IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LII, 2010, Numero 1, Pagina 3

  

 

Quale futuro per la crescita e lo sviluppo in Europa?
 
 
Nel 2009 la crescita dell’economia globale è stata sostenuta interamente dalle economie dei paesi emergenti. Sarebbe un errore sottovalutare questo dato. Esso infatti da un lato conferma che la crisi economica e finanziaria, pur essendo globale, ha colpito, e continua a colpire, più duramente i paesi avanzati rispetto agli altri. Dall’altro lato mette in luce il mutamento, già in atto da tempo, del trend storico della crescita, che finora aveva costantemente visto i paesi occidentali svilupparsi ad un ritmo superiore rispetto a quello del resto del mondo. Inoltre, se si considera che nell’arco dei prossimi dieci-quindici anni, la metà della produzione mondiale di beni materiali dipenderà sostanzialmente dai paesi asiatici, appare ancora più urgente per i paesi europei avviare una profonda riconversione dei loro sistemi produttivi e commerciali.
Da tempo i paesi occidentali, e tra questi soprattutto quelli europei, avrebbero dovuto imboccare questa strada. E’ infatti almeno dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso che le economie avanzate hanno all’ordine del giorno il problema della riconversione industriale e di una pianificazione in campo produttivo, occupazionale e territoriale compatibile con lo sviluppo delle potenzialità offerte dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Nel frattempo la situazione è peggiorata, sia per quanto riguarda l’assetto del quadro mondiale, sempre più frammentato ed instabile, sia dal punto di vista della natura e della frequenza delle crisi, sempre più globali, ravvicinate ed intrecciate tra loro. In questo contesto le politiche condotte dai vari governi occidentali per cercare di affrontare l’emergenza sembrano semplicemente dei tentativi di puntellare l’ormai precario edificio politico, economico e monetario internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale. Nessun paese sembra avere ancora preso atto del fatto che i pilastri su cui si è retto il vecchio ordine stanno irrimediabilmente crollando e che bisogna incominciare a crearne di nuovi, a partire dall’Europa. Solo agendo in questa direzione si potrebbe scongiurare il rischio che la crescita e lo sviluppo diventino una chimera per gli europei e un problema ingovernabile su scala globale. Quanto prima gli europei prenderanno coscienza di questa necessità, tanto più si aprirà una prospettiva di progresso per il loro continente e per umanità.
 
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L’esperienza storica, oltre alla ragione, dovrebbe spingerli su questa strada. Circa un secolo fa, negli anni Venti del secolo scorso, i tentativi promossi dai governi e dalle banche centrali per cercare di difendere i pilastri dell’ordine economico e monetario ereditato dal XIX secolo si dimostrarono fallimentari. Si trattava di un ordine che era già stato irrimediabilmente minato dagli sconvolgimenti prodotti dalla prima guerra mondiale, e in cui erano già diventate troppo forti le spinte protezioniste e nazionaliste che si erano sviluppate in seno ad ogni Stato nel tentativo di mettersi al riparo, a spese dei paesi vicini, dalle conseguenze delle ricorrenti crisi economiche e monetarie. Il risultato fu che tutti i governi, da quello fascista italiano, a quelli democratici francese, inglese ed americano, a quello bolscevico russo, che avevano (chi più chi meno) difeso a parole il gold standard, la necessità di limitare gli armamentie il principio del mercato mondiale autoregolato, finirono invece per favorire nei fatti l’avvento di quello che il Presidente della Federal Reserve americano, già nel 1918, aveva preconizzato che sa-rebbe stato un “period of economic barbarism”, in cui la prosperità già raggiunta sarebbe stata messa in grave pericolo.
Quali politiche alternative al nazionalismo perseguirono allora gli europei? Nessuna, al di fuori del debole progetto di Unione federale europea proposto da Briand-Streseman nel 1929. Un progetto al centro del quale c’era sì l’esigenza di creare una moneta ed un mercato unico tra i 27 (di allora) Stati europei membri della Società delle Nazioni, ma che ribadiva il mantenimento delle sovranità nazionali dei possibili Stati membri dell’Unione nel quadro della Società stessa.
