questa regola non necessariamente assume i connotati giuridici, ma può anche essere esclusivamente politica od economica. Un buon esempio può essere fornito dal principio di laicità che storicamente ha assunto il ruolo di norma politica (ancor prima che giuridica) volta a garantire la libertà individuale all’interno di un comune quadro politico.[2]
Dunque, con la locuzione principio di “sussidiarietà”, si intende “quel criterio in base al quale un tipo di azione (o una specifica azione) spetta prioritariamente ad un determinato soggetto di livello inferiore rispetto ad un altro e può” (deve)[3] “essere svolto in tutto o in parte da un altro soggetto, al posto o ad integrazione del primo, se e solo se il risultato di tale sostituzione è migliore (o si prevede migliore) di quello che si avrebbe o si è avuto senza tale sostituzione”.[4] Questo criterio, in base a quanto testé anticipato, risponde, nel corso della teoria politica contemporanea al tentativo di molteplice matrice (socialista-liberale, personalista e cattolica) di promuovere il valore della centralità della persona umana o a quello liberale-liberista di promuovere la libertà dell’individuo nell’ambito dell’ordinamento sociale e politico.[5]
Con Stato federale si intende, traendo spunto da uno studio di Wheare, quell’organizzazione politica[6] in cui “le funzioni di governo sono divise in modo tale che la relazione tra il corpo legislativo la cui autorità si esercita su tutto il territorio e i corpi legislativi la cui autorità si esercita su parti di territorio non è una relazione tra superiore e inferiore… bensì una relazione tra partner coordinati nel processo di governo. In un governo federale vi è una divisione delle funzioni di governo tra un’autorità, generalmente chiamata governo federale, che ha il potere di regolare certe questioni per l’intero territorio, e una serie di autorità, generalmente chiamate governi degli Stati, che hanno il potere di regolare certe altre questioni per ciascuna delle parti che costituiscono il territorio…Sistema di governo federale significa perciò una divisione di funzioni tra autorità coordinate, autorità che non sono in alcun modo subordinate le une alle altre, né nell’estensione, né nell’esercizio delle funzioni loro assegnate”.[7] Di questo tipo di Stato inoltre esistono due versioni: quella costituzionale classica, a carattere dualistico in quanto il governo federale e i governi degli stati operano in due sfere separate senza reciproche interferenze sulla base di una rigida divisione delle competenze; e quella cooperativa i cui caratteri sono definiti dall’aumento delle relazioni tra i due livelli di governo e dall’estensione delle competenze concorrenti.[8]
 
Alle origini ideologico/antropologiche del principio: gli anni Trenta.
 
Una volta poste queste premesse concettuali si intende ora abbozzare un tentativo di spiegazione riguardo al perché, a differente guisa e con differenti ragioni politiche congiunturali, il principio di sussidiarietà abbia recentemente, in particolare nel corso degli anni novanta, conosciuto una fortuna crescente che lo ha portato o rafforzato[9] nel cuore dei principali ordinamenti nazionali e sovranazionali del continente europeo al quale, per motivi di tempo e spazio restringeremo la presente trattazione. Per provare ad andare a fondo a questa problematica non è, ad avviso di chi scrive, sufficiente soffermarsi esclusivamente sui fenomeni emersi negli ultimi anni. Bisogna, infatti, spiegare, da un lato, l’emergere di una preoccupazione attinente alla centralità della “persona umana/individuo”[10] e, dall’altro, il perché questa istanza si sia sposata al principio di sussidiarietà. La “persona umana”, come elemento concettuale inerente alla politica ed all’organizzazione sociale, emerge con forza – ma sulla scia di numerosi precedenti nella storia del pensiero[11] – a partire dagli anni Trenta del Novecento come critica al “sistema” costituito dalla moribonda civiltà borghese del diciannovesimo secolo e dai totalitarismi nati in contrapposizione a quest’ultima. Si tratta di un concetto che viene a diversa guisa elaborato e definito in diretta contrapposizione con l’individuo della democrazia-liberale e con i modelli antropologici promossi da Italia, Germania e URSS. I propugnatori/ispiratori di questo concetto sono molteplici e non sono collocabili in un’unica corrente ideologica. Infatti, se è fondamentale in merito la componente cristiana con le riviste francesi “Esprit” ed “Ordre Nouveau” unite al pensiero di parte importante del mondo cattolico, non è possibile sottovalutare il dibattito sviluppatosi in