IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXII, 2020, Numero 3, Pagina 220

 

 

BIELORUSSIA, RUSSIA E UNIONE EUROPEA

 

 

La dissoluzione dell’Unione Sovietica venne sancita definitivamente nel 1991 quando, dalle sue ceneri, sorsero quattordici nuove Repubbliche indipendenti. Le Repubbliche che un tempo costituivano l’URSS fungevano ora, per la nuova Russia, da Stati cuscinetto sia ad Occidente, verso l’Unione europea, sia ad Oriente lungo i vasti confini asiatici. Una di queste nuove Repubbliche, che si affacciava per la prima volta sulla scena politica internazionale come Stato sovrano, è la Bielorussia.

Tutte le nuove Repubbliche agli inizi degli anni Novanta, si dettero una nuova costituzione e una forma di governo di tipo presidenziale. La Bielorussia mantenne, dopo l’approvazione del testo costituzionale del 1994, l’assetto amministrativo ed economico lasciato in eredità dall’URSS. La vita del cittadino bielorusso non mutò quindi con il passaggio dall’URSS al nuovo Stato indipendente. Lo stesso anno in cui fu scritta la Costituzione si tennero le uniche libere elezioni riconosciute dal mondo occidentale. Tra i sei candidati a vincere fu Aljaksandr Lukasenka che proveniva dalle fila del PCUS: da allora ha governato ininterrottamente il paese in qualità di Presidente. In più di una occasione Lukasenka si è vantato di aver votato contro la decisione di sciogliere l’URSS (era membro della Duma) e non a caso ha agito sin dal primo mandato per confermare un assetto istituzionale che rimandava a quello sovietico. Una posizione che ha sempre difeso, andando anche contro un aforisma spesso citato da Vladimir Putin: “Chi non rimpiange l’Unione Sovietica non ha cuore, chi vorrebbe resuscitarla non ha cervello.”

Lukasenka ha sempre sostenuto il modello statale e politico che aveva difeso in URSS anche come ufficiale dell’esercito dell’Armata Rossa tra il 1975 e il 1982 e come istruttore nella sezione affari politici. Un uomo, quindi, pienamente inserito nell’apparato statale sovietico.

La Bielorussia, come molte delle altre nuove Repubbliche,[1] mantenne da subito stretti legami politici ed economici con la nuova Russia, un legame che negli ultimi anni era divenuto meno forte sino ad incrinarne i rapporti: la crisi dell’agosto 2020 l’ha però di nuovo rinsaldata.
 

La Bielorussia e la Russia di Putin.

Sin dai tempi dell’organizzazione industriale dell’URSS, le più importanti raffinerie di prodotti petroliferi e minerari erano concentrate in Bielorussia. Da qui i prodotti raffinati venivano e vengono ancora oggi esportati principalmente verso la Russia e verso le altre Repubbliche che, insieme alla Bielorussia, costituiscono la UEEA, l’Unione Economica Euro-Asiatica.[2]

L’economia del paese è fortemente condizionata dalle attività industriali legate al settore minerario, ma il vincolo con la Russia è dato dalla necessità di importare petrolio e gas di cui non dispone. La Bielorussia importa il 99% del proprio fabbisogno energetico dalla Russia cui rivende i prodotti raffinati. Questo vincolo rende Bielorussia e Russia due nazioni complementari anche perché in trenta anni di indipendenza e di governo, Lukasenka non ha modificato l’assetto industriale del Paese che, per altro, ha una industria agricola povera.

Sin dagli anni Novanta del secolo scorso, questa dipendenza energetica impose alle due nazioni di mantenere stretti rapporti con un iniziale forte vantaggio da parte della Bielorussia. In Russia non esistevano grandi raffinerie per rispondere alle richieste del mercato interno: da qui una politica di dumping nella vendita alla Bielorussia delle materie prime (petrolio e gas in primis), che rivendeva i prodotti finiti a prezzi di favore al proprio primo partner commerciale.

