IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXII, 2020, Numero 3, Pagina 257

 

 

RIFLESSIONI SU POLITICA E SOVRANITÀ

 

 

1. Appunti e suggestioni dal convegno MFE di Firenze.

 Il recente convegno MFE di Firenze “Il federalismo e i concetti di potere politico, potenza, statualità e sovranità” ha offerto spunti interessanti per approfondire temi che solo in apparenza sono teorici, in quanto comportano rilevanti conseguenze pratiche sull’intera nostra esistenza collettiva.

Come ha osservato Umberto Morelli nel suo intervento,[1] l’evoluzione storica dal crollo del muro di Berlino in avanti sembra procedere dall’iniziale divisione del mondo in due blocchi ad uno scenario fondato sul disordine delle nazioni; il modello vestfaliano ha dominato per secoli, grazie anche al fatto che la sua validità universale “derivava dalla sua natura procedurale, cioè neutrale rispetto ai valori”.[2] Ma i tre fattori fondamentali che lo hanno qualificato da sempre, e cioè sovranità, territorio e popolazione, sono ora sempre più limitati dall’interdipendenza globale, che è caratterizzata anche (ma non solo) dall’esistenza di soggetti politici che si trovano sopra e sotto gli Stati, organismi sovranazionali ed entità decentrate (Regioni, Länder, Contee, eccetera). Sbaglia quindi chi afferma che l’Unione europea sia un’entità sovranazionale che limita la sovranità degli Stati membri, perché questa è stata già, di fatto, limitata dalla situazione post vestfaliana che si è venuta a creare dal 1989 e, aggiungerei, dal 2001 con gli accordi di Doha che hanno liberalizzato il commercio mondiale senza stabilire regole, spalancando così porte e finestre al dumping internazionale e a nuovi players mondiali, prima fra tutti la Cina.[3]

L’Unione, in questo contesto mondiale profondamente mutato, non è perciò un vincolo o un freno, come i sovranisti raccontano nelle loro narrazioni, ma è una protezione dalle limitazioni di sovranità che, di fatto, già esistono nel mondo; e la sua importanza, per la stabilità interna ed esterna al continente europeo, si è accresciuta in questi ultimi decenni rispetto alla seconda metà del secolo precedente, e questo proprio in virtù del mutato scenario internazionale dal 1989 (e dal 2001) in avanti. Ecco perché, oggi più che mai, è necessaria una Unione federale e pienamente sovrana.

Non dimentichiamoci che il progetto dell’unificazione europea, peraltro ancora in itinere, non ha garantito di per sé settant’anni e più di pace in Europa, ma è stato possibile proprio perché qui e non altrove si sono create le condizioni per una pace duratura; certo, le cose potevano andare diversamente, l’asse franco-tedesco avrebbe potuto essere un nuovo conflitto franco-tedesco, la ragione ha prevalso su ogni altra considerazione soggettiva e localistica, ma se siamo riusciti a far arrivare l’Unione europea dove è oggi, non dimentichiamolo, è perché in Europa occidentale abbiamo goduto, per settant’anni e più, della grande pax americana, in primis con l’ombrello protettivo della NATO, che è stata la premessa fondamentale da cui è potuto partire, e svilupparsi, il progetto europeo. Questo, peraltro, non è accaduto in altre parti del mondo, non è successo in America Latina, travagliata nei decenni dal susseguirsi di dittature e di regimi populisti, e non è successo in Asia, dove pure gli americani, in chiave di contenimento del comunismo, avevano promosso organizzazioni di difesa come SEATO e Anzus ma si sono alleati, sovente e consapevolmente, con i soggetti sbagliati: ricordiamoci che il paese cardine della SEATO era la Persia dello Scià, e abbiamo visto come è andata a finire dal 1979 in avanti. In Indocina, i referenti erano dittatori senza scrupoli, e anche lì la storia non ha dato ragione al modello della pax americana, che laddove è stato applicato a paesi non democratici ha prodotto fallimenti. In Europa, grazie al consolidarsi delle democrazie rappresentative, sostenute all’inizio da quel fondamentale progetto che fu il Piano Marshall, le cose come ben sappiamo sono andate diversamente e nonostante che in alcuni paesi, in testa l’Italia, vi fossero potenti partiti comunisti organizzati e sostenuti finanziariamente dall’Unione Sovietica, e questo fino a tutta l’era Gorbačëv.[4] Collassato il comunismo dell’Est, i partiti comunisti occidentali si sono riconvertiti rapidamente, ma mentre i nostalgici del comunismo sono poi diventati in larga parte sovranisti, la riconversione dei partiti ex-comunisti ha offerto un contributo significativo al progetto europeo insieme alle forze liberali, a quelle tradizionalmente socialiste democratiche e a quelle del mondo cristiano e cattolico (altro soggetto fondamentale quest’ultimo, senza il quale nulla si sarebbe potuto fare di ciò che è stato fatto). Quell’Unione che peraltro è ancora oggi un ircocervo,[5] o un “animale ermafrodita” come l’ha definita Giuliano Amato,[6] o ancora come la “barca di Neurath”[7] nelle parole di Salvatore Veca, e cioè è come un veliero che è in continua riparazione, e questo però avviene mentre naviga.
 