ambienti culturalmente diversi quali, ad esempio, quello di Giustizia e Libertà (si pensi ad una figura quale quella di Caffi o allo stesso Rosselli, che parlava di “nuovo umanesimo”) che, proprio a contatto con le riviste francesi, non persero l’occasione per dare forma ad un proprio modello antropologico terzo rispetto all’individuo borghese ed all’ “uomo nuovo” nazista, fascista o comunista. In tutti i casi, sia pur con etichette differenti, quello che si intende promuovere è un essere umano (o persona) che libero dall’oppressione dispotica dello Stato centralizzato e svincolato dal conformismo nichilistico e classista della società borghese possa vivere creativamente la propria esistenza a stretto contatto con le diverse comunità in cui si svolge la sua vita locale (di natura politica, economica o sociale), avendo la possibilità di relazionarsi con quelle vigenti ad un livello di più vasta estensione senza venirne schiacciato/escluso od asservito. Il sistema che molti tra questi intellettuali avevano in mente per garantire questa modalità di vita umana è quello federalista, inteso come federazione di comunità dalla natura politica economica e sociale includente le comunità locali e nazionali in una più ampia federazione che poteva ampliarsi a tutto il continente europeo. Proprio in relazione all’esigenza di delineare una società di questo tipo, alcune riviste, come “Ordre Nouveau” in Francia, iniziarono a ragionare sulla logica di una società di questo tipo, cogliendo inoltre – grazie ai rapporti intellettuali con l’ambiente cattolico[12] – parte significativa del messaggio che Pio XI (con un costante richiamo alla “Rerum novarum” del 1891) indirizzava nel 1931 attraverso la “Quadragesimo anno” a coloro che si apprestavano a ricostruire la società europea e mondiale colpita dalla crisi del ’29. Scriveva il papa nella sua lettera enciclica: “Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare... perché è l’oggetto naturale di qualsiasi intervento nella società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium) le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle… È necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad assemblee minori ed inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minore importanza in modo che esso possa eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano... di direzione, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità”.[13] In relazione culturale con questi indirizzi papali e con le istanze sopra evidenziate, intellettuali quali Alexandre Marc e René Dupuis delinearono,[14] proprio negli anni Trenta, uno dei primi sistemi federali[15] basati, sia pur non formalmente, sul principio di sussidiarietà. Quest’ultimo, in quanto principio ordinatore tra le comunità di diverso livello, diveniva dunque il perno politico intorno al quale realizzare una società che avrebbe posto al suo centro la promozione della “persona umana”.
Differentemente (anche se a contatto con la medesima temperie),[16] in ambito liberale, il principio di sussidiarietà iniziò a farsi largo in diretta opposizione allo statalismo, come mezzo per difendere la libertà dell’individuo.[17] Per “austro-liberali” quali Popper ed Hayek, che avevano vissuto da esuli l’incedere del nazismo e del comunismo, il totalitarismo e lo statalismo erano il nemico principale in quanto rei di asservire il singolo essere umano. Non vi era, nei loro scritti, né condanna né presa di distanza riguardo all’individualismo borghese, bensì accusa nei confronti dell’interventismo oppressivo in voga negli anni Trenta (si pensi al “pianismo” di De Man). Se la libertà individuale veniva quindi, in contrapposizione con la schiavitù totalitaria, affermata come il valore più grande la sussidiarietà iniziava a delinearsi come efficace limite all’intervento del potere pubblico nella vita dei privati cittadini. In questo caso la riflessione sul principio non si sposò ad un’esigenza di ripensamento della società su basi federaliste, bensì all’idea, sviluppata a più riprese nel corso del Novecento, che l’unico Stato che garantisca la libertà sia lo Stato minimo. D’altronde difficilmente – come, anche se per ragioni differenti, nel caso di Pio XI – un progetto di natura rivoluzionaria (la costruzione di un’organizzazione federale) come quello dei “non-conformistes” francesi o degli aderenti a “Giustizia e Libertà” avrebbe incontrato adesioni in un contesto culturale in cui la volontà “costruttivista” era vista come la più grande fonte di dispotismo e di errore per l’uomo.
 
Le condizioni storiche per l’attuale fortuna giuridica della sussidiarietà.
