IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIII, 2011, Numero 1, Pagina 58

 

 

EUROPEISMO E FEDERALISMO
 
 
La crisi che sta investendo oggi l’Unione europea a causa della questione dei debiti sovrani dei paesi più deboli dell’area dell’euro sta mettendo a repentaglio drammaticamente la sopravvivenza dell’Unione monetaria e con essa dell’intera costruzione europea. Per i federalisti è pertanto cruciale capire come possono e come devono agire in questo contesto che mette in campo per gli europei l’alternativa radicale tra unirsi o perire.
I federalisti giungono a questo momento decisivo della storia europea dopo aver percorso un lungo cammino, durato settant’anni e caratterizzato da diverse fasi: quella della contestazione radicale delle scelte operate dai governi nazionali, imperniata sull’iniziativa del Congresso del popolo europeo; quella, fino agli anni Novanta, del gradualismo costituzionale, tesa a promuovere la realizzazione di obiettivi di natura politica (inclusa la moneta unica) che andassero ad interagire con l’interdipendenza materiale costruita dai governi con il processo di integrazione economica e a preparare la possibilità del salto federale a fronte delle palesi contraddizioni legate alla mancanza di un governo politico europeo (in un contesto in cui questo obiettivo costituiva ancora la prospettiva reale all’interno della quale il processo europeo evolveva). Dalla seconda metà degli anni Novanta, dopo la fine dell’equilibrio bipolare, e date le condizioni in cui si andava realizzando l’allargamento, vi è stata la fase in cui si è posto il problema di riuscire a mantenere in vita, indicandolo con chiarezza e portandolo nel dibattito politico, l’obiettivo della Federazione europea in un quadro in cui il perseguimento di questo obiettivo non era più ritenuto necessario e utile (in quanto esso non coincideva più né come dimensione, né come prospettiva politica, con il quadro comunitario dell’Unione europea). Per arrivare a questi ultimi anni in cui, con il manifestarsi come conseguenza della crisi economica e finanziaria della contraddizione, prevista dai federalisti, dell’esistenza di una moneta senza Stato, è tornata di attualità la battaglia per fare la Federazione europea nella confederazione.
Per affrontare con lucidità le sfide che ci attendono può pertanto essere utile cercare di analizzare molto schematicamente il senso della battaglia condotta sin qui dai federalisti e in particolare dal Movimento federalista europeo.
 