2. L’importanza del concetto di sovranità e le sue relazioni con l’agire politico.

Nel convegno MFE di Firenze si è discusso a lungo, e in modo molto articolato, di sovranità. La sovranità, ha osservato Giulia Rossolillo,[8] implica il fondamentale potere di decidere e in Europa, in ultima istanza, sono ancora gli Stati nazionali esistenti che continuano ad esercitare questo potere. In particolare, l’Unione europea non ha il monopolio della forza legittima, ma non ha nemmeno il monopolio della politica estera (e non si vede come potrebbe averlo, non possedendo una difesa comune); ce ne siamo accorti in varie occasioni, ed in modo particolarmente spettacolare durante la crisi libica che ha portato al rovesciamento della dittatura di Gheddafi: francesi e inglesi decisamente interventisti contro la dittatura, la Germania neutrale e l’Italia che non sapeva che fare, vincolata com’era da un lato da accordi formali di non belligeranza con la Libia e da rapporti informali di amicizia fra leader, ma dall’altro interessata anche a non essere messa da parte di fronte agli enormi interessi economici legati alla produzione di petrolio di quel Paese; abbiamo poi visto come è andata a finire, con la conseguenza che la Libia è, ancora oggi, uno dei tanti vicini fortemente instabili dell’Unione europea.

Il risultato è una situazione di insicurezza collettiva che produce angoscia esistenziale, ma attenzione perché, come ha precisato la Rossolillo, non è la sovranità che oggi è in crisi, lo sono le sue attuali manifestazioni istituzionali; e i valori vanno collegati ad istituzioni in grado di tutelarli. Come scriveva Norberto Bobbio: “Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico”.[9]

Lo Stato è la forma organizzata in cui si è manifestata la democrazia moderna, non è perciò qualcosa di cui si possa fare a meno; le stesse multinazionali, è stato osservato, sono potenti in funzione di ciò che gli Stati permettono loro di fare: si pensi solo alla pervasività dello Stato in Cina e ai limiti imposti alla libertà di espressione, nelle piazze reali come in quelle virtuali del web. La sovranità politica identifica quindi il soggetto che ha il potere di decidere in ultima istanza; e da questo potere di ultima istanza discendono, o dovrebbero discendere, anche tutti gli altri poteri di ultima istanza: dal prestatore di lavoro di ultima istanza che è lo Stato interventista, in grado di creare lavoro dal nulla, al prestatore di denaro di ultima istanza, che è la Banca Centrale in grado, anch’essa, di creare denaro dal nulla (e qui c’è un aspetto interessante della Bce, che sta funzionando molto bene pur non essendo fondata su una sovranità europea).