 
Se il contesto storico degli anni Trenta (seguito sotto questo profilo dagli anni di guerra) vide quindi l’emergere trasversale in numerosi circoli intellettuali di una riflessione politica sulla sussidiarietà, la fine della seconda guerra mondiale, con l’avvento della guerra fredda e della golden age,[18] insabbiò politicamente – nonostante la creazione della Repubblica federale tedesca e gli sforzi delle componenti intellettuali sopravvissute al secondo conflitto mondiale – il problema della valorizzazione della persona umana per come era stato individuato nei lavori dei decenni precedenti. Il criterio di coordinamento tra i vari livelli del potere pubblico che permettesse un’effettiva possibilità di partecipazione al cittadino (e dunque una maggiore libertà positiva) rimase confinato al dibattito intellettuale o – in un numero minore di casi (es. Repubblica federale tedesca) – ebbe sì rilevanza costituzionale, ma, schiacciato dalla temperie della guerra fredda, vide un’applicazione a tratti stentata. Venne inoltre ignorata parte importante della questione sollevata dai liberali riguardo al rapporto tra pubblico e privato. Infatti il contesto storico dell’Europa occidentale, segnato dalla crescita economica e dall’avvento dello Stato sociale di impronta social-democratica, vide il rafforzarsi del settore pubblico e la crescita del potere centrale all’interno di ogni realtà nazionale. Il pensiero di Keynes – attuato in relazione alle teorie di Philips[19] – ed il gold exchange standard garantirono una crescita senza precedenti alle spalle della spesa del settore pubblico. In Europa dell’Est numerose federazioni si tennero in vita abdicando alla dialettica tra le componenti federate che venne a lungo sostituita dalla leadership del partito comunista nazionale.
Le cose iniziarono a mutare con gli anni settanta. Un ruolo importante giocò anche la crisi economica propiziata dalle scelte dell’amministrazione Nixon (il dollaro abbandonò la parità con l’oro nel 1971) che mostrarono tutto il loro impatto a contatto con le fluttuazioni dei prezzi del petrolio (1973, 1979). In Europa le comunità locali, colpite economicamente dalla crisi, tornarono a richiedere una soggettività politica in cambio del denaro versato per le tasse[20] al potere centrale. Così in Belgio venne riconosciuto il ruolo politico[21] delle tre comunità (francofona, fiamminga, germanofona) che misero le basi per la futura svolta federale. In Italia, nello stesso periodo, iniziò ad essere applicato il dettato costituzionale in vigore dal 1948 con l’entrata in funzione delle regioni[22] mentre in Spagna, a seguito della caduta del franchismo, la nuova costituzione diede ampio spazio alle autonomie territoriali prima compresse sotto l’ordinamento accentratore del regime. Inoltre, sempre a causa della crisi economica, emersero le deficienze di un sistema economico che iniziava a subire i terribili effetti sociali della stagflazione (inflazione più disoccupazione). Questo fenomeno, contraddicendo la logica del coevo keynesismo e della socialdemocrazia, finì per porre le basi del successo sociale e politico di un liberalismo a marca liberista che, si tradusse in un mix tra monetarismo e “austro-liberalismo”[23] destinato a mettere definitivamente in discussione buona parte dello Stato-sociale ma anche – ed anzi proprio per questo – a reintrodurre nell’agone politico quegli elementi di sussidiarietà orizzontale negativa,[24] che avevano iniziato a fare capolino sin dagli anni Trenta nella riflessione di Hayek e Popper. Allo stesso tempo il costante accento sull’inesistenza di tutto ciò che non sia di diretta derivazione individuale (“la società non esiste”, come sosteneva la Thatcher) diede il colpo di grazia culturale alle vecchie appartenenze sociali e nazionali, finendo per legittimare e normalizzare, insieme ad un rinnovato dinamismo della società civile, l’immiserimento del ruolo della politica nelle società occidentali e l’accantonamento di una “questione sociale” da allora sempre più grande: un elemento che avrebbe in seguito pesato nel fiorire dei localismi proprio agli anni Novanta. Siffatta corrente di pensiero, per chiudere questa parentesi, registrò il culmine del successo ideologico nel ’89 – quando non solo la liberal-democrazia parve seppellire il “socialismo reale” ma l’economia di mercato capitalista si autoproclamò il sistema socio-economico “universale” e “naturale” in quanto vincente – per giungere, attraverso un’ipertrofia volgarizzante,[25] fino all’odierna crisi che ne segna il momentaneo arresto.