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A partire dalla caduta della CED, i federalisti hanno dovuto misurarsi con la difficoltà di mantenere in vita la battaglia per la Federazione europea a fronte del fatto che negli Stati non esisteva la volontà politica sufficiente per realizzare il necessario trasferimento di sovranità, pur nella consapevolezza diffusa che perseguire l’unità europea era vitale per ciascun paese. Fino al 1954 il salto verso l’unità politica non solo faceva parte dell’orizzonte delle prospettive politiche attuabili in tempi relativamente rapidi, ma era il punto di riferimento delle iniziative funzionaliste che avevano portato alla nascita della CECA e alla proposta della CED. Si trattava infatti di un quadro in cui, sia per le sue dimensioni sia per il progetto da cui era scaturito, il salto federale era considerato come la naturale conseguenza del progressivo trasferimento di competenze e poteri ad autorità sovranazionali che avrebbero esercitato funzioni che avrebbero posto direttamente il problema del controllo democratico e quindi della nascita di un sistema di governo europeo federale.
Invece, dal fallimento del primo tentativo di fondare la Federazione europea, i governi ripartirono, pur nella coscienza che fosse indispensabile rafforzare il quadro unitario europeo, con la presa d’atto della sconfitta del federalismo – e della loro stessa insufficiente volontà politica di fare il salto verso la federazione. Perciò optarono per una nuova strategia, nella sostanza diversa anche da quella monnetiana (che non aveva mai perso di vista l’obiettivo della fondazione della Federazione europea) imboccando la via comunitaria, o europeista, che mirava a creare l’integrazione economica, e quindi una certa cessione di competenze e soprattutto una crescente interdipendenza materiale, senza tuttavia prevedere parallelamente la creazione in tempi brevi di un quadro di potere europeo indipendente. Sicuramente uno degli obiettivi di questa scelta era anche quello di preparare negli Stati la rinascita della volontà politica di realizzare la Federazione europea, partendo dal presupposto che legando sempre più sul piano materiale il destino reciproco dei paesi europei, si sarebbero create le condizioni per rendere inevitabile la scelta del trasferimento di sovranità.
Di fronte alla nuova linea dei governi, i federalisti, con la scelta di Spinelli di dar vita al CPE, hanno dapprima sfidato gli Stati nazionali scommettendo sul fallimento del Mercato comune, e quindi del tentativo europeista di unificare le competenze senza togliere i corrispondenti poteri politici ai governi nazionali; e contemporaneamente hanno iniziato ad attrezzarsi per diventare un movimento autonomo di militanti capaci di portare avanti da soli, senza l’appoggio delle istituzioni e delle classi politiche nazionali, la battaglia federalista. E’ grazie a questa duplice impresa (l’“opposizione di comunità” e la costruzione del Movimento autonomista a partire dall’Italia) che è stato possibile per il MFE dotarsi degli strumenti politici ed organizzativi adeguati per una battaglia di lungo periodo. Ma ciò non toglie che di fronte al successo del MEC e alla prospettiva dell’ingresso della Gran Bretagna nella CE (ingresso che nei fatti rafforzava ulteriormente la scelta europeista – e anti-federalista – dei Sei), i federalisti abbiano dovuto prendere atto del fatto che l’europeismo aveva vinto la prima battaglia, e che aveva radici più solide di quanto essi non avessero ipotizzato inizialmente: di fronte alla complessità di compiere il trasferimento di sovranità dagli Stati all’Europa, esso infatti offriva ai governi la via di fuga per aggirare l’inadeguatezza del quadro nazionale, svuotandolo di competenze da un lato, ma mantenendolo vivo come quadro politico di riferimento dall’altro, e rianimandolo, in qualche modo, proprio grazie alle nuove potenzialità che derivavano dal processo di integrazione. Sotto l’impulso delle due spinte contrapposte (l’impotenza degli Stati nazionali da un lato e il rifiuto di cedere la sovranità dall’altro) i governi erano riusciti a trovare la volontà politica sufficiente per far funzionare il meccanismo comunitario, non senza difficoltà e contraddizioni, ma in modo comunque accettabile e sufficiente per avanzare sulla via della sempre più stretta integrazione. Il tutto si reggeva su di un quadro internazionale esterno che garantiva la stabilità a livello globale e la sicurezza della protezione americana a livello europeo. Fatto questo che da un lato esimeva gli europei dalla responsabilità di un impegno nel campo della politica estera e di sicurezza, e permetteva loro di concentrarsi esclusivamente sullo sviluppo economico garantendo comunque un quadro politico comune; dall’altro lato assicurava il sostegno al processo europeo da parte degli Stati Uniti.
La strategia dei federalisti, per cercare di sfruttare le spinte contraddittorie che il meccanismo europeista generava, non poteva prescindere da questi dati oggettivi: bisognava partire dai limiti strutturali della costruzione comunitaria, che si manifestavano nel costo (politico ed economico) del perdurare della divisione, e anche nello svuotamento della democrazia e nella degenerazione della vita politica nazionale causati dal fatto che i paesi membri venivano privati di competenze importanti senza che ci fosse parallelamente la creazione di un quadro di potere europeo indipendente e democratico. E bisognava al tempo stesso identificare dei passaggi istituzionali importanti (che prefigurassero la creazione di “pezzi di Stato”) su cui raccogliere consenso e da indicare ai governi, perché in un momento di impasse del processo politico questi potessero decidere di sostenerli; passaggi istituzionali compatibili, quindi, con la scelta europeista (e che pertanto non richiedessero la manifestazione di una esplicita volontà politica “federalista”, anche se presupponevano un orientamento favorevole al progetto federale), capaci di rispondere almeno parzialmente alle impasse del processo di integrazione e al tempo stesso di accentuare le contraddizioni dovute all’assenza di un quadro statuale europeo, preparandone così il terreno. Si trattava della cosiddetta strategia del gradualismo costituzionale, che permetteva ai federalisti di ingaggiare una corsa contro il tempo, per evitare che l’effetto dell’ingresso della Gran Bretagna e del consolidarsi delle strutture comunitarie, unitamente alle conseguenze dell’evolvere del quadro internazionale, allontanassero definitivamente l’obiettivo dell’unità politica.
Elementi essenziali di questa strategia furono le battaglie per l’elezione diretta del Parlamento europeo e poi per la creazione di una moneta unica.
 