Tuttavia, questo vincolo poneva la Bielorussia in una situazione di totale dipendenza dalla politica energetica russa con inevitabili conseguenze. Sino al 2013 con i prezzi del petrolio oscillante intorno ai 100 dollari al barile (con punte oltre i 110) e con la vendita sotto costo della materia prima da parte della Russia, l’economia bielorussa ha goduto di trend di crescita del proprio PIL intorno a 7% annuo. Questo ha consentito al paese di risultare la più ricca tra quelli sorti dopo il crollo dell’URSS, di garantire ai propri cittadini il più alto reddito pro capite, pari ad oltre i 6.500 dollari annui, il più efficiente sistema sanitario e una alfabetizzazione della popolazione vicina al 100%. Questa situazione favoriva la popolarità di Lukasenka anche se guidava il paese con il pugno di ferro e imponeva al silenzio l’opposizione, costretta all’esilio o alla persecuzione. Per anni Lukasenka è stato indicato come l’ultimo dittatore d’Europa.

È noto come la Russia utilizzi da sempre la politica energetica come uno strumento di potere e di pressione nelle proprie relazioni esterne, sia che si tratti di Paesi alleati piuttosto che di Paesi con cui intrattiene relazioni commerciali, come nel caso della vendita del gas ai Paesi dell’Unione europea. Dal 2013 ad oggi però il calo della domanda di petrolio e le sanzioni che le ha applicato l’Occidente, hanno modificato l’efficacia e i risultati dell’uso politico nella vendita delle materie prime. È così che in conseguenza della crisi in Ucraina, dal novembre 2013, la Russia ha rivisto la propria politica dei prezzi anche nei confronti dei Paesi a lei più vicini, Bielorussia inclusa.

Va ricordato che il Pil della Russia è legato per il 60% alle attività estrattive del petrolio, del gas o di altre risorse naturali.[3] È quindi evidente che un crollo o una forte oscillazione dei prezzi petroliferi[4] incide pesantemente sull’economia russa che, per ovviare al calo delle entrate, rivede al rialzo i prezzi di favore che applica ad alcune nazioni. L’anno di svolta in tal senso è stato il 2013 quando, a novembre, si aprì la crisi in Ucraina. In quel mese il governo ucraino non siglò il trattato di Associazione all’Unione Europea e come conseguenza scoppiò una crisi politica che sconvolse il Paese portandolo alla guerra civile tra i sostenitori della Associazione e i sostenitori di una maggiore integrazione con la Russia che, con Putin, proponeva l’adesione alla UEEA e garantiva immediati e sostanziosi aiuti alle disastrate finanze ucraine. L’Ucraina si spaccò quindi tra i sostenitori della Associazione alla UE con manifestazioni in molte città in cui si sventolavano bandiere della UE e quelli contrari perché favorevoli ad una maggiore integrazione con la Russia. Quella divisione portò la regione orientale della Ucraina e per altro la più ricca, il Donbass, a proclamare la propria indipendenza con il pieno appoggio, anche militare, della Russia. Da quel momento nella regione a maggioranza russofona è in corso una guerra silenziosa che ha provocato la migrazione verso la Russia e verso l’interno dell’Ucraina, di quasi 2 milioni di cittadini e ha causato migliaia di morti. I rapporti tra Ucraina e Russia precipitarono definitivamente nel 2014 quando in Crimea si tenne un referendum a sostegno del distacco dalla Ucraina per ottenere la integrazione della regione con la Russia. Il referendum, non riconosciuto dall’Occidente, portò al distacco della Crimea dalla Ucraina.[5] Dal 2018 la penisola della Crimea è unita alla Russia da un ponte di 19 km costruito in poco più di un anno, a testimonianza dell’interesse russo per la regione e della volontà di tenere sotto pressione i governanti ucraini nonostante le sanzioni degli USA e della UE.

