IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXVII, 1995, Numero 1, Pagina 8

 

 

Verso la Costituzione europea*
 
ANTONIO PADOA-SCHIOPPA
 
 
Premessa.
 
Il dibattito sulla Conferenza intergovernativa del 1996, prevista dal Trattato di Maastricht, è ormai iniziato. Eppure i nodi istituzionali dell’Europa di oggi e di domani sono ignorati o sottovalutati non solo dall’opinione pubblica, ma anche dalle classi politiche dei diversi paesi europei e dagli organi di stampa. La quarta legislatura del Parlamento europeo eletto a suffragio universale è nata in modo non felice, perché agli elettori non è stato dato purtroppo di scegliere tra programmi e tra candidati rivolti a prospettare con chiarezza le diverse possibili vie che si aprono all’evoluzione dell’Unione. I programmi europei dei partiti sono spesso elusivi, e comunque inconoscibili dal normale elettore. La scelta elettorale verte essenzialmente su temi di politica interna. E questo non solo in Italia.
La ragione della deformazione in senso nazionale dell’appuntamento quinquennale tra i cittadini e l’Europa è semplice. L’organo eletto con il voto popolare — e pertanto dotato della massima legittimazione democratica al livello europeo — non dispone di poteri coerenti con il principio della sovranità popolare. Per questo motivo, il circuito vitale tra il programma e il voto, tra le attese della società civile e la rappresentanza politica, non può ancora stabilirsi in modo efficace. La deformazione in senso nazionale della campagna elettorale europea è il sintomo (non la causa) di un difetto di fondo delle istituzioni comunitarie. Così come lo era, almeno sino alla recente riforma, la deformazione in senso nazionale delle elezioni amministrative in Italia.
Nei prossimi anni l’Unione europea dovrà affrontare un duplice ordine di sfide: quelle legate al conseguimento degli obbiettivi del Trattato di Maastricht e quelle imposte dalla prospettiva dell’allargamento della Comunità-Unione ad altri paesi europei. Il primo aspetto comporta la messa in opera delle politiche di coesione, delle politiche sociali, delle reti transnazionali e delle altre politiche previste dai Trattati sul fronte del mercato unico e dell’Unione economica; comporta inoltre le difficili scadenze legate al processo dell’Unione monetaria, definito con inusuale precisione nel nuovo Trattato; comporta infine l’avvio della politica estera comune, della sicurezza comune, della gestione al livello europeo (ove necessario) degli affari interni e della giustizia. Si apre dunque un ventaglio immenso di possibili iniziative. Il secondo aspetto concerne le strategie relative all’ingresso nell’Unione europea dei paesi dell’Europa del Nord, del Centro e dell’Est: un processo ormai avviato, che ha portato a 15, e porterà in futuro a 20 e più gli Stati membri della Comunità-Unione.
Alcuni tra i nodi fondamentali posti dall’esistenza delle due sfide di cui si è detto sono nodi di ordine istituzionale, o meglio costituzionale. Di fronte a questo formidabile compito di programmazione, è indispensabile affrontare il tema delle istituzioni dell’Unione, che sarà appunto l’oggetto specifico della ormai prossima Conferenza intergovernativa. Non è dunque prematura una serie di riflessioni in ordine alle scelte che su questo terreno dovranno presto venire compiute.
L’Europa comunitaria non possiede ancora una costituzione formale, ma possiede indubbiamente una costituzione materiale — o piuttosto, un «torso» di costituzione — che risulta dal sistema delle istituzioni previste dai Trattati ed anche dalla prassi comunitaria che si è creata nel corso di quarant’anni. Occorre infatti tenere presente che la Comunità è bensì nata e si è sviluppata attraverso lo strumento dei Trattati — e perciò con classiche procedure interstatuali di natura internazionalistica, fondate sul libero consenso di altrettanti soggetti sovrani — ma è stata in realtà concepita sin dall’inizio secondo un disegno ben diverso da quello consueto nei Trattati di mero contenuto commerciale od economico. Un insieme di Stati decidono di elaborare in comune le strategie e le decisioni concernenti le fonti di energia, il libero scambio di merci, servizi, persone e capitali, e nel fare ciò istituiscono un Consiglio con poteri normativi che rappresenta gli Stati, un Parlamento eletto dal popolo, una Commissione con poteri di iniziativa legislativa e di governo dotata di una complessa struttura amministrativa alle sue dipendenze, infine una Corte di giustizia competente a dirimere le controversie. Appare evidente che una struttura così concepita, che si articola nelle quattro istituzioni fondamentali appena citate, possiede non pochi caratteri propri della statualità. Essa pertanto può e deve venir valutata secondo un metro di natura costituzionale.
 
Le due concezioni dell’Europa.
 