La realtà però, come è stato osservato, è che una sovranità piena è impossibile in un mondo diviso e globalizzato come quello attuale; e la prevalenza di interessi soggettivi in capo ai diversi attori politici, nel contesto post-vestfaliano in cui ci troviamo a vivere non può che portare a condizioni di anarchia e quindi, alla fine, al prevalere della forza sul diritto. Una situazione che è massimamente pericolosa in un contesto in cui, per dirla con Kupchan, “nessuno controlla il mondo”,[10] ma in cui vi sono nove potenze nucleari ed altri Stati che vorrebbero, in nome della loro sovranità e “sicurezza”, poter costruire e possedere loro stessi gli ordigni nucleari. Bobbio osservò a suo tempo che la bomba atomica mise fine alla seconda guerra mondiale, ma in un mondo siffatto l’atomica potrebbe essere lo strumento di una volontà di potenza che, in modo totalmente irresponsabile e criminale, ma assolutamente possibile, volesse partire per prima: “Se una guerra atomica scoppierà, sarà solo sul presupposto che sia possibile un attacco di sorpresa".[11]

L’unità del genere umano per Kant e per i federalisti dovrebbe essere il fine ultimo della politica, e solo una federazione mondiale, necessariamente democratica e pluralista (quindi l’opposto di quell’“impero del male” di cinematografica e fantascientifica memoria, costruito peraltro sul modello nazista) può far sì che i rapporti fra le diverse comunità locali (diverse per lingua, storia, tradizione, cultura, religione, economia) possano essere regolati dal diritto e quindi crearsi le condizioni per la pace in senso kantiano. Uno scenario oggi peraltro non praticabile, a causa della preponderanza demografica, oltre che economica, di Stati tutt’altro che democratici come la Cina (ma non solo); ed avere un “governo mondiale” a trazione comunista cinese non creerebbe propriamente le condizioni per realizzare “il migliore dei mondi possibili”. Meglio dunque soprassedere, almeno nel nostro tempo, dal perseguire quel genere di progetto, concentrando la nostra attenzione e il nostro impegno, invece, sul federalismo europeo.

La sovranità richiede necessariamente fasi costituenti, e fino ad ora si è manifestata nella compresenza, contemporanea, di sovranità, Stato e popolo; un “popolo” che peraltro si forma in quel momento, durante la fase costituente, non prima, e che nel passato anche recente (si pensi solo alla vicenda iugoslava), si è costituito a partire da una nozione etnica e di sangue che è inaccettabile per ogni federalista. La sovranità, ha osservato Carlo Galli, si costituisce però non per accordo, per “contratto”, ma con lacrime e sangue; sono le guerre, le guerre civili e le rivoluzioni, secondo la lettura che Galli propone delle vicende storiche, a determinare la sovranità: “La forma che il potere costituente assume più di frequente è la rivoluzione, il grande nemico ma anche il grande motore della sovranità. (…) Il ciclo sovranità-rivoluzione è l’asse della politica moderna.”[12] E questo è anche, a mio avviso, il punto cruciale del dibattito in corso sulla sovranità, perché l’Unione europea, nel suo processo – faticosissimo e tuttora in itinere – si sta costruendo senza rivoluzioni, senza guerre (a parte la seconda guerra mondiale che però hanno vissuto generazioni che non sono le protagoniste attuali della costruzione di una sovranità europea, anche se in molti casi lo sono i loro figli e nipoti, consapevoli delle lezioni tragiche della Storia) e senza guerre civili (come accaduto, invece, nella storia americana). Possiamo presumere che l’Unione europea possa costituirsi in forma federale e non come oggi che è un essere ermafrodita, né maschio né femmina (per dirla ancora con Amato) a partire da un processo di riforme anziché secondo lo schema “amico-nemico”? Il punto è dirimente, perché la costruzione teorica di Galli, per come la interpreto io, si basa sul criterio del “politico” proposto da Carl Schmitt: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”,[13] cioè chi stabilisce l’ordine, la norma, la legge a partire da una situazione non regolata (che può esistere indipendentemente dal soggetto che diviene sovrano ma può anche essere determinata da quest’ultimo, Hitler insegna); mentre la politica, per Schmitt, non viene a coincidere con la sovranità, cioè con la risoluzione delle situazioni di eccezione, ma discende dalla contrapposizione fra “amici” e “nemici”, amici e nemici pubblici. In pratica, sostiene Schmitt, il criterio per distinguere ciò che è politico da ciò che non lo è è la massima contrapposizione fra amici e nemici (pubblici) la cui massima intensità è la guerra: “La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico.”[14] Nella sua visione, fortemente influenzata dall’epoca in cui viveva (il politologo tedesco fu, come noto, estimatore del nazismo), Schmitt finiva però con l’identificare nell’eccezione il contesto in cui si viene a determinare l’azione politica; e quale stato d’eccezione più grande ci può essere della guerra? La pandemia da Covid-19 è forse peggio di una guerra mondiale? Forse solo un grande meteorite che ci cade sulla testa o un’invasione aliena può essere peggio della guerra fra umani, in particolare la guerra moderna (per non parlare poi della guerra atomica), e Schmitt ha dunque ragione nel considerarla la massima intensità della distinzione amico-nemico. Ma non è possibile credere che la distinzione amico-nemico sia l’unica modalità con cui si svolge quel fenomeno, o quell’insieme di fenomeni, che chiamiamo “politica”;[15] sostenere una tesi di questo genere vuol dire, semplicemente, considerare non politici tutti i processi di riforma che hanno interessato e stanno tuttora interessando la storia umana, specialmente quella a noi più recente: vuol dire negare che sia politico l’intero processo di costruzione del welfare state, o che non fosse politico il programma del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, considerato da taluni come il più grande esempio di attività di riforma della storia. Possiamo credere che oltre alle rivoluzioni, alle guerre e alle guerre civili che si fondano, queste sì, sulla distinzione amico-nemico, ci siano anche attività di riforma che non si fondano sulla distinzione amico-nemico ma che, al pari delle rivoluzioni, delle guerre e delle guerre civili, sono a tutti gli effetti e a pieno titolo fenomeni politici? E come possiamo escludere del tutto che le “fasi costituenti”, anche quelle più rilevanti, possano determinarsi per via di riforma, consensuale e non conflittuale, ma solo con guerre, guerre civili e rivoluzioni?