A questi fenomeni – crisi economica, sorgere diffuso di nuovi soggetti politici locali ed avvento del liberismo – si aggiunse, nel corso degli anni ottanta un crescente sviluppo tecnologico dei mezzi di comunicazione che, nel decennio successivo prese l’aspetto di un’autentica rivoluzione (la cosiddetta rivoluzione dell’ICT[26]). Il sistema economico – trainato dal doppio binario dell’ideologia liberista e del sempre più accelerato progresso tecnico – si avviò ad un mutamento organizzativo che porta oggi a segnalare l’esistenza di una caratterizzazione “post-fordista” dell’economia capitalista basata sulla deterritorializzazione delle sedi di decisione economica, sul rapporto di “sottomissione”[27] della fabbrica alla società, sulla riduzione del conflitto interno alla fabbrica stessa, sulla flessibilizzazione della forza lavoro.[28] Una riorganizzazione che metteva sempre più in discussione il paradigma politico fondato su uno Stato-nazione sempre più incapace di gestire e mediare queste nuove “emergenze” del sistema socio-economico. Sul piano politico la sempre più evidente crisi dell’Urss, unita al contemporaneo crescere della potenza tecnologico-militare statunitense misero in moto un processo di mutamenti che – oltre a sfociare nella fine della guerra fredda e nella conseguente nascita di un nuovo ordine internazionale basato su una sorta di multipolarismo asimmetrico – avviò una nuova fase politica interna alla stessa Europa. Da un lato, infatti, con il ritiro dell’Urss e del patto di Varsavia andarono in frantumi quelle entità federali che si reggevano esclusivamente sul controllo del partito comunista locale (es. Repubblica Ceco-Slovacca) o che, pur al di fuori del sistema sovietico, risentivano del passato equilibrio internazionale capace fino ad allora di mitigare i rispettivi nazionalismi/localismi (es. Jugoslavia). Il risultato, sotto questo punto di vista, fu (ed è allo stato attuale) la nascita di una pletora di Stati/staterelli sovrani potenzialmente forieri di instabilità all’interno dell’equilibrio europeo (rapporto Usa, Ex Urss-Russia; rivalità locali, ecc.). Dall’altro, vi fu la riunificazione della Germania con il ritorno di un attore politico di primo livello all’interno del quadro europeo, un attore le cui credenziali storiche creavano molte preoccupazioni. Si procedette allora alla riforma ed all’approfondimento del processo d’integrazione europea dove, per rassicurare gli Stati sul potere “limitato” della nuova Unione politica venne, non a caso, esplicitamente inserito nei trattati quel principio di sussidiarietà che, fino ad allora, pur se presente/operante parzialmente all’interno di alcuni ordinamenti nazionali non aveva trovato un’esplicita formulazione testuale di natura giuridica. A partire dal trattato di Maastricht il principio di sussidiarietà vedrà una fortuna crescente all’interno di tutti i principali Stati-nazione europei (Italia, Regno Unito, addirittura Francia).
Siffatto fenomeno di giuridicizzazione crescente – al livello nazionale – di un principio che, come si è abbozzato, era nato (e cresciuto) in ambito politico e filosofico rispondeva alla rinnovata esigenza di coordinare e mitigare la nuova e sempre più crescente forza dei poteri locali, i quali, di fronte ai processi testé descritti di mutamento del quadro economico, politico, tecnologico e sociale si sentirono in grado/dovere di occupare e colmare le lacune lasciate aperte dalla crisi dello Stato-Nazione e dalla sua incapacità di governare i fenomeni “glocal” che investivano concretamente la vita quotidiana dei cittadini.[29] Al livello sopranazionale invece, l’avvento di numerosi nuovi attori sovrani desiderosi di usufruire/partecipare al progetto comune europeo (e d’altro canto pericolosissimi in qualità di “cani sciolti”) unita con l’esigenza di dare un contenuto politico alla nascente Unione europea rese necessario un criterio di coordinamento ed attribuzione delle competenze che garantisse, sotto il profilo formale dei trattati, il potenzialmente sempre più complesso quadro delle passate, riaffermate e nuove sovranità nazionali (il cui peso concreto, d’altronde è sempre più insignificante in diretta relazione con l’espandersi di un sistema sociale di natura globale). Si tratta, quindi, in entrambi i casi di ragioni eminentemente pragmatico-funzionali: la sussidiarietà, nel suo exploit giuridico, non è emersa sulla base di una ripresa della tematica della centralità della persona umana (o dell’individuo) bensì in base all’esigenza di armonizzare sia il rapporto sempre più complesso tra centro e periferia che quello tra gli stati membri ed una nuova, ma informe, Unione europea. Questa esigenza “funzionale” ha anche portato con sé, insieme all’assenza di una valutazione inerente alla finalità di fondo del principio ex-ante,[30] tutte le ambiguità interpretative che rendono ad oggi (nonostante i progressi degli ultimi dieci anni) il principio di sussidiarietà un vero “caso” per ciò che attiene alla sua giustiziabilità ed all’inerente certezza del diritto,[31] con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare in merito all’aumento della conflittualità tra i livelli di governo e all’impasse burocratico-giudiziale degli apparati statali.