Secondo un’opinione largamente diffusa, attualmente due concezioni opposte si fronteggiano riguardo alla fisionomia che dovrebbe assumere l’Europa di domani. Da un lato, un’Europa degli Stati, regolata come semplice zona di libero scambio; dall’altro, un’Europa integrata secondo schemi propri di una federazione di Stati.
La prima concezione, della quale l’Inghilterra è considerata il principale sostenitore, potrebbe forse risultare rafforzata in seguito all’allargamento dell’Unione europea ad Austria, Finlandia e Svezia: poiché non soltanto alcuni tra questi nuovi Stati membri sembrano condividere con la Danimarca (oltre che con il Regno Unito) una visione «minimalista» della costruzione europea, ma il loro ingresso nell’Unione — senza che le istituzioni comunitarie siano state previamente riformate — sembra preludere ad un affievolimento di capacità decisionale a livello europeo, non fosse che per la maggior difficoltà di trovare un accordo tra quindici piuttosto che tra dodici Stati membri.
Questa raffigurazione dualistica delle prospettive dell’Unione europea non è certo infondata. Essa richiede peraltro alcune precisazioni non marginali. Anzitutto, non si può non osservare che l’Europa comunitaria non è mai stata — né tantomeno è oggi, dopo Maastricht — una semplice zona di libero scambio: da un lato le politiche regionali e sociali quali complemento necessario del principio della concorrenza che sta alla radice del mercato unico, dall’altro il sistema di istituzioni cui si è già accennato, costituiscono un insieme di politiche comuni ed una complessa struttura che vanno ben al di là del semplice accordo per un libero scambio di merci e di servizi. Là dove la semplice zona di libero scambio è stata progettata in Europa, essa ha fallito lo scopo per il quale era nata, e i suoi membri hanno optato per il modello comunitario chiedendo e ottenendo l’ingresso nella CEE.
L’Unione europea non è l’EFTA, né potrà diventare ciò che non è mai stata se non al prezzo di una demolizione in profondità: un obbiettivo che non sembra comunque probabile, che in ogni caso non sarebbe di facile attuazione, che infine avrebbe conseguenze forse non volute dai suoi stessi fautori. Si pensi soltanto a ciò che accadrebbe se le politiche comunitarie previste dai Trattati dovessero in avvenire realizzarsi attraverso semplici accordi volontari di cooperazione intergovernativa, presi all’unanimità al livello del Consiglio dei Ministri e del Coreper: sarebbe la paralisi certa del mercato unico e, dunque, la crisi dell’economia europea. L’Unione europea non potrà dunque divenire domani ciò che non è mai stata in passato.
Quanto all’altra visione dell’Europa futura — la visione che abbiamo denominato federalistica — essa si fonda sulla consapevolezza delle vere radici dell’impresa di unificazione europea, che non sono radici economiche ma radici politiche ed ideali, come ogni seria indagine storica sui «padri fondatori» — da Jean Monnet ad Altiero Spinelli, da Alcide De Gasperi a Robert Schumann a Konrad Adenauer — mostra senza alcuna possibilità di dubbio. L’Europa comunitaria è nata per scongiurare in modo definitivo il rischio della guerra tra gli Stati del continente, per esorcizzare una volta per tutte gli orrori delle guerre mondiali, dopo che per due volte in mezzo secolo il mondo intero era stato insanguinato per precipua responsabilità dell’Europa e delle sue classi dirigenti.
Il mercato comune ha costituito il banco di prova della vocazione all’unione dopo il naufragio del progetto costituzionale legato all’iniziativa della Comunità europea di difesa nel 1954. Un banco di prova rivelatosi straordinariamente fecondo di risultati concreti, se solo si considera che il Prodotto interno lordo pro capite si è quadruplicato in termini reali dal 1951 al 1992; che nello stesso arco di tempo i consumi privati si sono quintuplicati, mentre il prodotto reale per occupato nell’industria si è moltiplicato per otto. Il successo superiore ad ogni aspettativa del Mercato comune ha indotto anche paesi originariamente ostili all’idea dell’integrazione — in primo luogo la Gran Bretagna — a volere con ferma determinazione l’ingresso nella Comunità.
Sono le radici politiche e ideali cui si è accennato che spiegano la natura istituzionale e costituzionale della costruzione comunitaria, la sua struttura ben più articolata rispetto a quella ipotizzabile qualora lo scopo fosse soltanto di far meglio circolare le merci al servizio dei cittadini.
Tuttavia i fautori della vocazione federale dell’Europa di domani non prospettano un unico progetto costituzionale né una sola e coerente strategia: su questo terreno i punti di vista sono differenziati.
Sotto il profilo delle competenze da attribuire al livello europeo, vi sono i fautori di un’unificazione del continente analoga a quella avvenuta con la formazione degli Stati nazionali, o quanto meno simile a quella oggi attuata in Stati federali per così dire accentrati, quali gli Stati Uniti d’America. E vi sono i sostenitori di un nucleo di potere federale europeo ridotto al minimo indispensabile per realizzare efficacemente le politiche comunitarie, secondo il criterio della sussidiarietà che Maastricht ha per la prima volta sancito. Questa seconda posizione (che ritengo senz’altro preferibile alla prima) implica in ogni caso l’attribuzione al livello europeo di un volume di risorse superiore a quelle del bilancio comunitario odierno, e precisamente — se si accolgono le indicazioni dell’importante documento recente promosso dalla Commissione, noto come McDougall Secondo (Rapporto intitolato Stable Money, Sound Finances) — risorse complessive per il bilancio comunitario dell’ordine del 2% della somma dei PIL nazionali, a fronte di un bilancio comunitario attuale dell’ordine dell’1,2%. Sono quote assai modeste se confrontate con quelle proprie del bilancio di uno Stato nazionale. Ma esse sono coerenti con il criterio di sussidiarietà, che impone di affidare al livello europeo solo le iniziative che non possono, per le loro dimensioni o per i loro effetti, venire efficacemente intraprese al livello nazionale.
Sotto il profilo delle istituzioni e dei poteri dell’Unione europea, vi sono i fautori di un rafforzamento del ruolo del Consiglio dei Ministri comunitario, considerato il vero motore dell’evoluzione europea. E vi sono i sostenitori di un diverso e più equilibrato rapporto tra il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo. Si tratta di due strategie assai distanti tra loro nelle premesse come nelle conseguenze. La prima tesi si muove nell’ottica di un’Europa degli Stati, nella quale l’azione e la volontà politica promanano dagli Stati nazionali attraverso il canale dei loro uomini di governo: ed ecco allora le linee stabilite a Maastricht per la politica estera, la sicurezza, gli affari interni e di giustizia, ove tutte le decisioni spettano al solo Consiglio dei Ministri, che delibera all’unanimità. La seconda tesi si fonda invece su una concezione politico-costituzionale nella quale i poteri sono bilanciati, e nella quale la sovranità popolare espressa attraverso il voto può orientare le grandi scelte legislative del Parlamento europeo e può influire sull’azione del governo attraverso il voto di fiducia dato dallo stesso Parlamento europeo alla Commissione.
E’ appena il caso di osservare che solo questa seconda tesi risulta coerente con i postulati fondamentali delle moderne democrazie.
 
