IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XVII, 1975, Numero 1, Pagina 49

 

 

LA CONFERENZA SULL’EMIGRAZIONE
 
 
Si è svolta, dal 24 febbraio al I marzo scorso, a Roma, una conferenza sull’emigrazione che ha visto raccolti rappresentanti dei lavoratori emigrati, sindacalisti, uomini politici, esponenti governo e delle regioni.
Il primo dato da prendere in considerazione a proposito questa conferenza è il fatto, a prima vista paradossale, che una simile iniziativa sia stata presa per la prima volta solo oggi, quando l’emigrazione è da più di un secolo una delle piaghe più gravi della società italiana. Il fatto è che spesso si prende coscienza dell’esistenza di un problema e lo si affronta non quando risulta più drammatico, ma quando appare la possibilità di risolverlo.
Nel nostro paese, in passato, il fenomeno dell’emigrazione avuto dimensioni imponenti e si è spesso realizzato in condizioni talmente disagiate da apparire disumano. L’emigrazione tuttavia è sempre stata considerata come una piaga inevitabile, e ad essa ci si è rassegnati.
In effetti, questo atteggiamento corrispondeva ad un dato strutturale, cioè al fatto che all’interno del quadro italiano il problema dell’emigrazione non poteva trovare soluzione se non al prezzo di rinunciare all’obbiettivo del massimo sviluppo e della industrializzazione del sistema economico. Giunta in ritardo alla soglia della rivoluzione industriale, l’Italia ha dovuto concentrare tutte le proprie energie nel tentativo di costruire le industrie di base, necessarie per il decollo economico. Ciò ha comportato la necessità di favorire gli insediamenti industriali nel Nord-Italia e le industrie nascenti con politiche protezionistiche. In questo quadro l’agricoltura e con essa in particolare il Meridione sono stati chiamati a finanziare lo sviluppo del Nord. Il prezzo pagato dall’Italia per superare il ritardo storico che la divideva dai paesi industrializzati più moderni è stato lo sviluppo dualistico della economia e della società. Ai lavoratori delle regioni meno sviluppate non era lasciata altra scelta che emigrare in cerca di lavoro.
In questo dopoguerra, la scelta di mercato aperto compiuta dall’Italia ha contribuito ad aggravare il problema dell’emigrazione. La partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea, se da un lato ha permesso una espansione economica e un progresso sociale altrimenti inimmaginabili, dall’altro lato ha approfondito le distorsioni del nostro sistema produttivo e dell’assetto territoriale. Lo stimolo della concorrenza internazionale ha contribuito allo sviluppo delle industrie più competitive e degli agglomerati industriali del Nord-Italia, mentre ha avuto effetti molto minori sulle industrie orientate al mercato interno e ha interessato solo marginalmente il Sud.
Il crescente grado di «apertura» dell’economia italiana ha inoltre tolto efficacia agli interventi di politica economica volti a garantire uno sviluppo equilibrato del sistema economico. L’avvio — avvenuto con la formazione del centro-sinistra all’inizio degli anni ‘60 — dei primi tentativi di realizzare una politica meridionalistica e delle riforme, che rappresentavano una premessa essenziale per risolvere il problema della emigrazione, si è scontrato immediatamente con la necessità di garantire l’equilibrio dei conti con l’estero. In sostanza, l’Italia dal 1963 ha fatto diretta esperienza della politica di «stop and go» che ha frenato ogni tentativo di espansione economica stabile e ha reso sterili i progetti di riforma.
Il fatto è che l’impossibilità di trovare all’interno del quadro italiano una soluzione alla piaga dell’emigrazione è andata accentuandosi parallelamente al progresso dell’integrazione europea. In un’area integrata ove è garantita la libera circolazione dei beni, dei servizi e dei fattori della produzione, i capitali tendono a indirizzarsi verso le aree in cui trovano gli impieghi con più elevato rendimento; parimenti la manodopera tende a trasferirsi verso le regioni più ricche e con maggiore tasso di sviluppo, che offrono migliori possibilità di lavoro. Ciò significa, in altri termini, che in un sistema economico integrato e privo di un quadro istituzionale in grado di garantire la formazione di una volontà pubblica, quale è la C.E.E., il divario fra regioni ricche e regioni povere tende ad approfondirsi; questa tendenza può essere eliminata solo attraverso una coerente politica regionale a livello europeo.