Dobbiamo, prima di tutto, intenderci sul significato della parola politica, perché ritengo che intorno a questo concetto si sia fatta molta confusione. Si va dalla distinzione amico-nemico di Carl Schmitt, secondo cui è politico solo ciò che implica conflitto, per cui la guerra diventa l’attività più politica di tutte (ma stiamo scherzando?), al “politico di professione” di Max Weber che ci porta, nelle sue conseguenze più estreme, ad affermare che il sindaco di una città, nel momento in cui provvedere a che vengano sistemate le buche nelle strade, fa politica. Ma siamo sicuri di ciò? La distinzione fra ciò che è politico e ciò che non lo è, secondo me (e ci tengo a precisare che è una mia opinione personale, che naturalmente può essere contraddetta, visto che non c’è accordo su cosa sia la “politica”) è implicita nella definizione di sovranità di Carl Schmitt citata, e cioè che il “sovrano” è colui o coloro (individuo o gruppo) che decide sullo “stato d’eccezione”: questo significa che il “sovrano” e il “politico” sono la stessa cosa, che vengono a coincidere? Andate a spiegarlo al re di Francia nel 1789, o allo zar di Russia nel 1917, che lui era “sovrano” e anche “politico”; e i bolscevichi dove li mettiamo? E i rivoluzionari francesi? Il “sovrano” è un soggetto, rappresenta uno stato di fatto in un territorio ed in un certo istante della lunga e variegata storia umana: è l’individuo, il gruppo, l’istituzione (quest’ultima sempre però rappresentata, incarnata, da esseri umani fisici, identificati e identificabili) che in un certo momento, in un certo luogo e in un certo contesto decidono le regole di comportamento collettivo di una data comunità umana. Nel 1785 in Francia c’era un sovrano, ben identificato, nel 1795 ce n’era un altro, altrettanto identificato; in Russia nel 1900 c’era un sovrano (lo zar) ma nel 1920 il sovrano era un altro, e cioè il partito comunista sovietico. Politico, invece, non è un soggetto ma è un processo, è il processo soggettivo (cioè portato avanti da esseri umani in carne ed ossa, quindi non dal caso, da divinità, dalla Provvidenza o dalle “ferree leggi storiche” di hegeliana e marxiana memoria) di cambiamento delle regole che ordinano una comunità umana. La rivoluzione russa è stata un fenomeno politico? Perbacco, ha interessato le istituzioni dello Stato russo (Lenin e il partito comunista sostituirono lo zar) ma anche l’economia, abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione ed introducendo la pianificazione economica collettivistica, una novità assoluta per la storia moderna: la rivoluzione d’Ottobre è stata quindi un fenomeno storico ad altissima intensità politica. E il processo di costruzione dell’Unione europea, lunghissimo, caratterizzato da frequenti stop and go e che è tuttora in corso, è un processo politico oppure no? Una intuizione fondamentale dello stesso Schmitt è quella che afferma che lo Stato ha perso il monopolio del politico: Schmitt sbagliò nell’identificare nella distinzione amico-nemico il criterio per distinguere ciò che è politico da ciò che non lo è, perché quella distinzione spiega solo una parte dei fenomeni politici e non tutti, ed in particolare dimentica l’attività di riforma, che non ha bisogno del conflitto per produrre esiti; dimentica, cioè, che si possono cambiare le regole del gioco anche con la cooperazione e con l’accordo, basato sul consenso, che peraltro i filosofi politici del Contrattualismo consideravano non a caso a fondamento della legittimità e, quindi, della sovranità stessa. Ma Schmitt ebbe alcune altre intuizioni che a mio avviso sono di grande rilevanza, e che possono tornarci utili nel tentativo di costruire un modello di agire politico alternativo alla distinzione amico-nemico (ma anche al “politico di professione” descritto da Max Weber, di cui non ci occuperemo in questa sede perché meno rilevante ai nostri fini, che qui riguardano il dibattito sulla sovranità europea). Tre sue intuizioni, in particolare, si rivelano fondamentali nella costruzione teorica che qui propongo: la definizione di sovranità strettamente connessa allo “stato d’eccezione”, l’idea che lo Stato possa non avere (o possa perdere) il monopolio del “politico” e, ultima ma non ultima, l’intuizione di grande rilevanza secondo cui i “processi politici” possono essere accompagnati (preceduti, seguiti) da processi di neutralizzazione dell’azione politica stessa. Il lungo processo storico di costruzione dell’Unione europea che, abbiamo detto, è tuttora in itinere ed è caratterizzato da frequenti stop and go, è un esempio da un lato dell’idea che lo Stato possa perdere il monopolio del “politico”, in quanto gli Stati nazionali europei continuano, tutti, a conservare il monopolio della difesa e quello della politica estera, ma alcuni fra loro hanno rinunciato alla sovranità monetaria e il “battere moneta”, ricordiamolo, è un elemento fondamentale, costitutivo dello Stato di matrice vestfaliana, insieme alla difesa e alla politica estera;[16] dall’altro che una serie di neutralizzazioni, a partire dal rifiuto francese della CED (la Comunità Europea di Difesa) fino ai referendum che bocciarono la Costituzione europea, possono bloccare il processo politico in corso. Il fenomeno della neutralizzazione politica non è certo presente solo nella storia dei tentativi falliti di unificazione europea: in Italia si potrebbe scrivere un libro molto voluminoso sulle diverse neutralizzazioni di vari tentativi di attività di riforma, neutralizzazioni che, dal dopoguerra ad oggi, hanno ingessato le istituzioni, parte dell’economia e più in generale le regole stesse del gioco collettivo nel nostro Paese, producendo tutte quelle conseguenze negative che ci hanno portato ad essere (ben prima dell’arrivo della pandemia) un paese “malato” e che i sovranisti, in un fenomenale gioco di prestigio, attribuiscono invece al “nemico” europeo (torna qui il criterio del politico di Schmitt basato sulla distinzione amico-nemico, di cui i sovranisti hanno assoluto bisogno ed a cui attingono a piene mani per rendere coerenti le loro teorie). Ciò che Schmitt chiama “sovranità” altro non è, secondo me, che l’esercizio efficace del processo politico (efficace, attenzione, non sempre vuol dire efficiente, e neppure legittimo), e questo può avvenire per via conflittuale ma anche per via cooperativa: la contrapposizione fra “sovranisti” e “federalisti” è anche, quindi, una contrapposizione fra conflitto e cooperazione, fra due modelli opposti che orientano i cambiamenti delle regole del gioco collettivo, e cioè il modello amico-nemico e il modello contrattualista, fondato invece sull’accordo consensuale (e pacifico) fra le diverse parti e componenti dell’insieme collettivo.