Sarebbe illusorio, oggi, cullarsi nella speranza che la maggiore consapevolezza dei governi e i mezzi di controllo e di regolazione di cui dispongono, insieme alle mutate condizioni storiche e materiali, siano sufficienti a garantire una migliore e più pacifica cooperazione internazionale rispetto ad allora per affrontare le crisi in modo più razionale e nell’interesse del bene comune. Le dimensioni e la natura delle crisi, oltre alle dinamiche sociali su cui queste si innestano, sono cambiate molto più profondamente degli strumenti di potere di cui dispone l’umanità per controllarle. I tecnicismi finanziari o di politica economica non possono certo rispondere alle aspettative delle centinaia di milioni di individui che si stanno affacciando sul mercato globale del lavoro e della produzione rivendicando, a giusto titolo, il diritto di raggiungere al più presto livelli di benessere materiale almeno paragonabili a quelli finora raggiunti solo da una frazione, prevalentemente europea, dell’umanità; né, tantomeno, possono bastare per dare risposte al problema di in-cominciare a imboccare la strada della creazione di un sistema sovranazionale di governo e di controllo della potenza convenzionale e nucleare, che tutti gli Stati, dai più piccoli ai più grandi, non hanno cessato e non cessano di accumulare (dato che, in assenza di un’alternativa sovranazionale credibile, il perseguimento ed il mantenimento della forza resta l’obiettivo imprescindibile di tutti gli Stati e dei loro popoli per preservare l’indipendenza e la sicurezza). Come ha osservato recentemente l’ex Presidente della Federal Reserve Paul Volcker, il quale ha tra l’altro ammesso la sua personale incapacità di prevedere la dimensione della crisi economica e finanziaria che si è abbattuta sul mondo, “the critical policy issues we face go way beyond the technicalities of law and regulation of financial markets.... If we need any further illustration of the potential threats to our own economy ... we have only to look to the struggle to maintain the common European currency, to rebalance the European economy, and to sustain the political cohesion of Europe... Financing can buy time, but not indefinite time. The underlying hard fiscal and economic adjustments are necessary” (“The Time We Have Is Growing Short”, in The New York Review of Books, 24 giugno 2010). In definitiva è semplicemente irrealistico pensare che l’attuale ordine internazionale o la spontanea interazione delle forze del mercato possano sciogliere simili nodi storici.
I più consapevoli tra i responsabili dei governi e della classe politica europei, riconoscendo questi rischi, cominciano ad ammettere che siamo di fronte ad una crisi strutturale e non solo congiunturale del sistema di potere internazionale che governa la politica e l’economia; ma, pur riuscendo, nel migliore dei casi, ad identificare i problemi cruciali, non riescono ad identificare le cause della crisi. Così i rimedi (strutturali) e la direzione da prendere continuano a restare indefiniti, e si finisce con lo scambiare la coscienza delle esigenze e delle sfide poste dalla glo-balizzazione con la conoscenza delle soluzioni, che in realtà resta inesistente. In questo modo, il senso di insoddisfazione, che sta crescendo sempre più nelle opinioni pubbliche riguardo allo stato delle cose e alle politiche che vengono adottate, non riesce a trovare il terreno adatto per trasformarsi in un progetto capace di identificare i punti su cui far leva per modificare un quadro di potere anacronistico e instabile: un quadro in cui il potere conquistato o esercitato a livello nazionale non serve più per perseguire il bene comune, e in cui quello cosiddetto a livello internazionale rimane saldamente, nei settori decisivi, nelle mani degli Stati e dei governi.
Questo fenomeno, che riguarda ormai tutto il mondo, ha assunto il carattere dell’emergenza storica in Europa, dove da oltre un secolo lo spettro dell’inadeguatezza della dimensione nazionale degli Stati incombe sul dibattito culturale, politico, economico, senza, però, avere ancora prodotto un’alternativa europea capace di ridare un senso alla politica e di contribuire, insieme agli altri poli di potere mondiali, ad affrontare le emergenze globali. In particolare, in Europa, le condizioni che, in generale, determinano i margini d’azione di una società, si stanno fortemente indebolendo. Si tratta delle condizioni individuate, sin dai tempi della rivoluzione industriale, dai fondatori del pensiero economico quando questi incominciarono ad interrogarsi sulle cause della ricchezza delle nazioni. Esse sono riconducibili alla pace, al buon governo del piano, all’innovazione: invece gli europei vivono in un continente che è stato pacificato, ma che non è ancora un continente di pace; non hanno una vera politica europea del piano e non riescono a creare le condizioni favorevoli all’innovazione.