Principi costituzionali.
 
Se è vero che l’Europa comunitaria di oggi possiede sì una costituzione, sia pure embrionale e in parte implicita, è non meno vero che occorre a questo punto esplicitare il disegno costituzionale valido per l’avvenire.
Ciò può farsi attraverso la discussione e l’approvazione di una vera e propria costituzione europea. Oppure mediante l’introduzione di alcuni principi, aventi il valore di principi costituzionali. O ancora, mediante l’approvazione di alcune riforme relative ai poteri e alle procedure delle istituzioni comunitarie. La riforma delle istituzioni prevista del Trattato di Maastricht per il 1996 non potrà non affrontare questo nodo. In tutti e tre i casi, il Parlamento europeo dovrà svolgere un ruolo nel processo costituzionale europeo, insieme con i parlamenti nazionali, che assai utilmente potrebbero essere coinvolti attraverso lo strumento delle Assise, cioè con sessioni di loro membri rappresentativi, che lavorino insieme al Parlamento europeo nella prospettiva della riforma.
I principi fondamentali da accogliere dovrebbero essere i seguenti:
a) il principio della sovranità popolare al livello europeo. La sovranità deriva dal popolo attraverso l’elezione, e si trasmette al Parlamento per la funzione legislativa e alla Commissione votata dal Parlamento per l’azione di governo. Ciò comporta non soltanto il voto di fiducia del Parlamento alla Commissione prescritto dal fondamentale nuovo art. 158 § 2 del Trattato di Maastricht, ma il potere generale (e non solo parziale, come oggi si verifica) di codecisione legislativa per il Parlamento europeo;
b) il principio del bilanciamento dei poteri. Consiglio, Commissione, Parlamento, Corte di giustizia debbono esercitare funzioni fondamentalmente bilanciate, anche se non necessariamente distinte. Ciò comporta un diverso equilibrio dei poteri tra Consiglio, Parlamento e Commissione, e cioè un ridimensionamento dei poteri del Consiglio (che dovrà perdere il quasi monopolio della funzione legislativa e ridurre il suo potere di intervento nelle questioni di governo ex art. 145 del Trattato di Roma) ed un correlativo rafforzamento dei poteri del Parlamento (codecisione legislativa) e della Commissione (funzioni di governo e potere regolamentare);
c) il principio della cittadinanza europea. Ogni cittadino di uno degli Stati membri è anche cittadino europeo, con diritti che può far valere direttamente attraverso gli organi della Comunità-Unione. Le poche norme di Maastricht sulla cittadinanza vanno completate ed estese;
d) il principio di sussidiarietà. Al livello europeo viene esercitato solo un minimo di funzioni con un minimo di strumenti e di risorse, quando e dove i fini e gli obbiettivi non sono conseguibili ai livelli inferiori (Stato, regione, comune). Il Trattato di Maastricht ha introdotto questo fondamentale principio (artt. A e 3b), ma esso deve venire implementato, specificato, reso azionabile. Resta aperta la questione della sua valenza all’interno degli ordinamenti costituzionali dei singoli Stati, una questione non direttamente affrontabile in ambito europeo, per la quale ritengo preferibile che agli Stati membri venga lasciata libertà di scelta e di azione; sarà l’avvenire — sarà il confronto tra i diversi modelli di costituzione interna — a mostrare la convenienza e la preferibilità di alcuni modelli rispetto ad altri, pur nella giusta tutela delle specificità suggerite dalla tradizione e dalla storia dei singoli paesi;
e) il principio del mercato unico e della concorrenza. E’ all’origine e alla base dei Trattati di Roma, dell’Atto Unico e di Maastricht. La moneta unica ne è il corollario, indispensabile per il corretto funzionamento;
f) il principio di solidarietà. Completa il precedente, allo scopo di correggere distorsioni e iniquità derivanti dall’applicazione senza correttivi della «legge del più forte»; e ciò anche nell’interesse stesso del mercato. Già nel Trattato di Roma sono previsti interventi strutturali e congiunturali a sostegno delle regioni, degli Stati, dei gruppi con tenore di vita più basso di quello medio della Comunità. Ciò deve peraltro avvenire sempre in coerenza con il principio di sussidiarietà, e dunque in misura residuale rispetto agli interventi e alle politiche degli Stati, delle regioni e dei comuni. Il capitolo sulla coesione e quello sulla politica sociale del Trattato di Maastricht si iscrivono in tale prospettiva. Il Piano Delors contiene fondamentali indicazioni in vista di un incremento dell’occupazione nella direzione dello sviluppo delle nuove tecnologie avanzate. Lo sviluppo delle politiche di solidarietà richiede tra l’altro una serie di interventi strutturali in ordine alle dimensioni del bilancio comunitario, di cui si è detto.
Si noti che i principi qui espressi sono tutti, in varia misura, presenti nei Trattati e dunque fanno già parte della «costituzione» dell’Unione europea. E’ ormai necessario enunciarli in forma esplicita ove ciò non sia stato fatto e, soprattutto, realizzartne le implicazioni in modo coerente là dove ciò non sia avvenuto sinora.
 