Il sovrano, quindi, altro non è che lo status che in un certo momento e in un certo luogo assume il soggetto del processo politico nei confronti di una certa comunità umana; in un determinato contesto, politico e sovrano sono la stessa cosa, si incarnano cioè nella stessa persona o gruppo di persone: le due identità, in quel momento e luogo particolari, e per quella specifica comunità umana, vengono a coincidere. Questo non significa, naturalmente, che coincidano sempre; anzi, spesso non coincidono affatto perché ci sono i disobbedienti. La sovranità, per esser tale, ha evidentemente bisogno dell’obbedienza, il sovrano è tale perché può imporre il rispetto delle regole da lui stesso stabilite; ma attenzione: il processo politico si fonda su atti di disobbedienza e non di obbedienza. E non sta scritto da nessuna parte che la disobbedienza porti necessariamente al modello politico dell’amico-nemico: senza scomodare Gandhi e la sua teoria e pratica della nonviolenza (con cui cambiò le regole del gioco collettivo in India), tutte le attività di riforma sono in realtà atti di disobbedienza, talvolta anche di disobbedienza radicale, in quanto modificano – in tutto o in parte – lo status quo, le regole del gioco vigenti. Questo concetto è stato analizzato in modo esaustivo da un grande pensatore del secolo scorso, Erich Fromm, di cui non si occupa la teoria politica contemporanea ma che ritengo essere, ancora oggi, un gigante della filosofia politica moderna;[17] così come il concetto di “regola”, ed in particolare delle “regole del gioco”, è stato proposto non da un politologo, o da un filosofo della politica, bensì da un economista, Douglass C. North[18]. Segno evidente che diventa necessaria l’interconnessione fra discipline diverse come l’economia, la psicologia, la filosofia e la sociologia per lo studio e la comprensione dei fenomeni politici.
 