 
Un principio prezioso per il federalismo europeo.
 
Nonostante i problemi connessi al peculiare innesto storico del principio di sussidiarietà all’interno del multilevel system europeo, esso, sotto determinati aspetti, può prestarsi al conseguimento di una più stretta integrazione politica tra gli europei. Le prospettive sotto cui vedere questo possibile apporto sono due: la prima concerne il superamento/convincimento di quell’opposizione politica e mediatica che, più o meno manifestamente, si oppone con forza all’idea di un’Unione federale europea in quanto vede in essa l’espressione di un nuovo Super-stato accentratore dai contorni tecnocratici ed, in ultima istanza, antidemocratici. Si tratta dell’opzione madre di ogni difesa della sovranità nazionale, volta ad evidenziare in quest’ultima, in quanto territorialmente ridotta rispetto ad un’eventuale sovranità europea, il permanere di un sistema politico capace di garantire la libertà dei cittadini. Siffatto punto di vista è inficiato dalla mancata considerazione della natura orizzontale (e non gerarchica) della divisione delle competenze tra le componenti proprie ad un sistema federale;[32] una divisione che proprio alla luce del principio di sussidiarietà può assumere una nuova forza nel dibattito sul futuro federale dell’Europa. La sussidiarietà si imporrebbe infatti come criterio di attribuzione delle diverse competenze tra i differenti livelli della federazione garantendo i limiti (sussidiarietà negativa) e la forza (sussidiarietà positiva) per l’azione di governo federale. A coloro che oppongono lo Stato nazionale (o il presente ibrido istituzionale europeo[33]) al progetto federalista si può rispondere individuando nella sussidiarietà il criterio per garantire simultaneamente un rinnovato – ed effettivo – sistema democratico, con il miglioramento della qualità propria alla partecipazione politica nella società europea, ed un nuovo potere mondiale capace di agire al di là di ogni più roseo sogno dei singoli stati nazionali restituendo all’Europa un orizzonte politico globale[34] (il che creerebbe un circolo virtuoso, dal momento che consentirebbe ai cittadini di riappropriarsi della possibilità di tornare a discutere ed a scegliere delle politiche efficaci, in quanto aventi impatto mondiale, con un ritorno qualitativo in termini democratici praticamente inquantificabile). Riassumendo: la sussidiarietà – come criterio interno al federalismo – consente di unire delle entità politiche distinte in un’organizzazione più vasta senza nulla concedere ai timori di chi teme un peggioramento della vita democratica della società europea.
Per fare questo però – e si viene alla seconda prospettiva – senza nulla concedere alla retorica politica occorrerà considerare gli errori del passato e discutere del reale telos politico sottostante all’implementazione di un’unione federale europea. La sussidiarietà infatti – come ogni principio politico e giuridico – non potrà essere efficace se non all’interno di una chiara opzione valoriale ed antropologica di fondo. Altrimenti, restando vaga la finalità stessa del ricorso al principio si finirà (come gli ultimi vent’anni testimoniano) in una babele di possibili approcci ermeneutici destinati a sancire, con i problemi in sede giudiziale che ne deriveranno, l’assoluta impotenza di questo strumento. Quello che occorre – ai fini di rispondere alla domanda “sussidiarietà per cosa?” – è dunque la ripresa del dibattito sull’idea di “persona umana”, ovvero il tentativo di affermare, con una visione progettuale del futuro dell’umanità, una weltanshaaung capace di ridefinire radicalmente la posta politica in palio, che, come l’evoluzione del pensiero politico moderno ci insegna, è, in ultima istanza, sempre quella di affermare/realizzare un’idea di uomo (concepito nel suo vivere in società) rispetto ad un’altra. Compito di ogni seria prospettiva europeista, lo si consenta, non è oggi esclusivamente quello di proporre una soluzione istituzionale “difensiva” riguardo alle dinamiche instaurate dalla globalizzazione e dalla connessa rivoluzione del vivere civile nel mondo, ma quello di affermare un’idea nuova di convivenza umana capace di “contrattaccare” – proprio in risposta alle sfide degli ultimi anni – affermando una nuova organizzazione della vita in società capace di volgere in favore dell’uomo l’occasione storica in termini di civilizzazione