IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXV, 1993, Numero 2, Pagina 59

 

 

L’Europa e la crisi jugoslava
 
 
Oggi non esistono purtroppo ricette miracolose che consentano di porre fine in tempi brevi e in modo definitivo all’atroce vicenda che si sta svolgendo nella ex-Jugoslavia. Ma non per questo è meno importante tentare di identificare le situazioni e gli errori che hanno provocato la guerra civile e di tracciare le grandi linee di un disegno capace di far rinascere la speranza e di mobilitare energie per il ristabilimento della pace e della rifondazione della convivenza civile nella regione: un disegno che è mancato fino ad ora ai governi europei, alla Comunità nel suo insieme e alle Nazioni Unite.
La tragedia jugoslava è un episodio, particolarmente barbaro e sanguinoso, del confronto che costituisce la grande alternativa storica del nostro tempo: quello tra nazionalismo e federalismo. Ed è stata proprio l’incapacità dei governi degli Stati membri della Comunità europea e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di interpretare in questa chiave le vicende jugoslave che li ha privati di qualunque criterio che consentisse loro di comprendere ciò che stava accadendo e di fare una politica in grado di impedire lo scoppio della guerra.
 
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Dopo la morte di Tito, la Federazione jugoslava si era progressivamente indebolita. La prassi dell’unanimità nelle più importanti decisioni del Consiglio delle Repubbliche e delle Province (peraltro sancita dall’art. 286 della Costituzione) aveva dato un carattere sempre più marcatamente confederale alla sua struttura istituzionale. La stessa Lega dei Comunisti, che aveva costituito nella fase precedente il vero legame che teneva unito lo Stato, si era trasformata in una confederazione di partiti regionali sensibili alle sollecitazioni nazionalistiche, e quindi sostanzialmente incapace di decidere e di aggregare consensi in una dimensione jugoslava. Il nazionalismo si era fatto strada nelle repubbliche e nelle province, manifestandosi in un modo particolarmente acuto, in una prima fase, nel conflitto tra Serbia e Kosovo e nelle spinte separatistiche della Slovenia. La situazione era inoltre aggravata da due fattori: la polarizzazione tra le repubbliche prospere del Nord-Ovest e quelle meno sviluppate o decisamente povere del centro e del sud e il fondamento religioso delle diverse identificazioni etniche. Infine la vecchia classe politica, legata all’idea dell’unità jugoslava, veniva progressivamente spodestata da una nuova generazione che vedeva nel nazionalismo lo strumento più efficace per mobilitare il consenso e per aumentare il proprio potere.
Questa tendenza si era indubbiamente accentuata nel corso degli anni Ottanta a causa di una grave crisi economica e della perdita da parte della Federazione del prestigio internazionale di cui essa aveva goduto nel periodo precedente come uno dei principali leaders del gruppo dei paesi non allineati.
 
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Ma questo non era che un aspetto della Jugoslavia del dopo-Tito. In realtà nella Jugoslavia degli anni Ottanta erano ancora attivi importanti fattori di aggregazione. Esisteva un mercato interno, che assorbiva la maggior parte della produzione del sistema industriale jugoslavo. Esisteva in larghe fasce della popolazione, in parte della classe politica e di quella intellettuale, un lealismo jugoslavo, che si affiancava senza conflitti a quello per le singole etnie (non si deve dimenticare del resto che il nazionalismo aveva fatto la sua comparsa in questa parte dell’Europa alla fine dell’Ottocento nella forma di nazionalismo serbo-croato). La mescolanza delle popolazioni, accentuata dalle migrazioni interne, aveva creato forme di convivenza pacifica e tollerante, che avevano la loro espressione simbolica in Sarajevo, dove ancor oggi uomini e donne «etnicamente» serbi, croati e musulmani lottano fianco a fianco contro la barbarie della pulizia etnica. I matrimoni misti erano comuni (47% a Sarajevo secondo i più recenti dati statistici disponibili), e da essi nascevano figli che sentivano e sentono tuttora come propria unica identità quella jugoslava. Del resto se non fosse esistito in larghi strati della popolazione un forte lealismo jugoslavo, gli attuali regimi nazionalisti di Serbia e Croazia non avrebbero avuto bisogno, per tentare di rendere accettabili le loro politiche all’opinione pubblica, di procedere a quelle radicali purghe nei mass media delle quali oggi si comincia a venire a conoscenza. Non si deve dimenticare infine che in Jugoslavia la democratizzazione, l’apertura all’Occidente e l’interesse per la Comunità erano, prima che la crisi precipitasse, di gran lunga più avanzati e intensi che in qualunque altro paese dell’Est europeo.
 