 
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E’ singolare che la maggior parte delle persone ritenga che, per il fatto che la guerra fra i principali Stati europei sembra impensabile, la pace sia diventata un fatto acquisito in Europa, e che giudichi al tempo stesso normale il fatto che i paesi membri dell’Unione europea continuino a mantenere apparati industriali militari ed eserciti che rispondono a diversi poteri nazionali e che perseguono interessi eterogenei e tendenzialmente divergenti. Una simile situazione è semplicemente incompatibile con la possibilità di elaborare e attuare un piano coerente e razionale di crescita e sviluppo su scala continentale. Nessun governo potrebbe concordare con gli altri governi un piano da cui dovrebbe dipendere il futuro del proprio popolo sapendo che il consenso, le risorse, le energie necessarie alla realizzazione del piano si baserebbero, a loro volta, sui sistemi nazionali di formazione della volontà generale, di amministrazione dell’economia e di produzione industriale, in un quadro in cui gli Stati mantengono la sovranità nel campo della politica estera e militare. Gli europei, in realtà, hanno perso il potere di farsi reciprocamente la guerra, in quanto sono stati pacificati dall’ingresso nella loro storia delle potenze extra-europee; ma dall’altro lato essi non hanno rinunciato al potere sovrano di prepararla ed eventualmente di promuoverla, con tutto quello che ciò implica in termini di sprechi, competizione e diffidenza reciproca in tutti quei settori in cui di volta in volta entrano in gioco la sicurezza e la sovranità nazionali. Gli esempi che si potrebbero citare in proposito sono numerosi. Essi vanno dalla fallimentare esperienza dell’Euratom, la Comunità che avrebbe dovuto porre le basi del piano energetico europeo, alle tormentate collaborazioni industriali militari in campo aerospaziale e delle telecomunicazioni, fino ad arrivare all’attuale competizione fra autorità nazionali per accaparrarsi i poli europei di interconnessione via Internet tra l’Europa e gli altri continenti, nel momento in cui tra l’altro incomincia ad essere messo in discussione il ruolo di hub, cioè di crocevia globale di Internet, degli stessi Stati Uniti.
In definitiva, la costruzione europea ha progredito finché ha potuto svilupparsi nel quadro dell’unità di fatto – economica, monetaria e militare – imposta e garantita dalla potenza egemone americana, nel cui ambito gli europei non hanno dovuto cercare di risolvere da soli tutti i problemi posti di volta in volta dall’evoluzione dei rapporti internazionali, dalla crescita dell’economia e dalle stesse contraddizioni create dal processo di integrazione europea. In questo contesto i successi parziali in settori specifici dell’economia o della produzione, essendo inseriti in un circuito ancora virtuoso di potere ed alleanze, hanno potuto giocare un ruolo evolutivo e sopperire alle lentezze del processo di integrazione. Ma nel momento in cui è incominciato a mutare l’assetto di potere nel mondo, e l’Europa ha dovuto provare a risolvere da sé i problemi che mettevano in gioco la sovranità nel campo monetario e in quello estero e militare, essa ha dimostrato di non essere in grado di farlo. Conseguentemente anche le contraddizioni si sono aggravate e approfondite, alimentando i tentativi e le tentazioni dei singoli paesi di ritagliarsi un ruolo più autonomo sulla scena mondiale. Questa è la pax europea in cui dovrebbe essere rilanciata la crescita in Europa. Questo è il modello per l’organizzazione della pace che gli europei offrono al resto del mondo nell’era della proliferazione nucleare e dei potenziali nuovi conflitti regionali. Proprio per questo gli europei dovrebbero fare di tutto per rimettere il problema della costruzione della pace – intesa come superamento della divisione dell’umanità in Stati sovrani – al centro del rilancio del progetto di unione politica dell’Europa e non considerarlo ormai superato.
 
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Già un secolo fa gli Stati europei non avevano la dimensione per promuovere e sostenere la produzione e l’innovazione su una scala adeguata all’evoluzione del modo di produrre industriale che si stava affermando. L’unità di fatto imposta all’Europa dopo la seconda guerra mondiale dalla potenza vincitrice americana, creando le premesse storiche e politiche per la convergenza delle ragion di Stato dei paesi europei, aveva permesso di incanalare l’esigenza di unità degli europei nel processo di integrazione su basi economiche a partire da un gruppo di paesi. Ma gli europei hanno dovuto aspettare che iniziassero a manifestarsi le conseguenze della fine dell’ordine bipolare per riuscire a varare il progetto, pur di antica data, di Unione economica e monetaria. Un progetto che peraltro, come la crisi greca ha confermato in questi mesi, aveva ed ha il limite di aver creato una moneta senza Stato, e di aver messo gli europei nella difficile situazione di dover pianificare senza disporre del potere necessario per farlo, come testimoniano emblematicamente il “piano” Delors degli anni Novanta e la Strategia di Lisbona del 2000. Così, nel continente dove a seguito della rivoluzione industriale è nata ed è maturata la consapevolezza dell’importanza della politica del piano per regolamentare il mercato, per proteggere la società ed il territorio e per promuovere l’innovazione, assistiamo tristemente all’eclissi della pianificazione, ridotta nel migliore dei casi ad un mero esercizio teorico, senza alcuna relazione vitale con il processo di formazione della volontà generale né su scala europea (dove questo processo ancora non è attivo), né su scala nazionale (dove esso è ancora attivo ma risulta ormai inefficace).