Come conseguenza della politica aggressiva della Russia verso l’Ucraina gli Stati Uniti, seguiti dalla UE, applicarono una serie di sanzioni economiche e finanziarie che hanno indotto il governo di Putin di rivedere la propria politica dei prezzi delle materie prime nel corso del 2014. Come conseguenza dell’aumento dei prezzi da quell’anno il PIL bielorusso iniziò a scendere con un aumento dell’inflazione, che ha così ridato vigore alle opposizioni al regime. Tra il 2015 e il 2017 si sono avute in Bielorussia manifestazioni di protesta represse con la violenza. Per altro nel 2015 si tennero nuove elezioni presidenziali e per la quinta volta Lukasenka venne rieletto con maggioranze bulgare. Per sedare in parte le proteste si avviarono timide riforme di stampo liberista anche se nel Paese il 70% delle attività economiche restavano sotto stretto controllo statale.

Le proteste di quegli anni in Bielorussia, mentre era nel pieno la crisi in Ucraina, non mutarono la politica e l’atteggiamento dell’Occidente: l’obiettivo della politica estera USA, assecondata dalla UE, restava quello di indebolire la Russia. Non a caso negli anni 2014-2015 gli USA proposero a Ucraina, Moldovia e Georgia di entrare a far parte della NATO, irrigidendo ulteriormente la posizione della Russia. La Guerra fredda era finita solo simbolicamente con il crollo del muro di Berlino, ma la paura verso la Russia restava immutata da parte della politica estera USA che riuscì a convincere tutti i paesi che un tempo facevano parte del Patto di Varsavia ad entrare a far parte della Nato. Nel contempo la UE favorì l’apertura e l’adesione di quelle stesse nazioni, portando così i propri Stati membri a 28. Dinanzi a queste iniziative la Russia rispose stringendo maggiori legami militari ed economici con la Cina, mentre nel 2015 si concretizzò il progetto di Putin di avviare la Unione economica Euro Asiatica (UEEA). Insieme alla UEEA tra gli Stati membri prese vita anche il Fondo Euroasiatico per la Stabilizzazione e lo Sviluppo (EFSD)[6] al fine di garantire aiuti finanziari in caso di crisi interne o internazionali. A questo Fondo è ricorsa la Bielorussia con la richiesta di un prestito di 500 milioni di dollari per aiutare le proprie finanze: va però ricordato che di questi milioni ben 300 andranno restituiti alla Gazprom, la principale azienda russa che si occupa della vendita di gas e petrolio, per saldare vecchi debiti legati alla fornitura di gas. Questo prestito è conciso con il rifiuto da parte di Lukasenka di accettare quello proposto dal FMI che però lo vincolava ad attuare nel paese restrizioni per contenere il coronavirus. Lukasenka rientra nel novero di quei Presidenti che nega i rischi del coronavirus.[7]
 

La Bielorussia e la UE

I rapporti della UE con la Bielorussia evidenziano ancora una volta un problema più generale legato all’atteggiamento da tenere verso la Russia.

Lukasenka è stato rieletto per la ennesima volta Presidente scatenando imponenti manifestazioni di protesta represse con inaudita violenza. Dinanzi alla repressione la UE ha espresso la propria indignazione dando piena solidarietà ai manifestanti e agli oppositori fuggiti all’estero o imprigionati. Va sottolineato come anche in occasione di questa rielezione, la UE non abbia riconosciuto la legittimità del voto, ma se in passato, di fatto, nulla veniva fatto oltre a rilasciare una semplice dichiarazione di condanna, oggi sono state applicate sanzioni e restrizioni a uomini dell’entourage di Lukasenka, senza però colpirlo in prima persona. Una presa di posizione dovuta alle circostanze, ma che dimostra la grande e grave debolezza politica della UE.

D’altro canto, se Lukasenka può governare la Bielorussia dal 1994, se le sue rielezioni sono sempre state dichiarate illegittime e governa il Paese con il pugno di ferro, la domanda da porsi è come sia possibile accettare tutto questo ai confini della UE. In realtà la situazione che si riscontra in Bielorussia è comune ad altre e numerose ex-repubbliche dell’URSS. In Azerbaigian, Kazakistan, Turkmenistan, Tagikistan gli stessi presidenti vengono rieletti dagli anni ’90 con elezioni farsa. All’elenco dobbiamo però aggiungere la stessa Russia, dove, dal 1999, Putin governa il Paese alternando il proprio ruolo da Primo Ministro a Presidente e dove, dopo il referendum costituzionale del luglio scorso, potrà continuare a governare sino al 2030. La democrazia in senso occidentale, come dichiarato da Putin nell’estate del 2019 al quotidiano Financial Times,[8] non può adattarsi alla Russia e alle sue ex-repubbliche. Le elezioni o i referendum popolari sono così utilizzati per dare una legittimazione popolare a governi in realtà di stampo autoritario.