3. La nuova sovranità dell’UE dopo la Conferenza sul Futuro dell’Europa.

Se dunque escludiamo i grandi players mondiali, tutti gli altri Stati nazionali sono diventati così deboli da incontrare sempre più resistenze, anche al loro interno; e tuttavia, in Europa le decisioni dell’Unione dipendono dagli Stati membri che le possono bloccare (torna ancora, e a gran forza, il tema della neutralizzazione politica, si vedano ad esempio i recenti “veti condizionati” al Recovery Plan): il grande paradosso dell’Unione è che una sovranità europea ancora non esiste, e per contro le sovranità nazionali sono indebolite. Una debolezza che però non dipende dall’esistenza di un’architettura europea che ne limita la “potenza”, come sostengono i sovranisti, bensì dall’esistenza da un lato di soggetti che già di fatto hanno dimensioni economiche, demografiche e territoriali che sono a tutti gli effetti continentali (Stati Uniti, Russia, Cina, India) e di fatto governati da istituzioni che sono già ovunque, tranne che in Cina, di tipo federale (sebbene non tutte democratiche); ma dall’altro dipende anche dal fatto innegabile che vi sono problemi globali che i singoli Stati non sono in ogni caso in grado di gestire da soli, dal cambiamento climatico all’immigrazione, dalle pandemie alla proliferazione nucleare.