La novità storica di fronte a cui oggi ci troviamo, è costituita dal fatto che per la prima volta è possibile progettare la realizzazione, a medio termine, di una politica regionale europea. Ciò è conseguenza dell’impegno assunto dai Capi di Stato e di governo, riuniti a Parigi nel dicembre scorso, di procedere lungo la strada dell’Unione europea. In particolare, la decisione di eleggere a suffragio universale diretto il Parlamento europeo entro il 1978 è già nella prospettiva precisa della nascita di un potere democratico a livello europeo in grado di assumere le responsabilità che oggi non possono più essere realizzate dagli Stati nazionali.
La prospettiva della realizzazione dell’Unione europea ha già iniziato a produrre i primi effetti. A questo proposito è sintomatica la decisione presa nei giorni scorsi di portare nella sede del Parlamento europeo il dibattito sui progetti di riforma del mercato comune agricolo formulati dalla Comunità e dagli Stati membri. Una simile decisione, ancora poco tempo fa, avrebbe rappresentato un omaggio formale, privo di significato politico, reso al Parlamento europeo, in quanto quest’ultimo non rappresentava nulla più di un simulacro di parlamento, privo di potere e di legittimità democratica. La stessa decisione, presa oggi, assume un significato diverso perché giunge dopo il vertice di Parigi. Il Parlamento europeo può cominciare ad attualizzare oggi il potere che avrà, in un domani ormai credibilmente vicino, una volta eletto democraticamente; il dibattito sulla politica agricola che sta per essere portato nella sua sede, pertanto, mobilita, se pure ancora in misura limitata, forze politiche ed economiche.
Osservazioni analoghe valgono per tutti i settori in cui più si è sentita la mancanza di una politica europea; la prospettiva della nascita di un potere europeo aperta dal vertice di Parigi sta determinando fermenti in quanti cominciano a vedere la possibilità di affrontare i problemi che non potevano essere risolti nel quadro comunitario.
La conferenza sull’emigrazione va inserita in questo contesto. Essa non si comprende se si prescinde dal fatto che finalmente si vede in prospettiva la possibilità di risolvere questo problema, con l’avvio di una politica coerente svolta da un potere democratico europeo.
Naturalmente la conferenza di Roma ha dimostrato che la coscienza di questa nuova realtà è presente in pochi, e anche in questi risulta molto confusa. Tutti i fatti nuovi vengono interpretati con gli schemi forgiati per i fatti antichi; ciò risulta tanto più vero nel nostro caso, in cui il nuovo è a livello di un quadro europeo che esiste in modo solo imperfetto e il vecchio è invece all’interno del quadro nazionale e dei poteri esistenti. Così si spiega che nell’ambito della conferenza si sono visti succedersi al podio oratori che hanno sostenuto la necessità di avviare una incisiva politica regionale a livello europeo e ministri che si sono vantati di avere portato da 8 a 15 miliardi i fondi per interventi assistenziali a favore degli emigrati; sindacalisti che hanno sostenuto la necessità di organizzare un sindacato europeo e di arrivare a forme di sciopero europeo, e altri che hanno sostenuto l’opportunità di assumere sindacalisti in qualità di diplomatici nelle ambasciate per meglio assistere gli emigrati! Resta tuttavia il dato fondamentale che nella Conferenza, nel suo complesso, è emersa con chiarezza la coscienza della dimensione europea del problema dell’emigrazione. In particolare va richiamato che, nel discorso d’apertura, il presidente del Comitato organizzatore on. Granelli, ha lucidamente indicato nell’elezione a suffragio popolare del Parlamento europeo la scelta strategica da cui dipende la soluzione del problema dell’emigrazione.