Due riforme fondamentali.
 
Se si vuole che l’Unione europea raggiunga in tempi brevi un assetto costituzionale in linea con i principi enunciati e con gli obbiettivi di democrazia e di efficienza che tutti dicono di voler garantire, occorre utilizzare a questo fine la scadenza ormai prossima della Conferenza del 1996.
Le riforme essenziali di natura istituzionale possono a mio giudizio ridursi a due sole, cui se ne può aggiungere una terza di carattere procedurale. Esse sono state già illustrate in altre sedi, e mi limito perciò a richiamarle in breve.
La prima riforma dovrebbe consistere nel rendere generale il potere di codecisione del Parlamento europeo nelle deliberazioni di natura legislativa. Oggi tale potere concerne un certo numero di materie ma non altre, e coesistono le procedure del «parere conforme», della «cooperazione» (art. 189 c), della «codecisione» (art. 189 b), infine della semplice «consultazione» che riguarda molte tra le materie più importanti: oltre quaranta. La codecisione deve divenire la regola, perché un organo eletto a suffragio universale non può essere privato del potere di legiferare al livello europeo; nei limiti, beninteso, delle competenze dell’Unione europea.
Il concorso con l’organo che rappresenta gli Stati è senz’altro auspicabile, e per questo si deve trattare di codecisione. Ma non è in alcun modo difendibile il sistema attuale che affida ai soli ministri nazionali, in quasi tutte le materie più importanti di competenza dell’Unione, il sostanziale monopolio del potere legislativo comunitario. L’Europa, terra di fondazione delle moderne democrazie, non può essere la regione del mondo nella quale le leggi si fanno intorno a un tavolo, senza dibattito pubblico, senza collegamento con i rappresentanti eletti dal popolo. E’ una condizione tanto più grave e allarmante, se si pensa che oggi una gran parte della legislazione economica degli Stati europei consiste nella recezione a livello nazionale delle direttive comunitarie. Senza un ruolo di codecisione del Parlamento europeo in materia legislativa, il deficit democratico dell’Europa non sarà mai sanato.
Due precisazioni sono peraltro necessarie. In primo luogo, la legislazione di pertinenza del Parlamento europeo deve essere la legislazione maggiore e innovativa — le grandi scelte — mentre il potere regolamentare deve essere esercitato dalla Commissione per non sovraccaricare il Parlamento di compiti di normazione minuta e tecnica. In secondo luogo, la procedura di codecisione deve venir semplificata rispetto all’iter inutilmente tortuoso previsto dall’art. 189 b. Tra l’altro, per gli emendamenti del Parlamento europeo ci si deve accontentare della maggioranza dei voti validi, come avviene nella normale legislazione dei parlamenti nazionali, senza richiedere la maggioranza assoluta se non per decisioni di particolare rilievo.
La seconda riforma dovrebbe consistere nel rendere generale il principio delle decisioni a maggioranza in seno al Consiglio dei Ministri ed al Consiglio europeo. Il potere di veto deve essere abolito, perché contrasta ad un tempo con le esigenze dell’efficienza (in quanto comporta la paralisi in presenza anche di un solo Stato dissenziente) e con il principio dell’interesse comune che deve prevalere — nelle materie di competenza esclusiva dell’Unione — sugli interessi particolari. E il solo modo per accertare e per far prevalere l’interesse comune è quello di misurare l’aggregazione del consenso intorno a singole proposte e iniziative mediante il ricorso al sistema maggioritario. Oggi, come è noto, in oltre cinquanta materie, tutte tra le più rilevanti, il Consiglio non può decidere se non all’unanimità.
Il principio maggioritario dovrà operare, a seconda dell’importanza della materia, secondo il criterio della maggioranza semplice ovvero secondo quello della maggioranza qualificata. Può senz’altro essere opportuno adottare la procedura suggerita da molti osservatori, per la quale una proposta debba raccogliere ad un tempo il voto della maggioranza degli Stati membri e della maggioranza della popolazione dei popoli dell’Unione. Anche altri criteri di adozione di maggioranze qualificate possono venire applicati, non necessariamente incompatibili tra loro, mantenendo o riformando in parte, ad esempio, il sistema attuale del voto ponderato, così da non offrire vantaggi eccessivi agli Stati di minori dimensioni, pur senza giungere ad un criterio puramente proporzionalistico che li svantaggerebbe troppo. L’essenziale è che si affermi il principio che non v’è materia di competenza comunitaria che possa sottrarsi al metodo di decisione del voto a maggioranza.
 
Altre riforme istituzionali ed obbiettivi della costruzione europea.
 
