IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXI, 1979, Numero 3-4, Pagina 215

 

 

RAPPORTO DI MARIO ALBERTINI
AL COMITATO FEDERALE DELL’U.E.F.
DEL 22-23 SETTEMBRE 1979
 
 
I. Ciò che noi abbiamo elaborato nel corso degli ultimi anni è un programma per l’Europa in questa fase del processo di unificazione. Questo programma, che ha trovato la sua forma nel Manifesto, è stato elaborato con una larga consultazione della base. Ricordo che questo programma è un «programma minimo» in un senso preciso. Si trattava di stabilire che cosa si doveva fare (e si deve in gran parte ancora fare) per invertire la tendenza in una situazione nella quale l’unità europea, invece di avanzare, retrocedeva, in ispecie sul terreno monetario e su quello economico. Il nostro programma — che avendo il carattere di premessa nei confronti di qualunque altro obiettivo europeo più avanzato dovrebbe diventare in modo esplicito un impegno comune di tutti i partiti — era naturalmente formulato in previsione dell’elezione, e indicava tutte le scelte che l’Europa dovrebbe fare per consolidare definitivamente l’unità, e per affrontare a livello europeo i maggiori problemi del nostro tempo che a livello nazionale restano insoluti, diventano sempre più gravi con rischi sempre maggiori per gli Stati più deboli a breve termine, e a medio e lungo termine per tutti gli Stati.
Successivamente, noi abbiamo cercato di stabilire i primi elementi di una strategia europea secondo la concezione di Jean Monnet. Ciò comportava l’identificazione di priorità nel senso preciso che Monnet ha dato alla questione delle priorità quando si tratta dell’Europa: battersi per la soluzione di quei problemi che, se vengono risolti, permettono o addirittura comportano anche la soluzione degli altri problemi sul tappeto. Noi abbiamo così messo l’accento su tre punti: la moneta europea, la dimensione del bilancio, e un sistema di governo efficace per la Comunità sulla base del Parlamento eletto. Infine, a Torino, abbiamo inquadrato questo programma e queste prime indicazioni strategiche nel contesto della nuova situazione internazionale, che sia sotto il profilo economico, sia sotto il profilo della sicurezza, condiziona largamente il perseguimento di qualunque obiettivo che abbia rilievo per la vita delle nostre nazioni.
Vorrei osservare che per sviluppare la nostra lotta noi dobbiamo non solo mantenere queste posizioni — il Manifesto e i primi elementi strategici — ma anche applicarle con un impegno maggiore rispetto a quanto è accaduto sinora. Non sono pochi i federalisti che hanno messo il Manifesto nel cassetto, e che hanno preso posizione sull’Europa ignorando completamente sia le risoluzioni del Congresso, sia le deliberazioni del Comitato federale. È evidente che in questo modo non sarebbe possibile esercitare alcuna influenza. Se in ogni situazione determinata, un federalista dicesse una cosa un altro un’altra, e così via, nessuno potrebbe prendere in seria considerazione l’U.E.F. Anche la democrazia è una disciplina. In ogni caso, d’ora in poi il riferimento al Manifesto, ai primi elementi strategici, e a quelli che svilupperemo in seguito, diventa una stretta necessità, pena il completo fallimento della nostra azione. Ci siamo impegnati a stabilire, anche e soprattutto nelle sedi locali e regionali, un contatto permanente ed efficace con i deputati europei. Si tratta di dare all’opinione pubblica, alle forze locali, ecc., la possibilità di ascoltare direttamente dalla loro viva voce ciò che hanno cercato di fare e potuto ottenere; e si tratta inoltre di promuovere uno scambio di idee su ciò che bisogna ottenere assolutamente, anche se gradualmente, per fare davvero dell’Europa la cosa di tutti. Orbene, questo confronto esige che su ogni questione — il Parlamento europeo non potrà non occuparsi di tutte le questioni importanti — ogni federalista, in ciascuna delle nostre sedi locali, possa esporre la posizione dell’U.E.F. Solo in questo modo, l’U.E.F. potrà esercitare una influenza effettiva; ma ciò esige, ovviamente, l’uso del Manifesto come quadro di riferimento per tutte le nostre affermazioni.