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A distanza di trent’anni dalla prima elezione diretta del Parlamento europeo e dopo oltre dieci anni di vita dell’euro, che bilancio dobbiamo trarne anche per cercare di cogliere le indicazioni su come proseguire la nostra battaglia oggi? La prima constatazione da fare è che il vero spartiacque per gli europei è stato la fine del bipolarismo: gli Stati europei, nonostante i traguardi raggiunti, anche istituzionali, realizzati nel corso dei decenni sulla via dell’integrazione, non hanno saputo cogliere l’occasione di questo terremoto politico per fare il salto dell’unità politica. Si sono così condannati alla crescente marginalizzazione sul piano internazionale e hanno preparato la crisi dell’Unione europea, perché non sono stati in grado di dare risposte efficaci alle sfide che il crollo dell’Unione Sovietica poneva loro. Era del tutto evidente già a partire dai primi anni Novanta, che il nuovo quadro internazionale stava innescando un processo di divaricazione tra gli interessi europei e quelli americani che avrebbe posto agli europei l’esigenza di assumersi nuove responsabilità, rispetto alle quali non sarebbe certo stato sufficiente limitarsi all’integrazione nell’Unione dei paesi centro-orientali, compiuta nel quadro di un parallelo allargamento della NATO. Sul piano della politica estera e di sicurezza si profilava il problema di attrezzarsi per poter guadagnare un ruolo autonomo, di tipo innanzitutto politico, che avrebbe dovuto riempire i vuoti di potere che inevitabilmente le nuove priorità americane avrebbero creato. Sul piano interno emergeva invece il problema di governare i nuovi equilibri che l’unificazione tedesca da un lato e l’allargamento dall’altro avrebbero creato a breve nell’Unione europea e su cui giocava la Gran Bretagna per estirpare la prospettiva politica dal processo europeo. Si trattava, in breve, di passare dal dibattito sull’esigenza di creare la “Federazione nella Confederazione” – più volte evocato in Francia e Germania, ma mai perseguito concretamente – alle iniziative politiche necessarie per realizzarla davvero. L’aver mancato questo obiettivo, il non aver avuto, ancora una volta, sufficiente volontà per arrivare all’unità politica almeno in un nucleo di paesi, ha gettato il processo di unificazione europea in una crisi drammatica.
Inizialmente la crisi non è apparsa in tutta la sua gravità, anzi, l’europeismo (che considerava il comunitarismo l’obiettivo definitivo) è sembrato celebrare il proprio trionfo, continuando a rafforzarsi ideologicamente e politicamente a scapito del federalismo. Esso, infatti, ha potuto godere in questo quadro di un duplice, ma effimero vantaggio: innanzitutto ha potuto rivendicare i successi del quadro comunitario (euro in primis), nascondendo il fatto che il conseguimento di questi obiettivi era stato possibile proprio sulla base della spinta dell’iniziativa federalista. Non era stato infatti il comunitarismo il vero artefice di tali successi, bensì il federalismo, che aveva creato le condizioni politiche per la loro realizzazione (dall’identificazione degli obiettivi, allo sviluppo dell’analisi circa la loro effettiva modalità di realizzazione, fino alla preparazione del consenso) e che aveva fornito il quadro politico (la prospettiva della creazione di uno Stato federale europeo) all’interno del quale la creazione delle istituzioni comunitarie aveva una funzione propulsiva di avanzamento del processo; ma nel momento in cui il comunitarismo pretendeva di sostituirsi al federalismo, di fatto esso preparava anche la sua stessa crisi, perché tutti i suoi limiti teorici e politici e le sue contraddizioni sarebbero presto emerse. In ogni caso, grazie all’altro vantaggio di cui ha potuto godere l’europeismo – quello di essere legato all’inerzia del sistema europeo ormai formatosi, che tende a promuovere la propria continuità, nel bene e nel male, anche allontanando l’ipotesi di obiettivi politici che ne snaturino gli equilibri – questa crisi ha potuto rimanere a lungo nascosta; e infatti pochi, tranne i federalisti, hanno colto che si stava in realtà preparando il terreno per la crescita dell’euroscetticismo e del divario tra l’opinione pubblica e le istituzioni europee, entrambi conseguenza dell’inadeguatezza del modello comunitario rispetto ai problemi che l’Europa deve fronteggiare.