Vi sono altre possibili riforme istituzionali delle quali si è discusso nella prospettiva della Conferenza intergovernativa: dalla riduzione del numero dei commissari all’allungamento della durata del periodo di presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio europeo, dal ruolo accresciuto del Parlamento europeo nella procedura di nomina del Presidente della Commissione alla designazione di quest’ultimo da parte del Consiglio con voto a maggioranza qualificata, dalla scelta dei commissari affidata direttamente al Presidente della Commissione alla diminuzione del numero dei parlamentari europei, dalla modifica della ponderazione del voto in seno al Consiglio all’istituzione di articolazioni territoriali della Commissione; ed altre ancora, ad esempio l’attribuzione alla Corte di giustizia di compiti di Corte costituzionale al livello europeo.
Molte tra tali riforme sono sicuramente importanti ed auspicabili; in particolare, quelle concernenti la procedura di nomina della Commissione. Altre — quali la durata pluriennale della presidenza del Consiglio, su designazione degli Stati membri — sono forse meno condivisibili, perché potrebbero alterare quello che a noi pare il corretto meccanismo costituzionale dell’Unione: deve essere chiaro che, in essa, il governo è costituito dalla Commissione e non dal Consiglio, il quale rappresenta gli Stati e costituisce, per così dire, una presidenza collegiale dell’Unione, all’interno della quale il criterio della rotazione può funzionare, come del resto già ora funziona non senza successo. In ogni caso, sembra di poter affermare che l’approvazione delle due riforme sopra citate è di gran lunga più importante rispetto alle altre appena citate.
L’adozione di queste due fondamentali riforme consentirebbe in effetti all’Unione europea di raggiungere un assetto costituzionale soddisfacente sul terreno dell’economia e della moneta (per quest’ultima, il programma di Unione monetaria del Trattato di Maastricht già prevede tutte le istituzioni e le regole adeguate ad un funzionamento efficace). Il circolo vitale costituito dal consenso popolare, dalla cornice normativa e dall’azione di governo sarebbe così realizzato. La struttura istituzionale e costituzionale dell’Unione europea avrebbe natura federale, indipendentemente dal ricorso esplicito a questo termine nel nuovo Trattato.
Non si deve dimenticare che il Trattato di Maastricht ha introdotto all’art. 158 §2 il principio del voto di fiducia del Parlamento europeo alla Commissione, necessario perché questa entri in carica: un principio che istituisce un rapporto organico tra il voto popolare al livello europeo (del quale il Parlamento è l’espressione) e il governo europeo (del quale la Commissione è la vera titolare). Questo legame istituzionale tra il Parlamento europeo e la Commissione (in particolare, il suo Presidente) dovrà essere sicuramente perfezionato in avvenire — ad esempio, sottoponendo al Parlamento una rosa di nomi, ovvero un nome votato dal Consiglio a maggioranza qualificata, o ancora invertendo l’ordine procedurale così da sottoporre al Consiglio nomi già vagliati dal Parlamento — perché il requisito della scelta unanime del Presidente della Commissione da parte del Consiglio europeo rende in concreto alquanto meno incisivo il ruolo del Parlamento europeo, che ben difficilmente potrà negare al designato il suo voto favorevole. Ciò nonostante, l’importanza dell’innovazione di Maastricht su questo punto è indiscutibile, se non altro al fine della messa a punto delle proposte programmatiche della Commissione e del suo Presidente al momento della nomina, proposte che non potranno non tenere conto degli orientamenti prevalenti all’interno del Parlamento, a loro volta espressione del voto popolare. Del resto, la recentissima vicenda della procedura di nomina della Commissione Santer mostra che il Parlamento intende esercitare il suo potere costituzionale sulla Commissione.
La sola alternativa coerente a tale impostazione — che lega la legittimazione democratica della Commissione al voto del Parlamento — sarebbe l’elezione a suffragio universale del Presidente della Commissione: una soluzione improponibile, a mio avviso, non fosse che per l’ostacolo linguistico. Le accuse di burocratismo rivolte alla Commissione — accuse peraltro fondate solo in parte — possono trovare una risposta efficace solo in questa prospettiva di collegamento costituzionale tra la Commissione e il Parlamento.
Appare evidente che la struttura sopra descritta, realizzabile con l’approvazione delle due fondamentali riforme di cui si è detto, dovrebbe venire estesa sin dal 1996 — sia pure con taluni adattamenti da studiare con cura attraverso una serie di tappe intermedie — anche ai settori nuovi della politica estera, della sicurezza, degli affari interni e della giustizia. Essi sono disciplinati, nel Trattato di Maastricht, attraverso meccanismi di semplice cooperazione intergovernativa, con i quali non si potrà certo andare molto lontano: come le vicende della politica europea sulla Bosnia hanno chiaramente dimostrato. In una fase storica nella quale il risveglio dei nazionalismi e dei micronazionalismi etnici costituisce una realtà densa di pericoli gravissimi, è evidente l’urgenza per l’Europa di definire linee politiche comuni. Sarà necessario istituire anche in questi settori — pur nei limiti del principio di sussidiarietà, che comporta un intervento al livello europeo soltanto per talune materie e iniziative, senza sottrarre agli Stati le loro normali competenze in politica estera e nella difesa — un vero governo dell’Unione.