offertagli dalla necessità, ormai evidente a molti, di dover riorganizzare un mondo ed una civiltà. Serve quindi discutere e chiarire quale sarà l’indirizzo che si vuole proporre ad un’umanità ormai interdipendente nella consapevolezza che il quid in più che una rinnovata progettualità politica europea oggi può restituire alla politica consisterebbe nell’importanza del ritorno di un ragionamento sull’uomo tout court. Si potrà uscire dall’ âge de fer planétaire[35] solo con un salto di paradigma che veda sorgere un nuovo modello di relazioni umane. La sussidiarietà – con la sua originaria poliedricità– consentirebbe oggi di riaprire il dibattito su quale idea di società si desidera – partendo dal telos di una più stretta integrazione politica europea – proporre all’Europa ed al Mondo. Per chi scrive non si tratta, si badi, del tentativo di restaurare un dottrinarismo passato di cui nessuno può avere nostalgia,[36] ma di riaffermare l’importanza dello Streben proprio all’uomo moderno, di delineare un approccio programmatico/organizzativo nel confronto del suo futuro. Un tentativo che, come tutto il miglior pensiero del Novecento ci insegna, non può mai essere più di tale (nessuna pretesa dunque di giungere a verità ultime o di cogliere l’architettura definitiva della “città perfetta”), in quanto soggetto ai limiti della complessità e della fallibilità umane ma, ad ogni modo, pur sempre indispensabile al fine di evitare quel regresso civile e morale che oggi ci minaccia da vicino. Se dunque si può convenire con Aron che “l’existence humaine est dialectique, c’est-à-dire dramatique, puisqu’elle agit dans un monde incoehérent, s’engage en dépit de la durée, recherce une vérité qui fuit, sans autre assurance qu’une science fragmentaire et une reflexion formelle”,[37] è pur vero che proprio quella scienza e quella riflessione – a volte paradigmaticamente passibili di parziali unificazioni – restano i soli – e fondamentali – lumicini attraverso cui guidare l’azione umana nella foresta dell’avvenire. D’altronde, affidarsi in alternativa alla “spontaneità” od ad una presunta “provvidenza” garantirebbe esclusivamente un esito tragico in quanto “di per sé il mondo umano tende a distruggersi e non già a perfezionarsi. La conseguenza sul terreno pratico è che la costruzione di una civiltà non può in alcun caso essere l’opera delle forze spontanee esistenti in una società”.[38]
 
Tommaso Visone
 
 


[1] In merito chi scrive si permette di rimandare a Tommaso Visone, “Garantire la libertà. Europa e laicità”, in Mezzogiorno Europa, n. 6, Anno IX, Novembre/Dicembre 2008, p. 34.
[2] Si veda in merito il ragionamento sviluppato in Tommaso Visone, “Alle origini moderne della laicità”, in Sintesi Dialettica, n. 5, 2008. A www.sintesidialettica.it
[3] Questo a seconda delle interpretazioni/versioni del principio stesso (sussidiarietà orizzontale-verticale, negativa o positiva). La corrente di pensiero cattolica e liberale, ben rappresentata in Italia da Dario Antiseri, resterebbe vicina, nella sua valutazione essenzialmente negativa del potere moderno e dell’intervento pubblico/statale, al “può” adottato da Frosini, preferendo un rischio di inefficienza ad un rischio di centralizzazione. Altri approcci, (ad esempio quelli più vicini al socialismo-liberale), invece, pur consapevoli dei pericoli insiti in un eccessiva centralizzazione, suggeriscono una maggior attenzione al rischio anti-democratico ed antiliberale insito nell’inefficienza di un’azione politica condotta al livello sbagliato, evidenziando la necessità propria all’intervento politico del livello superiore (o del potere pubblico, qualora si tratti dell’alternativa tra pubblico e privato) qualora quest’ultimo sia in grado di ottenere un risultato migliore rispetto al livello inferiore. Si veda Dario Antiseri, “Antiperfettismo, solidarietà e sussidiarietà: principi a difesa della libertà”, Papers, in Acton Istitute www.acton.org, 2003, p.7 e Serge Audier, Le socialisme libéral, Paris, La Découverte, 2006, p.107.
[4] Tommaso Edoardo Frosini, Estratti dalla voce “Sussidiarietà” in pubblicazione sulla Enciclopedia del Diritto, Annali della casa editrice Giuffrè, su www.ildenaro.it, 2009, p. 1.
[5] Si veda quanto scritto in Lorenzo Ieva, Riflessioni sul principio di sussidiarietà nell’ordinamento amministrativo italiano, Rivista amministrativa della Repubblica italiana, n.1/2, v.II, 2001, p. 84.