In realtà noi siamo stati lungimiranti discutendo, ed adottando tempestivamente, il Manifesto, concepito proprio come un quadro di riferimento globale per l’esecuzione di un programma minimo, nel senso del minimo indispensabile. Ora dovremmo trarre, da questa previdenza, tutti i frutti possibili. E ciò comporta un aggiornamento. Rispetto al tempo nel quale abbiamo elaborato il Manifesto, la situazione è cambiata. Alcuni problemi hanno avuto un inizio di soluzione (massimo esempio, lo S.M.E.), e richiedono pertanto, per quanto ci riguarda, la determinazione degli ulteriori obiettivi da perseguire su questa nuova base. D’altra parte, il corso del tempo ha messo in evidenza sia nuovi problemi, sia il bisogno, sempre più sentito, di sapere meglio quale possa essere il futuro della società e, nei limiti del possibile, di costruirlo consapevolmente, per sanare il distacco crescente tra la politica e i cittadini, e per ricondurre nell’ambito di una democrazia più giusta, rigorosa ed efficace le motivazioni del comportamento delle nuove generazioni. A questo riguardo, a me pare che si possa fare la seguente proposta: nominare subito una Commissione che si occupi dell’aggiornamento del Manifesto, possibilmente con la collaborazione della gioventù federalista, e invitare subito tutte le nostre organizzazioni, e tutti i federalisti a rivolgere a questa Commissione i loro suggerimenti. In questo modo il prossimo Congresso portando a compimento il lavoro della Commissione, potrebbe adottare le varianti da apportare al Manifesto. Con questa procedura, noi potremmo disporre per tempo dello strumento necessario per il confronto permanente con i deputati europei.
II. L’aggiornamento del Manifesto non è tuttavia il solo problema che dobbiamo affrontare. Nella vita della Comunità, e nello stesso processo di unificazione, è intervenuto un grande cambiamento, che deve essere esaminato con cura per adattare l’azione alla nuova situazione. Solo chi ha una percezione superficiale degli avvenimenti politici (o la subisce a causa della cattiva situazione dei mezzi di informazione di massa) può sottovalutare il fatto che con il voto europeo la composizione e l’orientamento del Parlamento europeo dipendono ormai dal consenso e dalla partecipazione diretta dei cittadini che, in questa funzione, costituiscono indubbiamente il popolo europeo. Va dunque ribadito che la presenza attiva del popolo europeo nelle istituzioni della Comunità significa non solo che la Comunità potrà accrescere la sua capacità d’azione e la sua influenza, ma anche che il processo di unificazione ha ormai raggiunto il punto di non ritorno.
Vorrei ricordare che questa questione, vale a dire il tentativo di stabilire ad ogni fase dello sviluppo dell’unificazione se essa avesse acquisito, oppure no, il carattere dell’irreversibilità, ha dato luogo sinora soltanto a valutazioni discordanti (anche per la mancanza di criteri di giudizio attendibili) che finivano con l’indebolire l’impegno dei politici e la fiducia dei cittadini. Orbene, dopo il voto europeo noi possiamo certamente affermare, senza timore di sbagliare, che la possibilità di tornare indietro — di riprodurre la divisione come nel primo dopoguerra dopo aver cercato invano la via dell’unità — non esiste più, a meno di catastrofici rivolgimenti della situazione politica (che non si possono escludere ma non sono attualmente prevedibili, e che sono in ogni caso resi più difficili proprio dal fatto che l’Europa, non essendo più divisa, non è più preda del disordine nazionalistico). Per tornare indietro bisognerebbe ormai revocare lo stesso diritto di voto europeo, ma nessun governo, e nessuna forza politica, possiede ora, o può acquisire in un futuro già pensabile, il potere necessario per questa revoca. D’ora in poi, dunque, le possibilità sono solo due: o star fermi, o avanzare (mentre sino ad ora lo star fermi comportava il rischio, se non la certezza, di retrocedere). Alla lunga si potrà perciò solo avanzare, anche se con tempi ancora imprevedibili, che non dipendono tuttavia da fattori extra-umani, ma dalle scelte, dalla volontà e dall’impegno di tutti.