Le contraddizioni che i federalisti avevano individuato e denunciato sono oggi emerse alla luce del sole. Sono quindi diventati ormai ineludibili i problemi legati al fatto di aver creato una moneta senza Stato, quelli di un’Europa che ha sostituito la politica con la sola integrazione del mercato e che non ha gli strumenti per assumersi responsabilità effettive ed indipendenti nel quadro internazionale, o che non riesce a crescere e ad investire per preparare il futuro. Un’Europa in cui l’allargamento non accompagnato dall’approfondimento politico del nucleo più integrato ha segnato la vittoria degli anti-europei, perché ha diluito la coesione politica e ha innescato un pericoloso processo di rinazionalizzazione, di cui, come si era previsto ai tempi, la Germania riunificata, non inserita in un quadro politico europeo, è al momento una dei protagonisti.
Un quadro, quindi, che mostra chiaramente come la sola possibilità di soluzione per tutti i problemi dell’Europa possa essere quella del salto dall’europeismo (e dal sistema comunitario) al federalismo (dando vita alla Federazione europea). La doppia crisi che sta investendo gli Stati membri e che spinge i mercati, che non credono alla capacità degli europei di unirsi politicamente, non lascia infatti più molto spazio: sotto la pressione del debito pubblico da un lato, e con una crescita economica ampiamente insufficiente dall’altro, in un contesto mondiale che invece progredisce molto velocemente, gli europei possono invertire il trend che li sta schiacciando solo compiendo il salto di qualità della fondazione dello Stato federale europeo, a partire dall’iniziativa di un primo nucleo di paesi che vede al cuore Francia e Germania e l’eurogruppo, o una parte di esso, come quadro naturale. Ma al tempo stesso, proprio l’evidenza del traguardo che gli europei dovrebbero raggiungere ne mette in luce la tremenda difficoltà, rimasta immutata nell’arco degli oltre cinquant’anni di integrazione che avrebbero dovuto preparare il salto politico. Se da un lato infatti è cresciuta in modo esponenziale l’interdipendenza degli Stati europei, soprattutto dei paesi dell’area dell’euro (e continua ad essere evidente, agli occhi della ragione, che il quadro europeo è indispensabile), dall’altro però la volontà politica si è addirittura affievolita – e ciò è particolarmente grave per quanto riguarda la Germania, la Francia e l’Italia; inoltre è fortemente diminuito il consenso da parte dei cittadini, che ancora credono nel progetto di un’Europa unita, ma non ne vedono le prospettive concrete e non credono più alla capacità della classe politica di portarla a compimento, mentre sono insoddisfatti di questa Unione che non li protegge abbastanza dalla concorrenza esterna e che non riesce ad offrire progetti per il futuro. E’ quindi un dato di fatto che l’europeismo e il meccanismo comunitario non alimentano né la volontà politica europea degli Stati, né il consenso dei cittadini. Tutto ciò, unito alla crisi che esaspera la difficoltà di mantenere un quadro di solidarietà reciproca tra aree più ricche e aree più povere, rende concreto il rischio che, soprattutto i paesi più forti, con una reazione irrazionale, scelgano di lasciare affondare l’euro, e con esso la stessa Unione europea.
Le prime reazioni alla crisi che ha colpito i paesi più deboli dell’area dell’euro e che minaccia di fatto la sopravvivenza dell’Unione monetaria, dimostrano, fortunatamente, che, pur con molta fatica e ambiguità, la reazione degli Stati europei per il momento rimane quella di cercare di tamponare il problema. Essi sono infatti costretti a prendere misure di rafforzamento della governance economica, anche se al tempo stesso dimostrano di non aver ancora maturato la volontà politica di prendere la decisione fondamentale. In questo quadro i federalisti sono impegnati a correre una nuova, decisiva corsa contro il tempo. Si tratta di una corsa che ha sicuramente il suo fulcro e le sue scadenze inderogabili sul piano economico e finanziario, ma che non risparmia nessun settore della vita civile e politica europea: dalla crisi dei sistemi democratici, a fronte della marea montante del populismo, al risorgere di tentazioni e chiusure nazionalistiche, fino all’impotenza in politica estera, mentre il Sud del Mediterraneo brucia e avrebbe bisogno di un sostegno e di un forte ruolo propulsivo europeo. Il rischio pertanto è che le tendenze autodistruttive che accompagnano ogni crisi prevalgano e trascinino gli europei verso il baratro di una nuova divisione, nonostante siano evidenti le conseguenze drammatiche che una tale scelta comporterebbe.
Per i federalisti è venuto quindi il momento dell’azione e della mobilitazione. I fatti dimostrano chiaramente che lo status quo non è più sostenibile e che si avvicina l’ora della scelta. La prima battaglia su cui bisogna impegnarsi riguarda pertanto la necessità di chiarire in che cosa consiste l’obiettivo dell’unità, dopo anni in cui c’è stata molta ambiguità a questo proposito: è necessario portare al centro del dibattito politico la parola d’ordine della Federazione nella confederazione, evidenziandone la natura statuale e le caratteristiche politiche. Parallelamente bisogna indicare il metodo per realizzarla, ossia la convocazione di un’Assemblea costituente da parte dei paesi che vogliono dar vita alla Federazione. Ma come alimentare la volontà politica necessaria per compiere un simile passo? Come far emergere il sostegno dell’opinione pubblica al progetto politico europeo nei paesi dove ancora esiste ma convive anche con lo scetticismo nei confronti dell’Unione europea? Come interrompere la spirale perversa della deriva nazionalista (suicida) dei governi, che la giustificano proprio sulla base dell’euroscetticismo che essi stessi alimentano? Come fermare la marea populista? La risposta può solo essere nel tentativo di mobilitare le forze politiche e sociali a sostegno del progetto europeo. La Federazione europea non nascerà senza un forte consenso da parte dell’opinione pubblica, e questo consenso deve essere intercettato e reso visibile subito. I federalisti da soli non possono farlo, essi possono solo innescare la miccia, e poi è nelle forze protagoniste della vita politica e sociale che deve manifestarsi questa volontà di mobilitazione. Per questo il grimaldello dell’Iniziativa dei cittadini europei prevista dal Trattato di Lisbona può venire utile: sfrondandolo della demagogica pretesa di rappresentare un’opportunità di partecipazione democratica all’interno del quadro comunitario attuale, esso può invece diventare uno strumento per coagulare le forze pro-europee attorno ad un obiettivo europeo all’apparenza realistico, perché già giuridicamente possibile nel quadro dell’Unione (la creazione di un potere fiscale europeo per finanziare un piano europeo per la crescita economica), e al tempo stesso politicamente innovativo (un tassello cruciale per la realizzazione dell’Unione economica) e destinato a rafforzare la differenziazione tra paesi a maggior vocazione unitaria e paesi euro-tiepidi o euroscettici. E soprattutto può diventare uno strumento che spinge partiti, sindacati e società civile a schierarsi e a coinvolgere concretamente la propria base per dimostrare che esiste consenso e capacità di mobilitazione sull’Europa. Se i federalisti saranno capaci di lavorare affinché questo processo non confluisca nell’alveo di uno sterile comunitarismo, ma si accompagni alla consapevolezza che il traguardo da raggiungere è quello della Federazione nella confederazione, forse riusciranno ad interrompere il circolo vizioso che soffoca l’Europa e a preparare il terreno per realizzarne l’unità politica.
 
Luisa Trumellini

 

 

 

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