Particolare rilevanza, per dimostrare l’orientamento in senso europeo di molti partecipanti alla Conferenza, hanno alcune proposte avanzate durante i lavori. Oltre a quelle già ricordate, vanno considerate con interesse le proposte di ampliare i diritti dei lavoratori di partecipare agli organismi sindacali e alla vita politica locale nei paesi di immigrazione; in realtà, da tempo sono stati avanzati progetti in tal senso, specie in Germania, ove più massiccia è la presenza di lavoratori emigrati europei.
Queste proposte, con evidenza, non danno una risposta di fondo al fenomeno della discriminazione subita dall’immigrato. Anche nell’ipotesi più favorevole di pieno successo di queste iniziative, con il riconoscimento del diritto degli immigrati di partecipare al governo dell’amministrazione locale, agli immigrati verrebbe riconosciuto solamente un diritto di voto amministrativo, non il diritto di partecipare liberamente e pienamente alla vita politica del paese di immigrazione con propri partiti e rappresentanti. L’immigrato rimarrebbe sempre un cittadino di seconda categoria rispetto agli indigeni, i quali soli posseggono pieni diritti politici. La realizzazione di queste proposte rappresenterebbe tuttavia un primo passo nella direzione verso il pieno riconoscimento del diritto di cittadinanza e partecipazione politica degli emigrati nella società che li accoglie. Ma l’affermazione del diritto di cittadinanza europea non è pensabile al di fuori del quadro dell’Unione politica europea; oggi le proposte avanzate per estendere i diritti degli sono parziali, perché esiste solo la prospettiva dell’Unione europea, mentre il quadro istituzionale esistente è ancora quello estremamente fragile e antidemocratico della Comunità.
Osservazioni analoghe valgono a proposito dell’atteggiamento di coloro che si sono pronunciati per risolvere il problema dell’emigrazione abolendo le cause stesse del fenomeno, cioè affermando il diritto di ogni lavoratore di trovare una occupazione nella propria comunità d’origine senza essere costretto a emigrare verso altre regioni o altri Stati. Gli aspetti contradittori di queste posizioni sono una conseguenza del fatto che le forze politiche e sociali organizzate che conducono questa battaglia hanno oggi una dimensione nazionale, mentre il problema richiede una soluzione europea. Gli squilibri esistenti fra le regioni sottosviluppate del Sud-Italia e le regioni più sviluppate del Nord-Europa possono essere risolti solo da una politica regionale condotta a livello europeo da un potere democratico controllato dal popolo. I partiti politici nazionali possono influire sulle decisioni dei governi nazionali ma sono impotenti di fronte a problemi che possono essere risolti solo a livello europeo.
Anche per gli interventi formulati in tal senso, tuttavia, vale la considerazione che essi hanno una validità e un’importanza che va al di là dei loro contenuti specifici, e che deriva loro dal fatto che il progresso dell’Unione europea vale di per sé a far cadere il loro carattere contraddittorio, facendo emergere il potere in grado di svolgere una coerente politica regionale e sociale.
In questo senso la Conferenza sull’emigrazione deve essere considerata un prodotto del fatto che il processo di integrazione europea è ormai entrato in una fase politica. Essa ha fornito una dimostrazione empirica della forza inarrestabile del processo costituente, una volta che questo si sia messo in moto. Tutti gli interessi e le forze che possono trovare una risposta ai propri problemi solo a livello europeo, sono destinati a coagularsi immediatamente intorno al nucleo di potere che si formasse a livello europeo, rafforzandolo e rendendo irreversibile il processo di trasferimento dei poteri dal livello nazionale a quello europeo. Qui sta il compito dei federalisti: battersi perché le decisioni prese dal vertice di Parigi vengano realizzate, con la nascita dell’Unione europea e l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Messo in moto il processo costituente, sarà la lotta politica a trasferirsi automaticamente a livello europeo, portandovi tutti i suoi contenuti.
 
Dario Velo
(marzo 1975)
 

 

 

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