Questo aspetto nuovo della situazione di potere è destinato a produrre cambiamenti di grande rilievo in tre settori dell’azione politica: quello dell’orientamento di fondo con il quale viene pensata e guidata l’azione politica, quello del riconoscimento di ciò che abbiamo già ottenuto e possiamo ancora ottenere con l’Europa, e infine quello delle nuove possibilità che si manifestano per sviluppare ulteriormente, e portare a compimento, l’unificazione. In primo luogo va osservato, in termini materialmente politici, che d’ora in poi chi lavora per la divisione perde il suo tempo e una parte del suo potere (perché persegue un obiettivo irrealizzabile), mentre chi lavora per l’unità impiega bene il suo tempo e aumenta, in prospettiva, il suo potere (un prodromo di questa nuova logica politica si è già prodotto con l’elezione politica che, in linea generale, ha premiato i partiti europeisti e punito quelli nazionalistici).
È vero che la coscienza di questo nuovo carattere della lotta politica è ancora scarsa. Ma è anche vero che gli uomini più capaci — cioè quelli destinati a primeggiare — sono proprio quelli che capiscono per tempo, e comunque prima degli altri, dove sta il loro vantaggio e dove il loro svantaggio. In ogni caso la diffusione di questa coscienza è una leva che noi dobbiamo utilizzare, tenendo ben presente che il fatto europeo decisivo è ormai questo. Solo se si batteranno davvero in tutte le sedi per l’unità europea (come obiettivo del partito e non solo di qualche dirigente illuminato) i nostri partiti sposteranno la lotta politica dai campi nazionali a quello europeo; e solo con questo spostamento essi riusciranno finalmente a pensare in termini europei ciò che hanno sinora pensato in termini nazionali: la strategia politica, il futuro delle nostre nazioni, l’indirizzo fondamentale della politica estera e della politica economica.
In secondo luogo va osservato — per quanto riguarda il riconoscimento dell’utilità dell’Europa — che d’ora in poi sarà più facile far capire all’opinione pubblica quale immenso beneficio abbiano già tratto dal processo di unificazione tutti i popoli europei, ivi compresi quelli che non l’hanno promosso o l’hanno addirittura osteggiato. Con una valutazione di insieme, si può facilmente mostrare che l’Europa ha potuto fruire, in questo dopoguerra, di un grado di unità che le ha consentito di evitare i danni della divisione. Può sembrare poco, ed è moltissimo. E noi abbiamo ora la possibilità di affermare che con il raggiungimento del punto di non ritorno le politiche estere, militari, economiche e culturali provocate dalla divisione — quelle che l’Europa ha conosciuto nel periodo più triste e più tragico della sua storia — non sono più possibili.
Non si tratta solo della pace europea, che è pur tuttavia un bene inestimabile. Si tratta anche dell’alternativa tra situazioni politiche che frenano o promuovono lo svolgimento dell’attività economica. Quando, come accade soprattutto in Italia e nel Regno Unito, si fa il conto del dare e dell’avere nella Comunità in termini esclusivamente amministrativi (conto che si può del resto variare a piacere manipolando in modo opportuno i dati), ci si dimentica un confronto infinitamente più importante, quello fra la situazione e le prospettive dell’economia in un’Europa divisa o in un’Europa come la nostra, già abbastanza unita per evitare i danni della divisione.