Questo fatto è ancor più grave quando si consideri che, finita ormai da tempo la guerra fredda, in un’Europa sempre più bisognosa di maggiore unità, gli europei da un lato si sono illusi che ormai l’ideologia della libera economia di mercato avesse vinto e che i mali del passato comunque non sarebbero più tornati, sottovalutando le contraddizioni economiche, finanziarie e sociali che si stavano accumulando su scala globale; dall’altro lato non si sono preoccupati di accelerare l’unificazione politica tra i paesi in cui le opinioni pubbliche erano favorevoli. La lotta politica si è così ridotta ad uno sterile confronto tra degli improbabili “nuovi” capitalismo, liberalismo e socialismo da realizzarsi in una società che si riteneva ormai universale dal punto di vista degli scambi, della produzione e della circolazione delle informazioni e dei dati, mentre la realtà era che, in un mondo caratterizzato dalla rapida e complessa evoluzione degli equilibri di potere, l’Europa andava perdendo ineluttabilmente la capacità di programmare la propria esistenza ed il proprio destino. In Europa la politica ha ignorato il fatto che il problema, per gli Stati europei, era nuovo dal punto di vista della dimensione, ma non della sostanza: si trattava di recuperare in chiave sovranazionale il senso profondo delle vecchie esperienze, idee e ideologie, e di riuscire a regolare e controllare a livello europeo l’uso ed il valore della moneta, del lavoro e del territorio, cioè dei fattori fondamentali da cui sono sempre dipesi la sopravvivenza, la stabilità e il progresso della società. E’ evidente che, in Europa, solo acquisendo una dimensione continentale lo Stato potrebbe emancipare la pianificazione sia dalla sua dimensione anacronistica nazionale, sia dalla tradizione burocratica ed accentrata del passato, inserendola per la prima volta in un processo di elaborazione e formazione di un piano di crescita e sviluppo articolato e coordinato su più livelli di governo, dalla città al continente. In questo senso ritardare o impedire ulteriormente la creazione di uno Stato federale europeo significa per gli europei rinunciare a priori a questa possibilità.
 
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Nell’epoca della rivoluzione scientifica e tecnologica la pianificazione è anche la condizione necessaria per realizzare l’innovazione. A differenza anche del recente passato, l’invenzione di nuovi strumenti per controllare l’ambiente e per migliorare le condizioni di vita è diventata un fattore indispensabile per il progresso della civiltà. Semplicemente, la crescita e lo sviluppo non sono più pensabili senza la prospettiva della continua innovazione. Proprio per questo non si può più pensare all’invenzione come ad una risorsa umana disponibile occasionalmente, bensì occorre considerarla come un elemento permanente della formazione della ricchezza di una società e della programmazione. Questo implica prendere in considerazione anche il quadro di potere entro il quale il processo innovativo può avere più occasioni e probabilità di tradursi in progresso civile.