Attaccare politicamente e direttamente Lukasenka chiedendone le dimissioni, significherebbe dover muovere le stesse accuse a Putin che, dopo un iniziale silenzio nel commentare la sesta rielezione, si è dichiarato disposto a sostenere in ogni modo il suo alleato. Le loro relazioni negli ultimi anni si erano incrinate dopo che, a seguito delle sanzioni, la Russia aveva imposto un rialzo dei prezzi delle materie prime, provocando nel Paese un calo del PIL, la recessione, il crollo dei salari (tornati al valore di quelli del 2010) e un sempre crescente debito verso Gazprom.[9] Nel 2019 Putin aveva proposto a Lukasenka di far confluire la Bielorussia a pieno titolo nella Russia, una proposta allora rigettata con sdegno. Le proteste popolari hanno indotto Lukasenka a riavvicinarsi alla Russia accusando l’UE e gli USA di fomentare le proteste e i disordini al punto di inasprire la repressione guidata dal KGB.[10] Una prova di forza che però non ha fatto cessare le manifestazioni nel Paese. Le proteste popolari e le dichiarazioni degli oppositori fuggiti all’estero dovrebbero indurre la UE a svolgere un ruolo di mediazione e pacificazione evitando gli errori commessi in occasione della crisi ucraina di cui ancora oggi si pagano le conseguenze. Questo ruolo potrebbe a maggior ragione essere importante ora che gli USA hanno mantenuto un basso profilo sulla crisi in corso in Bielorussia. Vi sono state da parte della Amministrazione USA generiche dichiarazioni di condanna dopo le violenze della polizia e la minaccia di sanzioni, ma nulla più. La crisi bielorussa è coincisa con le elezioni presidenziali e i temi della politica estera non sono stati al centro dell’attenzione né da parte di Trump né da parte dello sfidante Biden.

Le dimostrazioni di protesta si svolgono sventolando la bandiera della Bielorussia: non si inneggia né a una rottura con la Russia né ad un avvicinamento alla UE. In Ucraina il paese si era diviso tra due opposte fazioni, con gli USA che sostenevano, con il pieno appoggio della UE, la netta rottura con la Russia arrivando a proporne l’ingresso nella NATO. In Bielorussia gli eventi ucraini sembrano aver indotto gli oppositori ad individuare una “via nazionale” per evitare di schierarsi o contrapporsi all’Occidente o alla Russia. Si tratta di un tentativo che garantirebbe al paese di svolgere un ruolo di ponte tra est ed ovest che in Ucraina è fallito.

La politica estera statunitense dal dopoguerra ha puntato sempre, con una propria coerenza, ad un indebolimento dell’URSS prima e della Russia oggi e questo a prescindere che a governare fosse un Presidente repubblicano o democratico. Questa scelta, legittima da parte di una grande potenza e assecondata dagli europei, ha indebolito l’URSS di ieri e forse la Russia di oggi, ma di certo ha posto la UE dinanzi a tutti i propri limiti e in una posizione di fragilità economica e di sudditanza politica. La UE avrebbe la possibilità di svolgere un ruolo di mediazione tra est ed ovest, ma per poterlo svolgere dovrebbe avere una propria politica estera e di difesa, dovrebbe disporre di una propria politica energetica che, nel caso di alcuni Paesi membri, non la vincolasse alle forniture di gas della Russia.[11] Non disponendo di questa capacità, la UE per segnalare al mondo di avere una propria voce non può che limitarsi a dichiarazioni di condanna e a timide sanzioni ad alcuni uomini vicini a Lukasenka. Sino a quando la UE si limiterà ad appoggiare la politica estera USA, la credibilità e l’efficacia delle proprie dichiarazioni e le timide azioni resteranno vane, come purtroppo le vicende ucraine ci ricordano. Non c’è credibilità senza un potere in grado di sostenerla ed è questo che manca alla UE.