È evidente che il vantaggio è enorme per tutti. È evidente che in un’Europa divisa l’Italia non avrebbe avuto nel dopoguerra lo sviluppo economico che l’ha portata nel gruppo dei paesi industrialmente avanzati. Ed è evidente che il Regno Unito troverebbe in una situazione migliore se avesse accettato l’Europa nel 1950, invece di scegliere l’isolamento e perciò la decadenza. Sono queste le cose che andavano dette. Se fossero state dette, come sono state dette in Italia per merito dei federalisti che hanno sempre criticato il governo e i partiti quando era necessario, non avremmo avuto in alcuni paesi una partecipazione elettorale così debole o addirittura sconfortante.
Su questo piano — che è quello della propaganda della verità contro la propaganda della menzogna promossa dai nazionalisti — bisogna ormai, avendo raggiunto con il punto di non ritorno un solido bastione, andare più in là. Per presentare la situazione attuale dell’Europa agli europei (che come elettori hanno ormai il diritto e il dovere di giudicare la Comunità, e quindi anche l’operato dei governi nazionali nel Consiglio dei ministri), non basta più dire che cosa guadagniamo con l’assenza della divisione. Bisogna anche dire che cosa perdiamo per la mancanza di una unità dinamica e attiva.
L’esame è presto fatto. La Comunità è la prima potenza commerciale del mondo. Con l’unità monetaria ed economica essa disporrebbe evidentemente di un potere contrattuale molto più forte di quello di ogni Stato preso isolatamente. Ma l’Europa non può ancora esercitare questo potere per l’insensata cocciutaggine con la quale i governi e le burocrazie nazionali difendono la loro anacronistica sovranità economica in materia di moneta e di controllo della congiuntura, arrecando così giorno per giorno un danno incalcolabile non solo agli europei, ma anche al mondo, che senza il contributo dell’Europa non può creare un ordine economico e monetario internazionale equilibrato, e capace sia di favorire lo sviluppo del Terzo mondo, sia di accelerare la riconversione industriale indirizzandola verso nuovi rapporti sociali nei paesi avanzati. D’altra parte è in questo quadro, quello dell’unione economica e monetaria, e non in quello del dare e dell’avere puramente contabile, che vanno posti, e possono essere gradualmente risolti, i problemi interni dello squilibrio tra regioni povere e ricche.
III. Il terzo cambiamento provocato dal voto europeo, e dal fatto che ormai la situazione di potere non comporta più la possibilità della ricaduta nella divisione, riguarda la strategia del processo di unificazione e richiede un’analisi che oggi può solo essere iniziata, e che potrà essere sviluppata solo a grado a grado che sarà confortata dall’evoluzione degli avvenimenti.
Per quanto riguarda il potere, sino ad ora la strategia del processo di unificazione ha avuto un solo protagonista: i governi nazionali. Ciò non significa che non abbiano dato un contributo essenziale i grandi europeisti come Monnet, i cittadini, e, in via subordinata, i partiti e le forze sociali organizzate. Il contributo dei cittadini è stato certamente decisivo, e vale la pena di ricordarlo ora che un esame superficiale della prima elezione europea ha indotto molti osservatori a valutazioni pessimistiche circa la sensibilità europea dell’opinione pubblica.
Senza il favore dei cittadini, che hanno fatto immediatamente proprie le grandi decisioni europee, a cominciare dalla riconciliazione franco-tedesca, e le hanno subito tradotte in un nuovo modo di pensare e di agire — solo in questo modo si spiega il successo del Mercato comune — l’Europa sarebbe ancora divisa come nel passato. Tuttavia, in politica occorrono, anche se non bastano, le decisioni del potere. E sotto questo aspetto, per tutti questi anni senza le decisioni dei governi nazionali non si poteva far nulla. Tutto ciò che è stato fatto sinora — le grandi scelte, il sì all’esecuzione di programmi europei, e la stessa elezione diretta del Parlamento europeo — non sarebbe stato possibile se i governi nazionali non l’avessero voluto (se costretti o no dalle cose è un altro discorso).
La Commissione, e lo stesso Parlamento europeo (eletto indirettamente) hanno svolto in modo spesso innovativo (come la Corte di Giustizia) un ruolo indispensabile. Ma questo ruolo era — e non poteva non essere — politicamente subordinato perché né la Commissione, né il Parlamento, potevano, da soli, prendere le decisioni che contano, quelle che mutano lo stato delle cose. Questa situazione si rispecchia perfettamente nel fatto che sino ad ora c’è stata, in ognuno dei nostri paesi, una lotta politica nazionale (e perciò un grande dibattito nazionale sul che fare, su come preparare il futuro con la nazione); ma non c’è stata, in Europa, una lotta politica europea (e perciò un grande dibattito sull’Europa, su come preparare il futuro con l’Europa). È per questa ragione che i cosiddetti «realisti» non hanno creduto nell’Europa. Ed è per la stessa ragione che la stampa non è riuscita ad avere una idea esatta del problema europeo, e a farla conoscere al pubblico. Ma ciò che importa ora è che questa situazione è finita. D’ora in poi anche la Comunità potrà prendere da sola decisioni che contano, con tutte le conseguenze che ciò comporta.
La forma giuridica di questa possibilità è allo stato embrionale, e perciò molti stentano ancora a riconoscerla. Ma il fatto sussiste. Il Parlamento europeo può bocciare il bilancio e far cadere la Commissione; e ciò equivale a paralizzare il processo dell’esecutivo (si tratta di un evento analogo a quello delle crisi di governo). D’altra parte, questa possibilità di decisione si colloca in un contesto politico di carattere democratico nel quale i partiti devono ormai preoccuparsi dei voti non solo sul piano nazionale ma anche su quello europeo. È proprio per questo che sta per avere inizio una vera e propria lotta politica europea, che pur essendo per ora oscurata dal fatto che la lotta politica nazionale occupa quasi completamente la scena, prenderà tuttavia sempre più rilievo perché l’Europa è da tempo, e in modo sempre più pressante, una unità di destino.
Non è possibile, come ho detto, esaminare ora tutte le conseguenze di questo cambiamento. Ma una cosa può, e deve, essere subito osservata. Con questo cambiamento anche per la costruzione e la vita dell’Europa vale ormai uno degli aspetti tipici della lotta politica democratica: la strategia politica come strategia per la formazione di maggioranze. In questo contesto strategico ottenere risultati ed ottenere maggioranze diventano due facce della stessa cosa. Ed è proprio cercando di esaminare come potranno formarsi ed agire le maggioranze europee che si può aprire un capitolo nuovo nella storia del processo di unificazione.
La novità essenziale è questa: sino ad ora ogni progetto per far avanzare l’Europa doveva essere concepito come un progetto tale da poter essere accettato, in certe circostanze, dai governi nazionali. Progetti di questo genere — i cui limiti, già nella fase di elaborazione, sono evidenti — sono tuttora necessari perché i governi nazionali hanno ancora il controllo di poteri che devono essere trasferiti all’Europa (in primo luogo la moneta e l’esercito). Ma ormai si può far avanzare l’Europa anche con progetti di natura del tutto diversa, che siano tali da dar luogo alla formazione di maggioranze in seno al Parlamento europeo; cioè con progetti che dovranno essere elaborati, discussi e confrontati in modo pubblico, e che dovranno tener presenti gli interessi e le aspettative degli elettori europei prima di ogni altra cosa. Ciò comporta, in ultima istanza, lo spostamento della base del potere su cui si regge la Comunità dalle mani dei governi nazionali a quelle del popolo europeo.