In quest’ottica è interessante far riferimento alle riflessioni di Norbert Wiener, lo scienziato americano che collaborò alla realizzazione dei principali progetti del governo federale americano, a cavallo della se-conda guerra mondiale. Wiener, già negli anni Cinquanta del secolo scorso, osserva come nella nostra epoca l’invenzione non debba e non possa essere considerata solo il frutto della casuale manifestazione geniale di qualche individuo, ma un processo strettamente legato al clima intellettuale, tecnico, economico e soprattutto politico di una società. Solo il primo fondamentale momento dell’invenzione infatti può considerarsi individuale, in quanto fa la sua comparsa nella mente di una o poche persone. In questa fase il ruolo dell’individuo è certamente enorme, e la mancanza in un dato momento, nella società, di una mente adatta a pensare o a prevedere ciò che non esiste ancora può rimandare o escludere del tutto un certo tipo di progresso, sia in campo scientifico che politico-sociale. In ogni caso, affinché il processo non si arresti, subito dopo deve intervenire un secondo momento (tecnico) del processo, che dipende dall’esistenza o dalla ormai diffusa conoscenza nella società di materiali (o di tecniche) adeguati per favorire la realizzazione dell’invenzione (o del suo prototipo). Solo così una nuova idea può incominciare ad entrare a far parte stabilmente delle conoscenze e dei concetti utilizzati da un più vasto numero di uomini, e diventa addirittura più probabile che la medesima invenzione venga realizzata indipendentemente e anche seguendo metodologie differenti in più centri diversi. Ma dopo che queste due componenti – quella intellettuale (individuale) e quella tecnica (sociale) – si sono manifestate, spetta alla politica – nel suo aspetto di potere – giocare la sua parte. Infatti, solo in presenza di un adeguato clima politico, in grado di svolgere il ruolo di incubatrice istituzionale della nuova realizzazione e di favorirne la traduzione, con una gestione adeguata e con opportuni provvedimenti legislativi, in un fatto economico e commerciale, l’innovazione può davvero trasformarsi in una stabile conquista della società al servizio del progresso. Questi, secondo Wiener, sono i meccanismi che caratterizzano la storia dell’interazione tra invenzione e progresso materiale sin dai suoi esordi in Europa, e che, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, hanno trovato nel Nord America un contesto sociale e politico più favorevole per affermarsi e svilupparsi.
Questo trend come è noto, è continuato sino ai nostri giorni, al punto da creare un vero e proprio gap nella capacità di innovare – nel senso spiegato da Wiener – tra Europa e Stati Uniti. E’ sufficientemente noto per essere ulteriormente analizzato, il fatto che l’Europa sia diventata prevalentemente un’area di consumo dei frutti derivanti dalle grandi innovazioni del XX secolo, molte delle quali peraltro hanno conosciuto la loro fase intellettuale – ma spesso solo quella – proprio nel Vecchio continente (emblematico resta il caso dell’invenzione del linguaggio per creare le pagine web, avvenuta al CERN, ma entrata nelle case di tutti attraverso le applicazioni e le politiche commerciali promosse dal Nord America). Un indice, certamente non assoluto, ma da cui nessun rapporto sulla competitività ormai prescinde per analizzare la struttura produttiva dei paesi, riassume il ritardo accumulato dall’Europa: quello relativo al divario esistente nella produzione dei brevetti per ogni milione di abitanti tra gli Stati Uniti d’America ed i singoli paesi europei. Non si può credere che l’intelligenza, e quindi la capacità di produrre innovazione, sia da circa un secolo e per un’oscura ragione naturalmente più diffusa negli USA che in Europa. Solo prendendo in considerazione la differenza del quadro politico è possibile spiegare come mai nel 2009 ogni milione di statunitensi avesse prodotto 250 nuovi brevetti, contro i poco più di 100 per ogni milione di tedeschi, i poco più di 50 per ogni milione di francesi, i poco più di venti per ogni milione di italiani e così via (secondo le stime del Global Competitiveness Report del World Economic Forum).
 
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Cogliere il nesso che esiste tra il quadro politico, e quindi l’aspetto di potere, e le condizioni da cui dipendono la crescita e lo sviluppo nella società aiuta a comprendere che cosa determina il ritmo della loro avanzata (o del loro declino). Ma certamente questo non basta ancora per individuare gli obiettivi verso cui dovrebbero essere indirizzati per promuovere la civiltà. Questi obiettivi dipendono dai valori che una società vuole – o è disposta – a difendere o promuovere.
Si tratta di una questione, questa dei valori cui legare lo sviluppo della società, diventata particolarmente urgente e complessa oggi che l’esempio dell’ascesa economica del resto del mondo rispetto all’Occidente, e all’Europa in particolare, ha mostrato che non esiste un nesso automatico tra crescita e affermazione dei principi della democrazia. Aquesto si era creduto fintanto che il fenomeno dello sviluppo economico era rimasto confinato al mondo occidentale e che il fallimento dei tentativi di promuovere la crescita, avviati da regimi come quello sovietico e cinese, oppure da governi inefficienti e corrotti come quelli in India, in Africa e in gran parte dell’America Latina, sembrava confermare il legame indissolubile tra progresso e valori democratici. In particolare, il successo delle economie fondate su modelli politico-sociali molto diversi da quelli occidentali, come quello giapponese a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, seguito dai miracoli economici negli anni Settanta-Ottanta della Corea del Sud, di Taiwan, di Hong Kong e di Singapore, e dalla successiva ascesa economica della Cina e dell’India, mostra che, oggi, le vere cause dell’impulso allo sviluppo e alla crescita sembrano essere l’apertura e la liberalizzazione dei mercati, e non la promozione della democrazia, della giustizia sociale e delle libertà. Al tempo stesso, le contraddizioni create, sia in campo ecologico sia per quanto riguarda la sicurezza e gli squilibri economici, da questa crescita non orientata da un progetto di progresso sociale e politico, non solo sono in aumento, perché non esistono gli strumenti adeguati per fronteggiarle, ma stanno iniziando anche a minare la stabilità delle istituzioni, perché provocano gravi crisi di legittimità e di consenso.