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Quando ebbe inizio il processo di sfaldamento dei regimi comunisti, il destino della Jugoslavia non poteva quindi considerarsi segnato. Esso sarebbe dipeso in molta parte dall’evoluzione del contesto internazionale, e in particolare dall’atteggiamento dei paesi della Comunità. Se questi lo avessero capito, e avessero condotto una chiara politica di stretta associazione della Jugoslavia alla Comunità in vista di una sua futura adesione, subordinata alla precisa condizione che il paese avanzasse sulla strada della democratizzazione e mantenesse l’unità del quadro statale, la secessione slovena, che è stata all’origine della guerra civile, e che è stata motivata dal desiderio della più ricca delle repubbliche di avvicinarsi in tempi brevi all’Europa senza la zavorra costituita dal legame con il resto della federazione, sarebbe stata scoraggiata, e le forze dell’unità e della democrazia sarebbero prevalse su quelle della divisione, del fascismo e del nazional-comunismo.
Ma la Comunità non poteva tenere un atteggiamento deciso e coerente nei confronti della Jugoslavia perché non esisteva come soggetto politico. Ognuno dei suoi Stati membri ha fatto la sua politica estera, appoggiando l’una o l’altra delle repubbliche, e alimentandone così il nazionalismo, in funzione dei propri effettivi o supposti interessi e facendo salire la tensione tra di esse. Né la Comunità avrebbe comunque avuto l’autorità per imporre al di fuori dei propri confini un modello di Stato federale plurinazionale che essa non si è fino ad oggi dimostrata capace di realizzare al proprio interno. La verità è che, nell’attuale contesto confederale, gli Stati membri continuano a fondare la propria ormai evanescente legittimità sul principio nazionale. I loro governi si sono quindi visti costretti a riconoscere la legittimità delle repubbliche secessioniste, che si richiamavano all’idea di nazione per giustificare la propria pretesa di ottenere la sovranità. Essi si sono così lasciati prendere nella trappola del cosiddetto diritto dei popoli all’autodeterminazione, un principio che, in quanto giustifica qualsiasi pretesa secessionistica, è nefasto in ogni contesto storico-sociale, ma che è diventato devastante in una regione come la Jugoslavia, caratterizzata da un groviglio etnico inestricabile. Riconoscendo quindi acriticamente che la Jugoslavia poteva essere legittimamente smembrata in forza dell’affermazione del principio della coincidenza tra Stato e nazione, essi hanno dato implicitamente il loro avallo alla pratica bestiale della pulizia etnica che ora condannano (pur prendendone «realisticamente» atto).
 
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Vale la pena di ricordare che i governi della Comunità, in nome della Realpolitik, hanno evocato uno spettro che rischia di mettere in pericolo la loro stessa stabilità. Oggi gli Stati nazionali, superati dalla storia perché incapaci di dare una risposta alla domanda di pace, di partecipazione democratica e di giustizia dei loro cittadini, sono in crisi irreversibile. L’idea di nazione ha da tempo cessato di essere l’espressione di una spinta all’allargamento dell’orbita dello Stato e all’abbattimento delle residue barriere lasciate in eredità all’Europa dall’epoca feudale, e quindi alla promozione dell’emancipazione umana. Ma, non essendo stata sostituita da un principio più avanzato di legittimazione del potere, essa è rimasta annidata nella coscienza collettiva come principio di legittimazione del tribalismo, della violenza e della disgregazione. Gli Stati dell’Europa occidentale non sono immuni da queste infezioni, e i più deboli tra di essi vengono già a loro volta messi in questione dall’insorgere di nuove «nazioni» di dimensione regionale. La loro politica cinica e miope nei confronti della tragedia jugoslava si rivolge così contro di essi.
 