[6] Come affermava Max Weber “...lo Stato è quella comunità umana che, nei limiti di un dato territorio, esige per sé – con successo – il monopolio della forza fisica legittima”. id, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, Torino, Einaudi, 1977, p. 48.
[7] Kenneth C. Wheare, “What Federal Goverment is”, Federal Tracts n. 4, Londra, Mcmillan, 1941, traduzione italiana in Il Federalista, XXXIII, 1991, pp. 74-91.
[8] Si veda in Lucio Levi, “Lo sviluppo dell’autonomia teorica del federalismo dopo la seconda guerra mondiale” in Guido Montani, Lucio Levi e Francesco Rossolillo, Tre introduzioni al federalismo, Napoli, Guida, 2005, p. 76.
[9] Paesi come la Germania, hanno da tempo alcune disposizioni costituzionali che instaurano una sussidiarietà di fatto riguardo la relazione tra Länder e Bund. Si veda in merito l’articolo 30 della Grundgesetz.
[10] Vi è una differenza filosofica di non poco conto: si passa infatti dall’individuo “fine in sé” dei liberali (Popper), all’individuo “più la sua vocazione” da realizzare in relazione con le comunità d’appartenenza dei personalisti (De Rougemont), all’uomo disalienato della tradizione socialista (Rosselli) che, pur con il medesimo interesse per le dimensioni comunitarie (assente nel liberalismo che parla, al massimo, di “associazioni”), vede rispetto ai personalisti una differenza nel concepire l’elemento di dover essere presente in ogni uomo. Quest’ultimo, nel personalismo, è vocazione divina che si scopre mentre risulta come libera creazione/scelta del soggetto nel grosso degli esponenti novecenteschi del socialismo-liberale.
[11] Es. Kirkegaard, Kant, ecc.
[12] Un testo fondamentale (per quanto non ortodosso) in ambito cattolico che anticipa le due encicliche papali è la Filosofia Politica di Antonio Rosmini del 1838 (ora in Antonio Rosmini, Filosofia della Politica, Roma, Città nuova, 1997) contenente un abbozzo interessante concernente il principio di sussidiarietà.
[13] Pio XI, Lettera enciclica Quadragesimo anno, www.vatican.va , 21.11. 2001, pp.80-81.
[14] Si vedano gli articoli di “Ordre Nouveau”, fino al 1938, in AA. VV., Reproduction intégrale de la revue “Ordre Nouveau” (1933-1938), Aosta, Musumeci, 1997.
[15] In merito agli archetipi moderni del federalismo, non si può fare a meno di ricordare la riflessione di Althusius che nel suo Politica methodice digesta (1614) aveva delineato una confederazione in cui le diverse comunità costitutive della stessa risultano legate da un rapporto di “coordinamento delle differenze” in cui non vi è mai dissolvimento della molteplicità dei membri dell’associazione nell’unum. Il governo comune alla pluralità poteva (e spesso doveva) dunque essere limitato dalla stessa capacità di azione politica delle parti. Si veda Giuseppe Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Bari, Laterza, 1999 p. 169.
[16] Si veda in Dario Antiseri, Karl Popper: protagonista del secolo XX, Soveria Mannelli, Rubettino, 2002, p. 168.
[17] Non vi è in queste pagine sufficiente spazio per delineare il ruolo e l’importanza del concetto di individuo nella politica moderna. Basti qui sottolineare come la definizione dello stesso propria all’ “austro-liberalismo” sia solamente una delle molte comparse nel corso dell’età moderna.
[18] Si veda Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Soveria Mannelli, B.U.R., Milano, 1997, pp. 303-310.
[19] Il quale teorizzò per primo –1958 – la relazione inversa tra il tasso d’inflazione e quello di disoccupazione a partire dalla quale Samuelson e Solow elaborarono nel 1960 un modello che da allora porta il nome dell’economista neozelandese.
[20] Prassi secolare delle comunità locali e dei ceti in tutt’Europa dall’Aragona all’Ungheria. Si veda in merito l’interessantissimo lavoro di Angela De Benedictis (id, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2001), volto a ricostruire le complesse dinamiche dialettiche incorse tra il potere centrale dei sovrani e le componenti della società per ceti nel corso dell’età moderna.
[21] Inizialmente – 1970 – attinente alle politiche culturali e socio-economiche.
[22] Legge 16 maggio 1970 n. 281 (provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario); elezione dei consigli regionali e promulgazione degli statuti regionali (22 maggio 1971).