L’Europa è l’area del mondo che per prima aveva sperimentato gli effetti negativi legati allo sviluppo e che era stata capace di elaborare risposte politiche innovative. Per questo è particolarmente grave che oggi nel nostro continente il confronto si appiattisca su un modo di pensare che tende sempre più ad escludere l’aspetto di valore dall’analisi dei problemi. Anche il dibattito su come superare la crisi attuale conferma questa tendenza. Dopo aver reso omaggio alla necessità di tener conto dei limiti imposti dalle emergenze ecologiche, dell’esigenza di non esasperare gli squilibri tra e all’interno degli Stati e di pensare al futuro delle nuove generazioni, i più alla fine, appellandosi al cosiddetto realismo, si limi-tano a sostenere la necessità di rimettere in ordine i conti ed i problemi monetari e finanziari dei singoli Stati, di cercare di contenere le tentazioni protezioniste, di far crescere un po’ di più il PIL. L’idea che sottende questi ragionamenti è che sia sufficiente cercare di attivare, in modo coordinato, a livello internazionale, gli opportuni strumenti tecnici di limitazione e di stimolo controllato del consumo privato attivando, al tempo stesso, politiche espansive nazionali. Così facendo non si tiene in alcun conto il fatto che la crescita e lo sviluppo, nell’era delle crisi globali, implicano innanzitutto una ridefinizione dei rapporti di potere fra gli Stati e dei rapporti sociali al loro interno e devono essere messi in relazione con un piano credibile di riconversione delle produzioni e dei consumi, che a sua volta non può prescindere dall’affermazione dei valori della pace e dell’uguaglianza in una prospettiva sovranazionale. Si deve infatti interrompere la tendenza in atto che pretende di separare la crescita e lo sviluppo dalla salvaguardia dei valori politici e civili e che sostiene, più o meno apertamente ed esplicitamente, l’affermazione in chiave moderna del mito del primato del mercato internazionale autoregolato sulla politica e sui valori.
Le conseguenze di questa pseudo cultura politica stanno già producendo in Europa l’effetto di far passare la prospettiva, inaccettabile sul piano morale e sociale, che non solo e non tanto a causa della crisi, ma soprattutto in seguito alla progressiva inversione dei rapporti di forza tra l’Occidente e il resto del mondo, il contributo produttivo e culturale di intere generazioni rischia, già nel medio periodo, di essere emarginato e di trasformarsi in un serbatoio di nuova povertà e di malessere sociale. Opporsi e combattere la rinuncia a considerare i valori come strumento di orientamento dell’azione politica, e quindi anche di analisi dei problemi della società, dovrebbe essere il compito principale della politica, se si vuole che questa torni ad occuparsi del bene comune e della costruzione del potere necessario per affrontare le sfide del tempo in cui si vive.
A questo proposito il federalismo può dare un contributo importante. Infatti, il federalismo, che permette di spiegare le ragioni per cui è necessario e urgente costruire lo Stato federale europeo, chiarisce e denuncia quegli aspetti di potere della realtà che impediscono agli europei di superare le condizioni di inferiorità che rischiano di emarginarli dalla corrente principale dello sviluppo del processo storico-sociale. Mettendo in relazione il processo di formazione di questo nuovo potere con la necessità di affermare i valori su cui si fonda il progresso dell’umanità, il federalismo consente inoltre di recuperare all’impegno politico quelle energie morali e culturali che esistono nella società, indicando loro il terreno, l’unità dell’Europa, su cui è possibile fin da ora schierarsi e battersi. Infine, chiarendo la relazione che esiste tra la necessità di costruire un sistema di potere sovranazionale in Europa, o almeno in una parte significativa di essa, con il federalismo si può indicare la strada da imboccare per costruire davvero la pace.
 
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