Occorre dunque un Consiglio in grado di deliberare sempre e comunque a maggioranza, semplice o qualificata. Ed occorre un Parlamento con poteri deliberanti e di indirizzo (e non semplicemente un ozioso forum di discussione, come oggi troppo spesso accade a Strasburgo, ove parlamentari senza poteri reali votano mozioni su temi stravaganti, che spesso neppure rientrano nelle competenze comunitarie). I principi della democrazia e le esigenze dell’efficienza e dell’efficacia sono gli stessi in ogni campo: nell’economia come nella politica estera, nella difesa come nella lotta alla criminalità.
Una ulteriore riforma che sembra ineludibile ha diversa natura: essa concerne la procedura di revisione dei Trattati comunitari. Il requisito della ratifica unanime, previsto dall’art. 236 (ora divenuto l’art. N) si è rivelato troppo oneroso e paralizzante: si pensi al danno immenso causato all’economia dei Dodici dal primo no danese nel referendum del 2 giugno 1992. Sarà necessario prevedere che le innovazioni future possano entrare in vigore — quanto meno tra gli Stati membri che le abbiano ratificate — quando il numero delle ratifiche raggiunga una determinata soglia, ad esempio i quattro quinti degli Stati membri e delle popolazioni dell’Unione.
E’ bene avere ben chiaro che la realizzazione delle due riforme di cui si è detto sopra (per non dire della terza, appena citata, riguardante le future modifiche dei Trattati) esigerà da parte dei governi l’adozione di scelte in certo senso contro natura, in quanto esse implicano l’accettazione di un ruolo ridimensionato dei governi stessi nell’architettura istituzionale della futura Unione europea. Per vincere la forza inerziale che protegge il sistema delle istituzioni comunitarie previsto dai Trattati si richiede, nei governi che avranno la responsabilità di pilotare la riforma, un insieme di doti di idealismo e di realismo non facili a trovarsi congiunte. Ma ciò non sarà comunque sufficiente: l’esperienza ha insegnato che la costruzione europea progredisce quando anche l’opinione pubblica da un lato e gli operatori economici dall’altro fanno sentire la loro voce. Inoltre, la spinta che potrà venire dal Parlamento europeo — che non sembra purtroppo ancora consapevole del suo enorme potenziale di forza rappresentativa e di spinta politica — sarà elemento essenziale di una battaglia ancora tutta da combattere. Gli avversari dell’Europa unita sono sempre stati e sono ancora numerosi e potenti.
Sia consentito rilevare che una gran parte degli argomenti che costoro adducono sono pienamente condivisibili, ma portano, a ben vedere, a conclusioni opposte a quelle di chi li formula. Fine della costruzione europea non è affatto l’eliminazione delle diversità e delle specificità nazionali e regionali, che sono anzi la maggiore ricchezza della storia d’Europa. Al contrario, solo una struttura federale ispirata al principio di sussidiarietà tutela davvero le specificità culturali e linguistiche delle diverse nazioni, nonché le identità regionali e municipali in ciò che hanno di legittimo e di irripetibile. A questo riguardo molto resta da fare perché si giunga un giorno a istituzioni che tutelino efficacemente, all’interno dei singoli ordinamenti — senza alimentare le tendenze alla formazione di nuovi Stati — le specificità culturali ed etniche delle diverse fasce delle popolazioni. Al contrario, il mantenimento degli Stati nazionali «sovrani» (almeno di nome, perché di fatto già non lo sono più da tempo) soffoca le autonomie e si traduce nell’egemonia e nel predominio dello Stato o degli Stati più forti sui più deboli. Una costituzione genuinamente federale è la miglior garanzia per la sopravvivenza delle varie nazioni.
I cinque livelli territoriali — municipio, regione, Stato nazionale, Stato federale continentale, pianeta —hanno ciascuno la sua giustificazione e la sua funzione, e il cittadino di domani sarà in pari tempo, senza contraddizioni, cittadino della propria città, della propria regione, del proprio Stato nazionale, della Federazione europea, del mondo intero nelle istituzioni sovranazionali mondiali. Il federalismo è la dottrina delle plurime e compatibili lealtà.
In questa prospettiva, la Federazione europea sarà qualcosa di nuovo e diverso rispetto alle federazioni oggi esistenti, ed anche rispetto a quelle del passato (ivi compreso l’impero medievale cristiano, che pure costituisce per certi aspetti un modello di attualità sorprendente). In effetti, mai prima d’ora nella storia nazioni con storie e culture così varie e originali avevano tentato con successo l’impresa di unirsi pacificamente in un organismo politico superiore.
 