Ma un governo, ha osservato Paolo Acunzo nel suo intervento al convegno, è restio a cedere parti della propria sovranità ad un organismo superiore, e lo fa solo quando è obbligato. Il potere sovranazionale si esprime al livello federale ed è qui, osservo, che si rende necessaria una vera e propria “rivoluzione copernicana” o, se vogliamo esprimerci in modo diverso, è qui che serve un fondamentale atto di disobbedienza (per dirla con Fromm), in particolare nel rapporto conflittuale che tuttora permane fra il Parlamento europeo (unica istituzione eletta democraticamente dai cittadini europei) e il Consiglio che rappresenta invece gli interessi particolari degli Stati nazionali, ciascuno dei quali (anche i più piccoli) dotati di diritto di veto. E l’unica riforma in grado di realizzare un autentico federalismo europeo, a mio avviso, è quella che riuscirà a sostituire le Regioni, i Länder, le Contee, agli Stati nazionali; occorre cioè una grande riforma federalista verso l’alto (costitutiva della Repubblica federale europea), ma anche una grande riforma federalista verso il basso: l’Unione europea è infatti costituita da 27 Stati sovrani, ma anche da circa trecento regioni ciascuna delle quali con proprie caratteristiche economiche, culturali, linguistiche, persino religiose. È necessario quindi, a mio avviso, che dalla prossima Conferenza sul Futuro dell’Europa emerga una proposta istituzionale forte, e collettivamente condivisa, che da un lato dia poteri legislativi effettivi al Parlamento europeo, e che dall’altro doti il Parlamento stesso di una seconda Camera che, secondo la mia opinione, non dovrebbe essere eletta a suffragio universale diretto come la prima (e ancor meglio se con liste transnazionali come proposto da Macron), ma dovrebbe invece essere costituita dai Governatori e Presidenti delle trecento regioni europee, ciascuno dei quali peraltro eletto a suffragio universale nella propria Regione, Land o Contea, in base ad un’unica legge elettorale europea. Lo stillicidio del dibattito sulle riforme elettorali che frustra la politica italiana non ha senso, da questo punto di vista: le leggi elettorali, come la moneta, la difesa e la politica estera, dovrebbero sempre essere materie esclusive dell’Unione europea, e come tali uguali per tutti; ma questo non sarà possibile fino a che continueremo ad avere l’attuale sistema intergovernativo, fondato peraltro sul reciproco potere di veto in capo agli Stati (sovrani). Il potere legislativo del Parlamento europeo, col coinvolgimento diretto dei rappresentanti delle regioni e le decisioni prese a maggioranza, creerà invece nuove alleanze che renderanno del tutto superate le attuali divisioni fra Stati: il governatore della Lombardia potrebbe votare insieme a quello della Baviera, il governatore della Campania potrebbe trovare nell’Andalusia un alleato prezioso nel far passare le proprie proposte. Anche la questione linguistica va risolta: con l’uscita del Regno Unito non può continuare ad essere l’inglese la sola lingua in cui tutti i documenti dell’Unione vengono prodotti; ogni singolo atto, ogni dichiarazione, ogni documento deve essere tempestivamente disponibile nelle quattro lingue più diffuse dentro i confini dell’Unione, e cioè il francese, il tedesco, l’italiano e lo spagnolo, e poi essere tradotto anche nelle altre lingue, lasciando certamente anche l’inglese, ma non dimenticando che le lingue comunemente parlate dai cittadini entro i confini dell’Unione hanno e devono avere la priorità. Anche il loro insegnamento dovrà essere incentivato in tutte le scuole dell’Unione, perché la questione linguistica non è marginale, e va affrontata in quanto la propaganda sovranista non ha mai abbandonato la tesi secondo cui proprio le differenze linguistiche sono uno dei maggiori ostacoli alla federazione europea. Occorre cioè evitare la “sindrome persiana” (alla corte dello Scià si parlava inglese, mentre sul territorio si preparava la rivoluzione khomeinista), avvicinando quindi tutti i cittadini, anche linguisticamente, agli atti dell’Unione.