In futuro non si potrà più dire che manca il «federatore». Ma ciò che conta, ora che siamo solo all’inizio di questo sviluppo, è identificare la funzionalità delle maggioranze europee, che non corrisponde a quella delle maggioranze nazionali. La differenza principale è che in Europa non si fa il governo con la maggioranza parlamentare. Ne segue che, mentre negli Stati nazionali la maggioranza di governo e quelle che si formano a volta a volta sui singoli problemi, tendono a coincidere, in Europa le maggioranze sui singoli problemi potranno invece formarsi più liberamente, ed essere perciò a volta a volta diverse, sino ad includere probabilmente, sia pure con combinazioni diverse, quasi tutti i parlamentari (con un beneficio evidente per l’evoluzione europea di tutte le forze politiche).
In pratica noi dobbiamo prendere in considerazione tre tipi di maggioranze: a) una grande maggioranza permanente in difesa dei Trattati; b) una serie di maggioranze occasionali su singoli problemi; c) una maggioranza che potrà manifestarsi solo in circostanze particolari per il passaggio dei poteri. Per ciascuna di queste maggioranze valgono, mi pare, le seguenti considerazioni.
Grande maggioranza in difesa dei Trattati. Le elezioni hanno dato, a questo riguardo, un buon risultato. Si è già calcolato che i parlamentari favorevoli alla Comunità come è definita dai Trattati sono più dei due terzi, cioè più del numero necessario per far cadere la Commissione e paralizzare l’esecutivo, e quindi per bloccare qualunque tentativo di snaturare la Comunità. Circa questa maggioranza — per noi, e soprattutto per il Movimento europeo — il problema è quello di stimolarla e di sostenerla. Essa pone anche, per il Movimento europeo, un problema organizzativo. Sono infatti i deputati di questa maggioranza quelli che potrebbero formare l’intergruppo parlamentare del Movimento europeo perché la loro posizione è già acquisita ed ha carattere permanente, mentre le posizioni che verranno prese sui singoli problemi e sul passaggio dei poteri non sono né permanenti, né già acquisite, e dipendono esclusivamente dallo svolgimento della lotta politica europea.
Maggioranze occasionali sui singoli problemi. La questione non è di promuoverle. Il grado attuale di lotta politica europea, pur essendo ancora al livello iniziale, e perciò minimo, è già sufficiente per promuoverle. Queste maggioranze si formeranno certamente (il processo è in corso), e metteranno sempre più in evidenza la necessità di soluzioni europee, con una prospettiva mondiale, dei maggiori problemi. Esse renderanno così sempre più debole la posizione delle forze che coltivano ancora la speranza illusoria di soluzioni nazionali (il recente dibattito francese sulla difesa nucleare europea, pur essendo prematuro, è un chiaro segno in questa direzione).
Sotto questo profilo, queste maggioranze occasionali daranno un contributo essenziale alla formazione di una opinione pubblica europea attiva ed esigente, introducendo un fattore nuovo nell’equilibrio politico. Va tuttavia osservato che ciò faciliterà, ma non renderà ancora possibile, la soluzione europea dei grandi problemi economici sul tappeto (e a maggior ragione quella dei problemi che appartengono al dominio della politica estera). Il fatto è indubbio. Le politiche comuni saranno sempre inadeguate finché non raggiungeranno il livello di una vera e propria politica economica europea d’insieme (il progetto di bilancio attuale non è che l’ennesima conferma di questo stato di cose). A questo riguardo c’è una sola via d’uscita, quella che noi non ci stanchiamo di indicare: il trasferimento del controllo della congiuntura economica e della moneta dalle nazioni all’Europa; cioè, in concreto, la moneta europea, una dimensione adeguata del bilancio e il rafforzamento dell’esecutivo.