Fautori e avversari delle riforme: la strategia delle due cerchie.
 
Se queste sono le riforme essenziali al completamento della costruzione europea sotto il profilo istituzionale, è naturale chiedersi quale sia la strategia più adeguata per poter giungere alla loro realizzazione.
Gli obbiettivi che abbiamo delineati con rapidi tratti sono per così dire iscritti nel tracciato originario e nella razionale concezione del progetto di unione del nostro continente, ma il loro conseguimento non è per nulla scontato. La storia non è il regno della necessità, né conosce solo le vittorie della razionalità e della coerenza, ma anche (e quanto spesso) le loro sconfitte. Occorre chiedersi perciò quali possano essere le vie da percorrere per rendere più agevole il completamento del disegno di unione.
La Conferenza intergovernativa del 1996 potrà costituire al riguardo il momento della verità. Il nodo del ruolo legislativo del Parlamento europeo non potrà venire eluso. E così pure il nodo del superamento del diritto di veto in seno al Consiglio dei Ministri. Vi saranno governi favorevoli alla prima riforma, governi (verosimilmente in minor numero) favorevoli alla seconda riforma, e governi contrari ad entrambe. E’ possibile che i primi convincano gli altri in tutto o in parte, ovvero che l’accordo non si trovi. Che fare in questa eventualità?
Del peso esercitabile dall’opinione pubblica si è già fatto cenno. Occorre sottolineare che il favore popolare per la prospettiva europea non è per nulla smentito dalle presunte ondate di europessimismo che certi sondaggi sembrano accreditare. E questo per tre ordini di ragioni: anzitutto perché una parte non trascurabile delle risposte negative è il frutto della delusione rispetto a ciò che l’Europa avrebbe potuto fare e non ha fatto, ad esempio in politica estera, ed è dunque la conseguenza di una richiesta frustrata di «più Europa» e non del contrario; in secondo luogo, perché un’altra parte delle opinioni negative nasce da quella insufficiente legittimazione democratica delle politiche e delle istituzioni comunitarie — che si traduce in eccessi di burocrazia, giustamente impopolari — sulla quale abbiamo già richiamato l’attenzione, indicandone anche i possibili rimedi, che sono semplici e radicali; infine, perché un’altra parte delle tesi europessimistiche si fonda sull’opposizione radicale ad una concezione di segno centralistico tendente alla creazione di un superstato europeo in spregio alla sussidiarietà e al rispetto delle culture nazionali: una concezione — troppo spesso artatamente attribuita ai fautori dell’Unione — che poté forse far parte dell’attrezzatura mentale e culturale di taluni europeisti degli anni Cinquanta e Sessanta, ma che non è stata mai condivisa da alcun federalista coerente. E tanto meno lo è oggi. Al contrario, proprio il progetto di Unione federale costituisce la garanzia di tutela delle specificità nazionali, regionali e locali, che sono una tra le massime ricchezze della civiltà dell’Europa. Se si tolgono, come è giusto, queste tre componenti dal monte delle opinioni cosiddette «euroscettiche», non molto rimane di opinione genuinamente antieuropeistica.
Restano le differenze di posizione tra alcuni governi e gli altri, riguardo agli sviluppi costituzionali futuri dell’Unione europea. Come procedere nel caso probabile di impasse sui punti qualificanti della riforma istituzionale? Come, in particolare, superare l’opposizione inglese e danese (ed eventualmente di altri, forse di alcuni tra gli Stati appena entrati a far parte dell’Unione) ai progressi dell’Europa verso la federazione?
Sarà naturalmente necessario tentare di trovar l’accordo sulle linee di evoluzione sopra accennate, con tutte le opportune garanzie di gradualità. Ma potrà accadere che alcuni Stati membri non siano comunque disponibili ad avanzare sulla via dell’unione federale. In tale caso, l’ipotesi ripetutamente prospettata in questi anni di un «nucleo duro» di paesi pronti a procedere diventerà concreta. Un nucleo composto almeno da Francia, Germania, Benelux, e sperabilmente anche dall’Italia.
Per l’Italia l’affievolimento della spinta verso l’Unione europea sarebbe un’autentica sciagura economica, politica e civile, il maggior errore mai commesso da un governo nazionale dal dopoguerra in poi. Il contributo di idee e di iniziative italiane alla costruzione europea è stato in più momenti decisivo, nonostante i limiti e le carenze ben note della struttura politica e amministrativa. Questo contributo non deve venir meno, non fosse che per la ragione — ma ve ne sono altre — che nel 1989 un referendum popolare lo ha esplicitamente sostenuto con l’88% dei voti in favore di una costituzione europea da elaborarsi da parte del Parlamento europeo.
La prospettiva di un nucleo di Stati che avanzi verso la federazione è una prospettiva reale. Essa deve venire appoggiata da chi ha in vista l’obbiettivo finale, perché è probabilmente il solo modo per giungervi. D’altronde, già per l’Unione monetaria, per la politica sociale e per altri obbiettivi, questa si è rivelata la procedura idonea.
Si apre a questo punto una questione grave sotto il profilo politico e sotto quello giuridico. Se tra gli Stati pronti a procedere e gli altri vi sarà, per così dire, un accordo sul disaccordo — nel senso che i secondi consentano ai primi di adottare le nuove regole costituzionali, purché esse non si applichino a chi non le ha accettate: analogamente a quanto Maastricht ha previsto per l’Unione monetaria e per la politica sociale — il problema della riforma potrà essere affrontato nel quadro della normativa esistente, in base all’art. 236 (N) dei Trattati, dunque con l’approvazione unanime degli Stati membri. Ma allora dovrà essere affrontata e risolta la questione delicatissima dei rapporti giuridici tra le regole attuali in vigore all’interno dell’Unione europea (UE) e le regole in parte nuove accolte dagli Stati aderenti all’Unione federale europea (UFE). Occorre avere ben chiaro che i nodi da sciogliere saranno comunque molti e ardui in questa prospettiva, dal momento che l’introduzione di regole come la codecisione legislativa generalizzata del Parlamento europeo e l’estensione del principio maggioritario non potranno non applicarsi anche alle materie già previste dai Trattati, sicché il problema della coesistenza delle nuove procedure con le vecchie sarà comunque di assai difficile soluzione. «Di chi» sarebbero la Commissione e le strutture comuni? «Per chi» lavorerebbero? Regole di compatibilità tra UE e UFE potrebbero venire elaborate, ma i problemi da risolvere sarebbero tutt’altro che semplici.
Il medesimo problema si porrà in modo ancora più drastico nel caso in cui l’accordo sul disaccordo non vi sia. Se alcuni Stati non vorranno a nessun costo modificare le regole costituzionali dell’Unione nel senso voluto dai più, non resterà agli altri Stati se non la scelta tra rassegnarsi a conservare lo status quo adottando al più qualche riforma minore, ovvero reagire dando vita a un nuovo Trattato concluso soltanto tra di loro, anche se naturalmente sempre aperto agli altri. L’adozione di un nuovo Trattato che incorpori l’intero acquis communautaire e introduca in pari tempo le regole istituzionali nuove comporterebbe la misura drastica della denuncia (implicita o esplicita) dei Trattati esistenti da parte degli Stati del «nucleo duro». Sarebbe questa l’extrema ratio. Si potrà giungere sino alla rottura ed alla rifondazione dell’Unione «per chi ci sta». Con gli altri Stati, potranno in tal caso venir conclusi accordi specifici di semplice associazione.
La prospettiva ora delineata può sembrare eccessivamente drammatica. Forse essa è in parte irrealistica; ma va comunque considerata con attenzione, se non si vuole affidare la sorte di un progetto di rilievo mondiale e storico, quale è quello dell’Unione europea, al beneplacito di uno solo o di alcuni tra gli Stati membri: un ministro, un governo, poche decine di migliaia di cittadini di un singolo Stato «euroscettico» deciderebbero sul futuro di 380 milioni di cittadini europei.
Ciò non deve avvenire. Deve essere chiaro che l’ingresso nella Comunità-Unione attuale da parte degli Stati che hanno liberamente deciso di farne parte implica senza dubbio già ora l’accettazione di talune regole che hanno natura federale; ed implica il superamento del principio della sovranità illimitata dello Stato-nazione. Il primato del diritto europeo sui diritti nazionali è, nelle materie di competenza esclusiva dell’Unione, già ora un dato incontrovertibile e incontroverso. Resta peraltro innegabile che nessuno può imporre ad uno Stato nazionale di entrare a far parte della futura Federazione europea, né di accettare le linee della futura Costituzione europea. Ma nessuno Stato può impedire agli altri di realizzarla.
 