[23] Ovvero un melange delle teorie politiche, economiche e filosofiche di Popper, Mises, Menger ed Hayek. Siffatta corrente ebbe nella figura di Margaret Thatcher la sua più visibile traduzione politica europea. Sul pensiero in questione si vedano Raimondo Cubeddu, The Philosophy of the Austrian School, London, Routledge, 1993 e Dario Antiseri, Le Ragioni della Razionalità. Proposte teoretiche, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004, pp.409-542.
[24] Si tratta del principio secondo il quale, al fine di tutelare la libertà dell’individuo, il potere pubblico per la quasi totalità degli obiettivi politici perseguiti deve lasciare al privato completa libertà d’iniziativa, limitandosi a fissare (poche) regole formali di cornice all’azione del singolo. Si tratta di un approccio che trova una sponda ideale nelle teorie del cosiddetto “Stato minimo”, quali quelle esposte, ad esempio, da Robert Nozick in id. T, Anarchy, State and Utopia, New York, BasicBooks, 1974.
[25] Per la quale un pensatore illustre e fine quale fu certamente Karl Popper è stato a più riprese invocato per giustificare autentiche truffe o delle manovre irresponsabili – se non altro in Popper l’individuo ha delle responsabilità – a cui il suo pensiero difficilmente si sarebbe prestato. Di recente è stato davvero curioso vedere il costante – e spesso del tutto fuori luogo – richiamo a Popper nelle assemblee e nelle riunioni di simpatizzanti e militanti che si apprestavano alla creazione del Partito Democratico.
[26] Information and comunication tecnology, ovvero l’insieme delle tecnologie che consentono di elaborare e comunicare l’informazione attraverso mezzi digitali.
[27] Nel senso in cui un tempo la fabbrica decideva il tipo del prodotto ed i volumi produttivi in modo autonomo dalla società, potendo contare su un mercato non maturo/saturo. A partire dagli anni settanta questo tratto del fordismo inizia ad essere messo in discussione fino a giungere al modello attuale in cui la fabbrica si adatta in tutto è per tutto alle esigenze del mercato/società per poter sopravvivere in una condizione di più ampia concorrenza e di consumo “esodiretto”.
[28] Si veda in Marco Revelli, Le due destre, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp.75-89.
[29] Si veda Jurgen Habermas, La costellazione post-nazionale, Feltrinelli, Milano, 2002, pp.29-101.
[30] Ex-post infatti numerosi giuristi e studiosi si sono trovati a dover studiare, legittimare e spiegare – sulla base della teoria politica e della storia del pensiero politico – il senso e la portata del principio di sussidiarietà nella storia precedente al suo ingresso nella “vita costituzionale”.
[31] Si veda in Luca Vanoni, “Fra Stato ed Unione Europea: il principio di sussidiarietà sotto esame della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia”, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”, n. 14, v. VI, 2004, pp. 1464-1500.
[32] Il che ad ogni modo comporta, sia in una prospettiva schmittiana che kelseniana, il permanere di uno spostamento verso l’alto della sovranità. Uno spostamento che però, ed è il limite dei nazionalisti/internazionalisti, non si traduce in un’organizzazione gerarchica dei rapporti interni alla federazione. Sulla realzione tra quest’ultimo punto e gli attuali assetti dell’UE si veda Roberto Miccù, “Idee e forme del federalismo sopranazionale”, in Donatella Strangio (a cura di), Giornate Europee della Facoltà di Economia, Roma, Casa editrice Università La Sapienza, 2009, p. 45.
[33] Il che non vale per analisi e prospettive ben più fini quali quelle contenute, ad esempio, in Ulrich Beck, L’Europa Cosmopolita. Società e politica nella seconda modernità, Roma, Carocci, 2006.
[34] La cui importanza è ben sottolineata da Antonio Mosconi in id, La fine delle egemonie. Unione Europea e Federalismo Mondiale, Torino, Alpina, 2008, pp.11-12.
[35] Si veda in merito Edgar Morin, Pour entrer dans le XXIe siècle, Paris, Seuil, 2004, p. 345.
[36] Riguardo alla distinzione tra ideologia/visione del mondo ed il dottrinarismo si veda il lavoro di Natalino Irti: id, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, Roma, Laterza, 2008.
[37] Raymond Aron, Introduction à la philosophie de l’histoire. Essai sur les limites de l’objectivité historique, Paris, Gallimard, 1986, pp. 437.
[38] Altiero Spinelli, “Lettera a Camus, 1945” in Edmondo Paolini (a cura di), Ventisette stelle nel cielo d’Europa. Una selezione di scritti di Altiero Spinelli, C.I.D.E., Roma, 2007, p. 96.

 

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