Dal punto di vista quantitativo questo trasferimento è modesto. Ma pur essendo modesto — come risulta chiaramente dai lavori della Commissione Mac Dougall — esso è tale da dar luogo al trasferimento del potere di controllare le grandezze macroeconomiche dal livello nazionale a quello europeo; ed è proprio per questo che o non viene nemmeno preso in considerazione, o viene criticato aspramente con argomentazioni pretestuosamente tecniche che hanno soltanto lo scopo di mascherare la cattiva volontà politica. In ogni caso, ciò che conta è che l’esame delle maggioranze occasionali, e della situazione che esse finiranno col creare, conduce alla indicazione strategica fondamentale.
In termini teorici il fatto è questo: o si forma la maggioranza per il passaggio dei poteri, o i problemi europei resteranno senza soluzione (per la mancanza del potere indispensabile). E in termini pratici il fatto è questo: la formazione della maggioranza necessaria per il passaggio dei poteri è difficile ma non impossibile. Se l’unificazione dell’Europa non avesse già raggiunto il punto di non ritorno, non ci potrebbero essere molte speranze, sia per la difficoltà del compito, sia per il basso tono della vita politica in generale. Ma l’Europa è già al punto di non ritorno. Ciò significa che la lotta politica europea non potrà essere fermata. Essa continuerà pertanto a provocare — con le maggioranze occasionali sui problemi europei — la aspettativa di soluzioni europee. È su queste aspettative — e più precisamente sullo squilibrio tra aspettative europee dell’opinione pubblica e delle forze sociali, e mancanza di realizzazioni europee — che si può far leva per giungere alla formazione della maggioranza per il passaggio dei poteri.
La maggioranza per il passaggio dei poteri. Al presente questa maggioranza non esiste, e sarebbe del tutto vano cercare di promuoverla subito. La sua formazione dipende dall’evoluzione della situazione politica globale e dal grado di avanzamento della lotta politica europea. Non si può ancora dire, d’altra parte, quale potrà essere a questo riguardo l’eventuale contributo diretto dei governi nazionali. In teoria non si può escludere che, in situazioni diverse da quella di oggi, i governi possano, come al tempo della C.E.D., affidare al Parlamento europeo dei compiti di natura costituzionale (in materia di moneta europea e, in prospettiva, di difesa europea). In ogni caso, le circostanze pratiche della formazione di questa maggioranza, e quindi anche le forme concrete che essa potrà assumere, non sono precisabili in anticipo. Ma è già precisabile sin da ora quanto segue. Con il voto europeo, e l’avvento della democrazia europea, non sono più possibili passi avanti dell’Europa senza maggioranze a favore. Ciò vale, ovviamente, anche per il passaggio dei poteri. Ne segue che o si giunge ad una maggioranza per i poteri, o non si può portare a compimento la costruzione dell’Europa. Ne segue anche che si può formare la volontà di portare a compimento la costruzione dell’Europa solo con la propaganda per la formazione e la vittoria di questa maggioranza, che costituisce l’imperativo strategico supremo.
IV. Sinora ho esposto in termini razionali il problema dell’azione europea. Non si può fare altrimenti, quando si tratta di promuovere un dibattito per giungere alla conoscenza del che fare. Ma non bisogna dimenticare che in politica la ragione passa solo attraverso idee-forza; e che questo mezzo d’azione funziona nel modo più efficace se c’è la possibilità di far leva su una sola idea-forza, che sia tale da creare nei politici un senso di colpa (se non agiscono nel modo dovuto) e nei cittadini un orientamento netto verso scopi definiti.
Io credo che, a questo riguardo, noi dovremmo riflettere seriamente sulla questione delle frontiere, che ha già costituito nel passato uno dei temi principali della nostra propaganda. Si può considerare uno scandalo il fatto che gli europei, che esercitano già il diritto di voto, siano ancora divisi dalle vecchie frontiere, cioè da un relitto del nazionalismo. Ma c’è di più. Le frontiere misurano esattamente il grado di disunione economica che sussiste tuttora nella Comunità. Non si possono abolire le frontiere perché non ci sono né una moneta europea né una politica economica europea. Ed è vero il contrario. Se l’unione economico-monetaria fosse un fatto acquisito, le frontiere sarebbero inutili. Sollevando la questione delle frontiere si può pertanto spiegare con molta semplicità sia ciò che i governi e la Comunità non hanno fatto, con un danno sempre più grave per tutti i cittadini, sia ciò che devono fare; si può porre ai parlamentari europei — come rappresentanti dei cittadini europei — il problema di che cosa intendono fare per renderne possibile l’abolizione, ecc.