Le proteste popolari in Bielorussia rischiano di restare senza uno sbocco democratico, anzi, di sfociare in un inasprimento della repressione per di più con il sostegno della Russia che non vuole, ai propri confini, nazioni che le siano ostili[12]. Non è possibile immaginare uno scenario in cui con la Russia vi sia un dialogo che non sfoci inevitabilmente in uno scontro aperto come in Ucraina? Per ottenere questo obiettivo sarebbe necessario una Europa capace di agire in modo autonomo e che non si limiti a rilasciare dichiarazioni formali di condanna che purtroppo non garantiscono al popolo bielorusso il diritto alla democrazia. L’aspettativa è che la prossima Conferenza sul futuro dell’Europa sappia porre al centro del dibattito la questione di come garantire credibilità alle politiche dell’Unione: la risposta non potrà che essere quella di dotarsi di un governo che risponda al Parlamento delle proprie azioni in campo di politica estera e di difesa: altrimenti, senza potere, non vi potrà essere credibilità.

Stefano Spoltore


[1] Un percorso a sé stante lo tennero le tre Repubbliche Baltiche che dopo l’indipendenza divennero nel 2004 membri della UE e della NATO.

[2] Ne fanno parte la Russia, la Bielorussia, l’Armenia, il Kazakistan e il Kirghizistan. Putin si fece promotore della costruzione di un mercato regionale nel 2011, che entrò in vigore nel 2015.

[3] Fonte: www.ispionline.it, 2 dicembre 2019.

[4] Il prezzo del Brent al barile è passato dai 108 dollari del 2013 ai 43 del 2016, ha avuto una risalita nel 2018 a 71 per scendere ai 64 nel 2019. A settembre 2020, a causa anche della pandemia, è sceso a 41 dollari.

[5] Per un approfondimento della crisi in Ucraina si veda: Stefano Spoltore, L’Ucraina tra Est ed Ovest, Il Federalista,56 n. 1-2 (2014).

[6] Il capitale sociale della banca ammonta a 7 miliardi di dollari. Gli Stati membri detengono le seguenti azioni nel capitale: Russia 65,97%, Kazakistan 32,99, Bielorussia 0,99%, Tagikistan 0,03%, Armenia 0,01% e Kirghizistan 0,01%.

[7] La medicina che Lukasenka consiglia ai malati di coronavirus è una sauna e una bottiglia di vodka. Ha definito la paura per il coronavirus solo una pericolosa psicosi, nonostante ne sia stato ammalato, Il Messaggero, 9 maggio 2020.

[8] Financial Times, 27 giugno 2019.

[9] Il debito verso Gazprom è stato saldato con il ricorso al prestito all’EFSD (finanziato per oltre il 60% dalla Russia), dove il denaro prestato è così rientrato nelle casse della Russia.

[10] A riprova del legame ideologico di Lukasenka verso la vecchia URSS, dopo l’indipendenza non mutò la sigla della vecchia polizia di Stato sovietica.

[11] Repubblica Ceca, Ungheria e Bulgaria dipendono in toto dalle forniture di gas dalla Russia. Il resto della UE intorno ad una media del 25%. Si veda Il Sole 24 ORE, 24 aprile 2015 e Insideover.com, 31 ottobre 2019.

[12] Un’altra crisi politica è in corso in Kirghizistan, una piccola repubblica ex-sovietica schiacciata tra Russia e Cina. Qui la lotta politica si svolge tra bande armate che da trenta anni si contendono con alterne vicende la presidenza. Le ultime elezioni, palesemente truccate, hanno riacceso la lotta armata, si veda Corriere della sera, 29 ottobre 2020. Altre tensioni si sono riaccese tra Armenia e Azerbaigian (sostenuta dalla Turchia) per il controllo del Nagorno.

 

 

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