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La guerra civile nella ex-Jugoslavia cesserà quando gli odi tribali che l’alimentano si saranno placati e quando una classe politica del tutto nuova avrà sostituito le bande di assassini e le cricche di profittatori che oggi dominano la scena. Nessuno schema di riorganizzazione della Bosnia e nessun intervento militare esterno potrà mai realizzare questo obiettivo in assenza di un disegno politico di largo respiro. Ciò non significa certo che l’intervento dei Caschi blu per proteggere popolazioni minacciate di distruzione, o gli sforzi spesso eroici di innumerevoli gruppi di volontari per alleviare le sofferenze dei civili attraverso la fornitura di aiuti umanitari, non meritino il più profondo rispetto. Né che la stanchezza, o il calcolo delle parti in conflitto, o gli sforzi della diplomazia internazionale non possano concedere a questa martoriata regione fasi più o meno lunghe di tregua. Ma un nuovo assetto politico stabile, che consenta il riavvio di una pacifica convivenza tra le popolazioni slave del Sud e la ripresa del loro sviluppo economico e civile in un clima di fiducia rimane un obiettivo lontano e arduo da raggiungere. L’anarchia porta al potere i ribaldi e corrompe i deboli. Essa cristallizza interessi e crea situazioni di potere che, seppure in un contesto di confusione e di instabilità, hanno una propria inerzia che è difficile superare.
Resta il fatto che l’ex-Jugoslavia è parte integrante del contesto europeo, e che quindi un nuovo equilibrio, pacifico ed evolutivo, potrà essere faticosamente conseguito soltanto se in Europa la spinta verso l’unità prevarrà su quella verso la divisione. Si tratta di una responsabilità che incombe in particolare alla Comunità europea e agli Stati che la compongono, perché la Comunità è oggi il soggetto al quale si presenta l’occasione storica di dare una prima realizzazione al federalismo come formula per l’organizzazione dei rapporti tra i popoli sulla base del diritto e della democrazia. Soltanto la nascita di un forte polo federale in Europa occidentale darebbe all’Unione europea la capacità d’azione e il prestigio morale necessari per vincere la difficile battaglia contro il nazionalismo nel resto del continente e in particolare nella ex-Jugoslavia e per imporvi un nuovo modello di convivenza basato sull’unità nella diversità.
 
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La vicenda jugoslava non è ancora conclusa. L’unità del paese è andata distrutta, ma la sua divisione non è ancora stata consumata. Il dramma della Bosnia è il simbolo di quello più vasto di un paese che non riesce né a mantenere la propria unità né a dividersi in modo chiaro e definitivo. L’esistenza ai confini di quella che è stata la Jugoslavia di una Federazione europea forte ed aperta ridarebbe fiato e vigore a quella parte della sua popolazione e della sua classe intellettuale che ha condannato fin dall’inizio la spartizione del paese e che continua ad attribuire la responsabilità della sua rovina non al «nemico», ma al nazionalismo in quanto tale. Si tratta di uomini e donne il cui numero è impossibile quantificare perché essi sono ridotti al silenzio dal fragore della guerra e dalle persecuzioni di cui sono oggetto, ma che sono senz’altro assai più numerosi di quanto normalmente si creda, e soprattutto costituiscono la parte migliore del popolo jugoslavo. I federalisti devono aiutare questi uomini e queste donne a non sentirsi soli, fare in modo che essi sappiano che la loro condanna del nazionalismo e la loro speranza di superarlo sono condivisi da qualcuno, che esiste qualcuno che lotta per un progetto nel quale essi si possono riconoscere.
Questo progetto è quello dell’ingresso nella Federazione europea (in uno o più stadi) di una Jugoslavia democratica che abbia ristabilito (o nella quale comunque esistano consistenti spinte a ristabilire) l’unità del paese in forme federali. Vero è che si tratta di un progetto che oggi appare improbabile. Ma spesso nel passato le più feroci esplosioni di odio sono state seguite, per lo stesso orrore che hanno suscitato in coloro che le hanno vissute, da forti spinte all’unità. In ogni caso il fatto che un progetto appaia improbabile non può e non deve impedirci di dire e ripetere che esso costituisce la sola vera soluzione del problema.
Resta il fatto che si tratta comunque di un progetto che può essere posto unicamente nel quadro dell’unificazione federale dell’Europa, e che questa è la scommessa storica decisiva che si tratta di vincere. Fino a che l’Europa sarà divisa la pace in Jugoslavia rimarrà un sogno.
 
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