Si può inoltre osservare che la questione delle frontiere mette in evidenza anche altri limiti della Comunità. È la sopravvivenza delle frontiere — associata all’idea distorta di risolvere alcuni problemi fondamentali dei cittadini senza abolirle — che costringe a parlare dello «spazio giudiziario europeo», o dei «diritti speciali» di coloro che lavorano in un paese diverso da quello di origine (come se fossero degli stranieri, pur essendo dei votanti), e via dicendo. Anche a questo riguardo la riflessione sulle frontiere può diventare una riflessione generale sulla vera situazione della Comunità, e sulle responsabilità dei rappresentanti degli europei.
V. C’è ancora un problema più generale da menzionare, non per esaminarlo subito, ma per decidere se dobbiamo farne, come vorrei proporre, il tema fondamentale del nostro Congresso. È il tema del federalismo come fatto culturale. Vorrei fare, a questo riguardo, due considerazioni preliminari. La prima è che ogni giorno che passa mostra sempre di più il carattere mondiale che assumono tutti i nostri problemi, e la stessa vita quotidiana di ogni cittadino nella sfera della sua comunità locale. In corrispondenza di ciò, le motivazioni profonde del comportamento di tutti, e specialmente delle nuove generazioni, assumono questa dimensione; ma ciò genera sia il diffuso distacco dalla politica che si manifesta ovunque nei paesi democratici, sia la crisi morale dei giovani, perché la politica e la cultura non sono ancora riuscite a creare una vera prospettiva mondiale.
La seconda considerazione è che questo limite non riguarda la scienza e la tecnologia, ma solo la cultura, nella sua espressione globale, e la politica. Dal punto di vista tecnico la scienza è già perfettamente in grado di elaborare programmi mondiali per molti dei grandi problemi del nostro tempo, da concepire ormai come problemi del genere umano. Ma i progetti che sono stati elaborati, o proposti, restano lettera morta. Io credo che ciò dipenda dal fatto che si pensano i programmi mondiali con gli strumenti d’azione politica che abbiamo ereditato dal passato, o per meglio dire con gli schemi teorici corrispondenti. Si formulano programmi mondiali scientificamente esatti, o scientificamente controllabili, e poi si pensa che debbano eseguirli gli Stati nazionali (o il loro braccio secolare, l’O.N.U.). Ma cosi si affidano questi programmi a dei centri di azione che non solo non sono in grado di realizzarli, ma che costituiscono proprio l’ostacolo da superare per realizzarli. Non è una questione di buona o cattiva volontà, è una questione di potere: col potere nazionale esclusivo (che caratterizza ancora gli Stati nazionali e può essere superato solo col federalismo, cioè con lo schema del libero governo di società di libere nazioni) non si può sviluppare il consenso mondiale necessario per un programma mondiale.
È questo il problema che può, e deve, essere affrontato con il federalismo, inteso come la cultura dell’aspetto politico della dimensione mondiale della vita sociale. A questo riguardo l’Europa può essere, come ha detto lucidamente Sacharov, tanto un modello quanto un trampolino verso soluzioni mondiali.
Sino ad ora il federalismo ha espresso politicamente la cultura nata dalla riflessione sul fascismo, sulla seconda guerra mondiale e sull’agonia del sistema europeo degli Stati. Ma ora è venuto il tempo, per il federalismo, di esprimersi compiutamente con la prospettiva mondiale che ci è imposta dai problemi del futuro del genere umano.

 

 

 

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