I paesi dell’Europa centro-orientale.
 
La realtà ormai irreversibile dell’allargamento impone, infine, un ordine ulteriore di riflessioni. E’ evidente che i paesi del Nord, del Centro e dell’Est europeo sono parte irrinunciabile dell’eredità storica del nostro continente, sono «Europa» a tutti gli effetti. Se tali paesi desidereranno — come sicuramente accadrà — entrare nell’Unione, non potranno che essere accolti senza esitazione.
Due aspetti vanno però sottolineati. Il primo riguarda i tempi, il secondo i modi della loro partecipazione all’Unione europea.
Per gli Stati dell’Est, usciti dall’esperienza del socialismo reale, le trasformazioni dell’apparato economico preliminari al loro ingresso nella Comunità economica non potranno non richiedere tempi lunghi e complicati processi di riconversione al mercato. Poiché un’attesa di anni pregiudicherebbe forse irreversibilmente la prospettiva dell’ingresso in Europa e la fisionomia della futura Unione, che ha bisogno sin d’ora dell’apporto di tutti, sarebbe politicamente e storicamente importantissimo affermare il principio di un ingresso a breve termine degli Stati medesimi nell’Unione europea. Nei settori della politica estera e degli affari interni, oltre che in taluni settori dell’economia, la partecipazione dei nuovi Stati membri potrebbe essere piena sin dall’inizio; negli altri settori economici e monetari, essi parteciperebbero per un periodo tranitorio anche prolungato in qualità di semplici osservatori.
Quanto ai modi, essi si legano necessariamente al processo di revisione delle istituzioni comunitarie del 1996. I tre Stati membri testé entrati nell’Unione europea — Austria, Finlandia e Svezia — parteciperanno con i Dodici alla Conferenza intergovernativa. Si porrà dunque per essi l’alternativa se far parte o meno del «nucleo duro», ove tale prospettiva venga a maturazione nei termini ora considerati. Quanto agli altri Stati che si preparano a chiedere l’ammissione all’Unione, i tempi dell’apertura della trattativa coincideranno verosimilmente con quelli nei quali diverrà chiaro se l’Unione procederà a due velocità — o meglio, si disporrà in due cerchi concentrici, quello dell’UFE e quello dell’UE — ovvero resterà ferma all’assetto istituzionale di oggi, pur con talune marginali modifiche. Nel primo caso, gli Stati dell’Est dovranno scegliere in quale cerchia chiedere di entrare.
 
Conclusione.
 
Quale costituzione per l’Europa? L’alternativa che si pone oggi — e che dovrà essere affrontata nel futuro prossimo, in occasione della Conferenza intergovernativa del 1996 — è tra conservazione e progresso: tra il mantenere l’assetto istituzionale attuale, con le carenze di democrazia, di funzionalità e di efficienza sulle quali si è richiamata l’attenzione — carenze che l’ingresso di nuovi Stati nell’Unione senza dubbio accentuerebbe ulteriormente — ovvero modificare, anche solo con pochi tratti decisivi, le regole istituzionali così da realizzare un assetto, ad un tempo, più democratico e più efficiente.
Se su questa seconda prospettiva si formerà l’accordo di una larga maggioranza degli Stati membri, ma non di tutti, occorrerà sciogliere il nodo dei rapporti tra i primi e i secondi. Occorrerà cioè individuare una serie di regole di coesistenza che consentano ai primi di avanzare verso l’Unione di tipo federale — con tutti i corollari che si sono visti, nella direzione del minimo governo e della sussidiarietà — ed ai secondi di non venire espulsi dal mercato unico.
Si deve tenere ben presente che l’alternativa di cui si è detto non è tra due o più soluzioni tecnicamente diverse, ma tra due visioni politiche ed ideali. Da un lato, l’obbiettivo del mantenimento dello Stato-nazione pur con le limitazioni rese necessarie dal mercato unico. Dall’altro lato, l’obbiettivo del superamento dello Stato-nazione in una prospettiva federale, che preservi sì l’autonomia degli Stati nazionali ma nel quadro di un nuovo soggetto collettivo dotato di proprie competenze esclusive e concorrenti, di proprie istituzioni democratiche, di una propria legittimazione ideale, storica e politica: l’Europa.
Molto presto, la scelta tra queste due prospettive dovrà venire affrontata con chiarezza. E con chiarezza dovrà venir proposta ai cittadini europei, perché essi possano pronunciarsi al riguardo. E’ compito di tutte le forze vive della cultura europea di discutere a fondo le implicazioni del processo di unificazione in corso nel nostro continente, perché dal suo esito dipende non solo il destino futuro dell’Europa, ma quello dell’intero pianeta.


* Si tratta del testo rielaborato di una relazione tenuta al Convegno sull’Europa presso la Fondazione Paolo VI di Villa Cagnola, Gazzada (VA) il 23 maggio 1994.

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