La politica a mio avviso non è dunque, come è stato osservato seguendo Weber, l’aspirazione a partecipare al potere: anche un manager di una multinazionale può aspirare a diventare amministratore delegato della stessa, un ruolo certamente di grande potere perché questa azienda potrebbe avere un bilancio persino più grande di tanti Stati sovrani; però non diciamo che quel manager “fa politica”, o se anche lo diciamo (riferendoci ai rapporti interni alla multinazionale o al suo settore di appartenenza) intendiamo parlare di un’attività politica estremamente ristretta, salvo eccezioni (come potrebbe essere stato, ad esempio, il cambiamento nei comportamenti collettivi introdotto da quelli che ora sono diventati i giganti del web). La politica, infatti, utilizza il potere come mezzo per cambiare le regole dei comportamenti collettivi, ma nel far ciò si configura come qualcosa di ben diverso sia dall’attività di amministrazione ordinaria della cosa pubblica (che pure è importante e che viene valutata in base a criteri di efficienza), sia dalla partecipazione alla divisione della “torta” di cariche ed incarichi nelle istituzioni pubbliche. Ed è peraltro assolutamente vero, come ha osservato Stefano Castagnoli, che la politica (da intendersi nella mia proposta come processo soggettivo di cambiamento delle regole del gioco collettivo) implica il principio di responsabilità (Jonas), perché una politica priva di senso di responsabilità per il prossimo ti porta dritto verso il totalitarismo.[19] La leadership è responsabilità e non potere, e ha ragione Castagnoli quando nel suo intervento, riferendosi a Sturzo e Rosmini, ha evidenziato come la politica – la buona politica – debba essere intesa come capace anche di mettere un limite al potere; il ruolo principale dei decisori politici deve essere quello di consentire al mondo di essere governato nel miglior modo possibile e in condizioni di stabilità, pace, democrazia, e l’Unione europea non può mancare questo appuntamento con la Storia, perché così pregiudicherebbe la sicurezza, la prosperità e il futuro di tutti, non solo quindi il nostro e quello dei nostri figli (che già per il quale vale la pena impegnarsi e combattere), ma del mondo intero.

Gianpiero Magnani


[1] Umberto Morelli, La politica di potenza. L’Unione europea e il sistema internazionale, Il Federalista, questo numero, p.170.

[2] Henry Kissinger, Ordine mondiale, Milano, Mondadori, 2015, p. 361.

[3] Patrizio Bianchi, Globalizzazione, crisi e riorganizzazione industriale, Milano, McGraw-Hill Education, 2014.

[4] Si veda, a tale proposito, l’interessante ricostruzione storica di Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 2016, pag. 237 e nota 5.

[5] Così si esprimeva Croce a proposito del socialismo liberale di Carlo Rosselli.

[6] Giuliano Amato, L’Unione ermafrodita, Mondoperaio, 9-10 (2013), pp.33-38; https://www.mondoperaio.net/archivio-rivista/n-9-102013-settembre-ottobre-2013/.

[7] Salvatore Veca, Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista, Milano, Feltrinelli, 2019, p. 121; si legga anche l’articolo di Id., La barca di Neurath, Mondoperaio 5/2015, pp. 35-40; https://www.mondoperaio.net/archivio-rivista/n-52015-maggio-2015/.

[8] Giulia Rossolillo, Sovranità, Il Federalista, questo numero, p. 192.

[9] Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. 16.

[10] Charles A. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, Milano, il Saggiatore, 2013.

[11] Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 65.

[12] Carlo Galli, Sovranità, Bologna, Il Mulino, 2019, p. 22

[13] Carl Schmitt, Le categorie del “politico”, Bologna, il Mulino, 1972, p. 33.

[14] Carl Schmitt, op. cit., p. 117

[15] Ho approfondito questo tema in particolare nell’articolo La buona politica, in Mondoperaio 4/2019, p. 67-80, https://drive.google.com/file/d/1Hd_vVNFMS4gC5ofrBL0JFr_5XkpIXk3m/view.

[16] Non è corretto, a mio avviso, distinguere la sovranità monetaria, in capo all’Ue e alla Bce, dalla sovranità “politica” che resta in capo agli Stati, perché anche la sovranità monetaria è politica, e precisamente diventa politica nella fase di definizione delle nuove regole monetarie.

[17] Erich Fromm, La disobbedienza e altri saggi, Milano, Mondadori, 1988.

[18] Douglass C. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Bologna, Il Mulino, 1994.

[19] Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2009.

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia