IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno I, 1959, Numero 1, Pagina 21

 

 

 

Il mito della “Nazione”*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
«L’oubli, et je dirai même l’erreur historique, sont un facteur essentiel de la création d’une nation, et c’est ainsi que le progrès des études historiques est souvent pour la nationalité un danger».
E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation? Discours et conférences, Paris, 1887, pp. 284-85.
 
 
IL RAZZISMO
Nella situazione presente siamo da una parte di fronte al convincimento diffuso che esistono le «nazioni»; dall’altra di fronte a certe «dottrine della nazione» che pretendono di spiegarne l’origine, il carattere ed il valore. Quale rapporto esiste tra questi convincimenti e queste dottrine? Bisogna anzitutto stabilire se queste dottrine ci forniscono qualche schema concettuale adatto a distinguere ed a comprendere i fatti nazionali. Questo punto di vista ci permette di scartare, almeno per ora, le dottrine che riducono i fatti nazionali a manifestazioni di qualche cosa d’altro, ed affermano ad esempio che la «nazione» è semplicemente il prodotto dello «Stato», o dei «rapporti della produzione», e via dicendo. I fatti nazionali potrebbero riguardare soltanto l’attività fabulatrice umana, ed essere costituiti semplicemente da certe convinzioni fantastiche che gli uomini si farebbero di certi loro rapporti (economici, statali, culturali) ma, anche in questo caso, non potrebbero né essere ridotti a tali rapporti, né essere spiegati senza mettere in evidenza, e senza precisare, tale attività fabulatrice.
Dobbiamo dunque utilizzare, fra le dottrine della nazione, quelle che si basano effettivamente (o credono di basarsi) sul rilievo autonomo dei fatti nazionali. Tali dottrine sono un miscuglio disordinato di descrizioni di fatti, di interpretazioni di processi, di esortazioni all’azione, di affermazioni di fede. Di conseguenza non è possibile ricavare gli schemi che ci interessano togliendoli così come sono dai testi, ed è necessario invece individuare in questo disordine certe idee semplici, e precisamente quelle che cercano di rispondere alla domanda «che cosa è la nazione». Noi riteniamo che tali idee siano sostanzialmente due: quella che potremmo dire della «razza», e quella che potremmo dire dell’«organismo vivente». In ogni modo cercheremo di mostrare che l’esame di questi due schemi permette di studiare il grado di elaborazione concettuale al quale sono giunte le dottrine della nazione.[1]
Per ciò che riguarda l’idea della «razza», è utile premettere che il recente impiego di teorie razzistiche della nazione in alcuni Stati totalitari non deve farci perdere di vista il fatto che i nazionalisti italiani e tedeschi, usando tali teorie, non introdussero un nuovo concetto della «nazione», ma si limitarono ad impiegare nell’azione politica un vecchio schema concettuale nazionale, e concezioni che si ritrovano tanto in bizzarri scrittori quanto in uomini di cultura universalmente rispettati. Proprio il razzismo sta alla base della concezione nazionale di Meinecke il quale, ritrovati come caratteristici della nazione aspetti come la lingua, il territorio, lo Stato, le tradizioni, scrisse: «Non è detto che una Nazione, per essere tale, debba possederli tutti. Quel ch’essa deve possedere incondizionatamente è un intimo nocciolo naturale nato dalla consanguineità».[2] Ed il caso di Meinecke non è particolare: idee simili sono ancora diffuse, specie nelle opere di grandi storici.[3]
Sono diffuse anche se contrastano in modo evidente col buon senso. La maggior parte degli uomini sa qualcosa della mescolanza delle stirpi umane nei territori oggi sede degli Stati nazionali, e conosce l’esistenza di nazioni plurilinguistiche come la Svizzera, o di nazioni formate dall’apporto trisecolare di diversi gruppi europei come l’America del Nord. Del resto questa idea, nella sua portata di schema concettuale, è facilmente comprensibile: le nazioni sarebbero gruppi composti da individui che avrebbero caratteristiche razziali comuni; e facilmente criticabile: i caratteri razziali effettivamente isolati dagli antropologi non stabiliscono divisioni corrispondenti alla divisione dell’umanità in nazioni. Questo fatto basta per escludere l’identificazione delle razze con le nazioni.
Questa critica vale a maggior ragione quando l’idea della «razza» viene presa in un senso ancora più stretto. Lo stesso Meinecke, usando il termine «consanguineità», si riferisce in particolare alla razza pura, alla comune origine familiare; affermazione che può essere addirittura ribattuta osservando, come fece l’antropologo Ralph Linton, che «soltanto una razza con donne troppo ripugnanti per attrarre uomini di altre tribù ed uomini troppo codardi per rapire donne di altre tribù potrebbe essere pura».
 
L’«ORGANISMO VIVENTE».
L’idea dell’«organismo vivente» non si presenta con la stessa chiarezza dell’idea della «razza». Le dottrine basate su questa idea generalmente elencano senza alcun ordine osservazioni empiriche sui comportamenti simili dei membri di certe comunità, mettendone in rilievo diversi aspetti come la lingua, il possesso di un territorio, gli ordini politici, le tradizioni ma, invece di riferire tali comportamenti agli individui, queste dottrine li riferiscono ad una entità metaempirica, l’«organismo vivente», volta a volta chiamato «nazione», Volksgeist, e via dicendo.[4]
In tal modo, esse non introducono un criterio di selezione e di comprensione dei fatti nazionali, ma si limitano ad assumere come «nazionali» certi fatti così qualificati dalle ideologie politiche dominanti in questo o quell’ambito storico, e ad imputarli ad entità misteriose di cui nessuno ha esperienza. Esse non ci forniscono dunque uno schema concettuale capace di individuare e di spiegare i fatti nazionali. Potremmo già concludere, a questo punto, che tanto l’idea della «razza», quanto quella dell’«organismo vivente», non hanno né valore descrittivo né valore esplicativo. Tuttavia questa conclusione, ricavata dall’analisi di queste idee come schemi concettuali, non basta per esaurire la questione, e ci induce piuttosto a spostare la nostra analisi, e a discutere un problema più generale, quello del modo con il quale gli uomini parlano abitualmente di certi fatti «collettivi».
In questa prospettiva si può mostrare che le dottrine dell’«organismo vivente» hanno qualche rapporto con usi linguistici, e con procedimenti mentali, molto diffusi. Lo costatiamo facilmente se: a) raggruppiamo in una sola classe le dottrine che si richiamano all’«organismo vivente» e quelle che introducono con altri nomi finzioni analoghe, b) mettiamo in evidenza mediante l’idea di «persona collettiva» il loro carattere comune: l’attribuzione di azioni umane ad entità collettive, c) osserviamo che l’idea di «persona collettiva» e l’idea collegata di «azione collettiva», corrispondono effettivamente ad usi linguistici, ed a procedimenti mentali, molto diffusi. Ad esempio si dice spesso: «la tal compagnia fece una partita a briscola». Analizzando questo caso, noi troviamo che nessuno pensa che esista una persona collettiva, la «compagnia», che compirebbe l’azione collettiva di «giocare a briscola». Tutti sanno che la «compagnia» è un modo abbreviato di nominare certe persone conosciute o conoscibili; e che il singolare «fece una partita» sta per il plurale «fecero una partita» (imputato, poniamo, a Luigi, Carlo, Giovanni e Giulio). Proprio per la sua semplicità, questo caso mostra che possiamo parlare di soggetti collettivi, e di azioni collettive, senza fare errori, soltanto se sappiamo di quali individui singoli, e di quali azioni singole, stiamo parlando.[5]
Tuttavia, nel caso delle «nazioni», ed in molti altri casi, questa conoscenza non è facile, e bisogna quindi esaminare quale carattere abbia in tali casi il ricorso a questi usi linguistici ed a questi procedimenti mentali. Per questo esame dobbiamo tener presente che si parla di «soggetti collettivi» a proposito di certe azioni umane. Orbene, da un punto di vista empirico, l’azione è sempre individuale, perché dove c’è una azione c’è sempre un individuo che la compie, mai una somma di individui che agisce come tale al posto dei singoli individui. Però le azioni di ogni individuo si intrecciano in molti modi (regolati o no) con le azioni di altri individui, e di conseguenza ci si trova spesso di fronte a fatti costituiti da tali rapporti, fatti che possono essere difficili da conoscere con precisione, o addirittura impossibili da conoscere senza il possesso di nozioni specializzate. In questi casi non è facile (o non è possibile) risolvere il «soggetto collettivo», che sta per i molti individui implicati, in questi individui; e non è facile (o non è possibile) risolvere l’azione collettiva di tale soggetto nelle singole azioni dei singoli individui.
Naturalmente, in tali casi noi usiamo «soggetti collettivi». Però essi non ci servono più come strumenti linguistici per comunicare con brevità conoscenze precise, ma come mezzi imperfetti di espressione di conoscenze imperfette. Possiamo ora comprendere perché, quando ci si trova di fronte ad azioni interdipendenti non bene conosciute, i procedimenti mentali effettivi avvengono come se esistessero autentiche «persone collettive». Ciò accade, indipendentemente dalla credenza in soggetti di questo genere, ogni volta che ci si trova in rapporto con eventi costituiti da più individui e non si sa risolvere questo gruppo in individui conosciuti (o conoscibili), e ci resta pertanto solo la possibilità di imputare azioni umane ad entità collettive, che in tal modo vengono pensate come esistenti allo stesso modo degli individui.
Si tratta evidentemente di un modo di pensare approssimativo, che può avere diverse espressioni. Possiamo facilmente mettere in evidenza questa possibilità distinguendo l’evento isolato nel tempo e l’evento che si ripete nel tempo. Il primo caso può essere esemplificato da un linciaggio. Di fronte ad un linciaggio noi dobbiamo attribuire l’azione al soggetto collettivo «folla» se non siamo in grado di sapere chi prese l’iniziativa, per quale motivo particolare si accese la passione popolare, ed in qual modo i diversi individui implicati fecero diverse azioni (di spettatore, di incitatore, di esecutore) che si conclusero nell’evento linciaggio. Se non esiste di fatto la possibilità di conoscenze di tal genere, c’è una sola rappresentazione possibile dell’evento: «la folla ha compiuto il linciaggio». Ma queste possibilità, almeno parziali, di conoscenze particolari di eventi collettivi esistono spesso nel secondo caso, quando l’evento si ripete nel tempo, cioè quando certe azioni interdipendenti degli individui acquistano una certa permanenza ed una certa stabilità.
Se il caso è complesso, ad esempio la gestione di una società per azioni, esisteranno volta a volta diverse conoscenze particolari della ripetizione dell’evento (anch’esso volta a volta diverso), diversi punti di vista delle persone che l’osservano o vi partecipano, e perciò molte rappresentazioni che andranno da quella della azione collettiva «gestione» della persona collettiva «società per azioni» a quelle di una quantità enorme di azioni compiute da questo o quell’individuo. Ciò mostra come la stessa cosa (un insieme di azioni interdipendenti) possa venire conosciuta e comunicata mediante mezzi linguistici e mentali diversi, e come essa possa trapassare da certe conoscenze empiriche e precise ad una conoscenza generale astratta ed eventualmente imprecisa. Nel caso della società per azioni esiste un criterio (giuridico) per risolvere la persona collettiva in un insieme di individui determinati o determinabili perciò il ricorso all’idea generale della cosa non comporta un pensiero impreciso.
Nel caso delle nazioni questo criterio non è altrettanto chiaro.[6] Di conseguenza, in tal caso si può passare da certe conoscenze precise (la reazione di Caio offeso nel suo sentimento nazionale) a certe conoscenze generali imprecise (la nazione tedesca acquistò coscienza di se stessa nel periodo napoleonico). E’ importante notare che, in questa massa di conoscenze diverse, si può semplicemente aver presente l’esistenza del gruppo senza occuparsi di questa o quella azione che lo riguarda, oppure si può rivolgere l’attenzione a tali azioni. In altri termini si può pensare al soggetto «nazione» o alle azioni di questo «soggetto». Il primo esempio spiega perché ricorriamo all’idea di «razza». Abbiamo esperienza di un gruppo piuttosto stabile, di un gruppo di individui che hanno qualche cosa in comune, ma non conosciamo bene questo qualche cosa (la lingua? Non solo e non sempre. Le tradizioni? Ma quali sono ascrivibili alla nazione e quali no? ecc.) ed allora ricorriamo all’idea di «razza» che ci fornisce un esempio semplice di un gruppo composto da individui che hanno caratteri comuni. Naturalmente la conoscenza resta imprecisa perché il legame nazionale non è di «sangue». Da un punto di vista puramente conoscitivo l’unico risultato è quello del trasferimento dell’ambiguità dalla parola «nazione» alla parola «razza» ma l’uso può diffondersi perché l’abitudine di ritenere spiegata una cosa mediante l’introduzione di una formula pseudorazionale è diffuso.
Il secondo esempio (la nazione ha fatto certe cose) spiega perché ricorriamo all’idea di «organismo vivente». Abbiamo esperienza del fatto che «la nazione tedesca acquistò coscienza di se stessa durante il periodo napoleonico» ma non conosciamo con precisione il movente, il carattere e via dicendo delle azioni individuali implicate, né gli stessi individui implicati, e perciò siamo costretti a pensare come se esistesse un «organismo vivente». Naturalmente, presa alla lettera, l’idea dell’«organismo vivente» non ha senso, e induce a svolgere considerazioni fantastiche su un soggetto inesistente, e ad attribuire certi predicati (desunti senza alcun criterio da fatti umani) alla «persona collettiva».
Con questa analisi, estesa dall’esame delle dottrine della nazione come schemi concettuali a quello di certi usi del linguaggio umano, ci sembra già chiarito sia il motivo dell’esistenza di dottrine apparentemente irreali o assurde, sia il carattere di una conoscenza che dà luogo a concetti ambigui, esprimibili linguisticamente in modi molto diversi, che possono tuttavia essere ricondotti alle idee semplici che abbiamo discusso come ai due poli tra i quali oscilla la comprensione generale dell’idea imprecisa di nazione. Si può infatti dire che l’idea della «razza», e quella dell’«organismo vivente», reggono non perché corrispondono, come schemi, alle divisioni nazionali ed ai comportamenti nazionali, ma perché corrispondono ai procedimenti mentali comuni nei casi di esperienze di gruppo mal conosciute. Tuttavia, prima di concludere alla luce dì questi risultati l’esame delle dottrine della nazione, dobbiamo ancora considerare un tipo particolare di «azioni collettive».
 
IL «PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI».
Nel discorso grosso modo politico hanno un particolare rilievo collettivo gli atti compiuti da alcuni membri di una collettività, ma imputabili a tutta la collettività perché coloro che li hanno compiuti posseggono, o pretendono di possedere, qualche motivo legittimo per agire in nome degli altri. Kelsen fece, a torto, questa considerazione per mostrare che lo Stato e l’ordinamento giuridico sono la stessa cosa.[7] A torto perché sia il motivo legittimo, sia di fatto l’imputazione (tanto da parte di chi agisce quanto da parte degli altri), possono stare completamente fuori dal quadro giuridico. In qualche modo le poesie di Carducci sono imputate all’Italia, indipendentemente dal fatto che l’Italia sia giuridicamente l’insieme dei cittadini italiani, e che Carducci fosse giuridicamente italiano. Infatti anche le tragedie di Alfieri, che giuridicamente non era italiano, sono state imputate all’Italia, che non era una entità giuridica. Questi esempi letterari sono molto evidenti, ma la possibilità messa in vista ha carattere generale.
L’azione fatta da alcuni, ed attribuibile ad altri, richiede dunque criteri diversi da quello giuridico per essere valutata da un punto di vista generale. Ebbene, con questo punto di vista, si costata facilmente che i casi di questo genere non presentano effettivamente atti compiuti da singoli individui imputabili a tutta la (o a parte della) collettività. Empiricamente la tal tragedia di Alfieri è un fatto individuale, e diventa un fatto collettivo solo se noi consideriamo anche certe azioni fatte da altri a proposito di questa tragedia: il leggerla, il parlarne e via dicendo. Quando compare il rilievo «imputabilità ad altri» tutte le persone coinvolte fanno qualche azione: non siamo perciò di fronte ad un misterioso rilievo «collettivo» emergente da atti di singoli individui che riguarderebbero altri individui senza alcuna loro partecipazione, ma semplicemente di fronte ad eventi costituiti da tutti gli individui implicati nei quali razione di alcuni sovrasta, per importanza, quella degli altri.
Questo è il carattere empirico delle azioni «imputabili ad altri». Naturalmente l’ambito politico non presenta soltanto atti compiuti «in nome degli altri». Il rilievo dell’importanza, che permette di parlare di atti singoli imputabili a tutti, in altri casi riguarda l’azione di molti, ed al limite quella di tutti i membri di una società organizzata. Per questo fatto ad un certo punto cessa di aver senso la qualificazione «in nome degli altri». Il presidente della repubblica italiana, nell’esercizio delle sue funzioni, agisce in nome degli altri, del «popolo italiano», ma quando un tale parla italiano la sua azione, sempre riferibile all’Italia, non viene fatta in nome degli altri, per gli altri, ma con gli altri.
In ogni modo, anche nei casi di «imputabilità ad altri», non emerge un carattere collettivo indipendente dagli individui implicati, e quindi valgono ancora le considerazioni già svolte sul «soggetto collettivo» e sulla «azione collettiva». Nulla ci impedisce pertanto di concludere che il problema della «nazione» è quello della risoluzione di questo «soggetto collettivo» nelle persone che lo compongono, conclusione che risulterebbe evidente a prima vista se non fosse oscurata dalle tradizioni dottrinarie. Naturalmente, come i nostri Luigi, Carlo, Giovanni e Giulio compongono la compagnia che gioca a briscola soltanto in quanto giocano a briscola, così certi individui compongono una nazione solo in quanto fanno certe azioni. Poiché le nazioni sono gruppi piuttosto stabili, anche queste azioni devono essere stabili. Devono essere comportamenti: i «comportamenti nazionali».[8]
Con questo criterio noi possiamo sia esaminare un terzo gruppo di dottrine della nazione per mostrare che esse non introducono alcuno schema veramente nuovo, sia pervenire ad alcune conclusioni generali sugli argomenti discussi in questo capitolo. Esaminiamo la prima questione. Il terzo gruppo di dottrine cui abbiamo alluso è quello costituito dalle teorizzazioni che hanno cercato di mettere in vista certi comportamenti degli individui, illustrandone la pretesa natura, ma non sono riuscite in realtà ad individuare il carattere del «comportamento nazionale».
Il limite di queste dottrine sta nel fatto che esse non possono, nella descrizione di avvenimenti nazionali, mantenere l’attribuzione dei comportamenti agli individui. Infatti la rappresentazione sbagliata di tali comportamenti non corrisponde a ciò che certi individui effettivamente fanno, e pertanto ci sposta dal campo di questi individui e ci colloca in un campo di soggetti diversi da quelli realmente esistenti. In sostanza queste dottrine usano un particolare concetto di «azione collettiva», quello nazionale, in modo impreciso, e perciò comportano un uso impreciso del concetto di «soggetto collettivo» relativo al gruppo nazionale. Per questa ragione tali teorie implicano, anche se non la ammettono esplicitamente, l’idea dell’«organismo vivente», ed in questo senso si può dire che esse non introducono alcun nuovo schema.
Il caso più celebre, a questo proposito, è quello di Renan. Egli negò che il fondamento della nazione stia nella lingua, nella razza, nello Stato e così via, e ridusse tale fondamento alla volontà degli individui di vivere insieme, al «plebiscito di tutti i giorni».[9] Ciò equivale a dire che le nazioni sarebbero dei gruppi composti da individui che avrebbero come unico movente di tale loro relazione di gruppo il desiderio di stare insieme: idea che configura una società ideale nella quale tutte le azioni simili o coordinate dei membri del gruppo nazionale dovrebbero risultare soltanto da decisioni unanimi di tutto il gruppo, o quanto meno allude a gruppi nazionali nei quali nessun membro del gruppo disubbidisca o ubbidisca di malavoglia a decisioni del gruppo dirigente. Evidentemente questa idea dei comportamenti nazionali è arbitraria e si traduce, quando la si usa per descrivere qualche fatto, in un predicato retorico della nazione come «persona collettiva», del tipo che si riscontra nelle frasi del genere «la Francia ha voluto».
Si potrebbe osservare che non è il caso di portare il ragionamento sino alle estreme conseguenze, perché l’idea della volontà di vivere insieme può essere intesa come la formulazione enfatica di una osservazione comune: quella di una certa convergenza delle volontà. Tuttavia, se si mette in evidenza questo fatto — che coglie in modo approssimativo un solo aspetto del «comportamento nazionale» — mediante l’idea in questione, o si dice ben poco, o si implicano proprio le conseguenze esposte. Di fatto chi pensa la nazione come lo stato d’animo di coloro che vogliono vivere insieme, come «il plebiscito di tutti i giorni», quando descrive effettivamente azioni nazionali si trova sempre di fronte ad azioni individuali, e spesso di pochi individui: l’atto del tale governante, il pamphlet del tale scrittore, vale a dire di fronte ad atti «imputabili ad altri». Ma, poiché ritiene che tali atti implichino lo stesso stato d’animo in tutti i membri del gruppo, costui non può indagare positivamente il rilievo collettivo di tali atti e deve attribuire a tutti lo stato d’animo di coloro che li hanno compiuti, e quindi introduce inavvertitamente una «persona collettiva» capace di stati d’animo: la Francia e non i francesi, l’Italia e non gli italiani.
Kant scrisse: «Se ogni componente della nazione ha il proprio carattere, la nazione non ne ha alcuno. Se nessuno ha carattere, la nazione ne ha uno»; ed in realtà, con l’unicità dello stato d’animo, o si allude in modo impreciso alla tensione poliziesca degli Stati totalitari, o si assume in modo appena mascherato la esistenza di una persona collettiva, la nazione, che dovrebbe la sua origine extra-individuale a Dio, alla Natura, od alla Storia; e che avrebbe, al pari degli individui, sentimenti, ragione e volontà e persino secondo la storia recente, pentimenti.[10]
 
LA «REALTÀ NAZIONALE».
Possiamo ora pervenire a qualche conclusione generale sulle dottrine della nazione. Se teniamo fermo il criterio della risoluzione della «nazione» negli individui che la compongono (criterio che ci obbliga a determinare il carattere del «comportamento nazionale»), e se teniamo presente il fatto che gli uomini ricorrono all’uso impreciso dei concetti di «azione collettiva»e di «soggetto collettivo» tutte le volte che sono di fronte ad esperienze di gruppo mal conosciute, noi possiamo ribadire che, senza una conoscenza positiva del «comportamento nazionale», le dottrine della nazione si riducono ad un pensiero vago, che oscilla tra i due poli dell’idea della «razza» (come formula sostitutiva della conoscenza precisa della discriminante nazionale) e dell’idea dell’«organismo vivente» (come formula che assume la realtà esistenziale della «persona collettiva»). Naturalmente, per passare da questa affermazione a quella fatta all’inizio secondo la quale tutte le dottrine della nazione si riducono in realtà a queste due idee, si pone la questione di fatto dell’esistenza o meno di una conoscenza concettuale del «comportamento nazionale». A nostro avviso questa conoscenza non esiste perché gli autori che si sono occupati della questione generalmente non hanno cercato di scoprire l’aspetto specifico di tale comportamento, lo hanno supposto non soltanto dato, ma anche sufficientemente noto, e ne hanno studiato i presunti aspetti giuridici, sociologici, psicologici e cosi via.[11]
Concordano con la nostra opinione gli autori che sono giunti alla costatazione che non ci sono definizioni positive della «nazione» sia mediante l’esperienza della impossibilità di ricavare criteri pratici dalle dottrine della nazione, sia mediante l’esame critico delle definizioni date sinora. Nel primo dopoguerra Bernard Lavergne costatò con stupore che, mentre si proclamava il principio: «I popoli hanno il diritto di disporre di sé stessi», non c’era un modo sicuro di applicarlo, perché era ignota «la portée scientifique et pratique à donner à cet axiome». In un volume del 1921 egli scrisse appunto: «Tout d’abord, une surprenante conclusion s’impose à nous: ce principe célèbre, au nom duquel ont lutté tous les Alliés, est demeuré, jusqu’à ce jour, extrêmement vague, telle une formule mystique, insaisissable au raisonnement».[12]
E’ paradossale ma vero che dopo la guerra del 1914, che fu una guerra dei diritti delle «nazioni», quando si dovette decidere quali fossero le «nazioni» e quali i loro confini, regnò molta confusione. I gruppi che vivevano entro gli Stati vincitori erano senz’altro delle «nazioni», per quanto non fosse ben chiaro sin dove arrivassero tali gruppi e per quanto, nel discutere tali questioni, il criterio si spostasse dal piano umano della considerazione degli individui a quello fisico della considerazione dei territori e dei confini. Per i gruppi che vivevano entro gli Stati distrutti la situazione era ancora più confusa. Si trattava di fare degli Stati nuovi, e perciò, secondo il principio del diritto dei popoli di disporre di se stessi, di attribuire a tali popoli o «nazioni» un governo indipendente. Ma ciò che non era chiaro era proprio quali fossero in definitiva i gruppi di uomini che potevano valersi di questa qualificazione, perché le dottrine della nazione fornivano al proposito criteri incerti: la considerazione della lingua comportava la discriminazione, non facile, tra lingua o dialetti; i «titoli storici» erano naturalmente interpretabili nei modi più diversi; l’esito dei plebisciti dipendeva dalla procedura delle consultazioni, dalla delimitazione della circoscrizione elettorale, da precedenti trasmigrazioni forzate, da influenze politiche. E, ciò che è peggio, questi criteri erano contrastanti, perché l’applicazione dell’uno portava a circoscrivere «nazioni» diverse dall’applicazione dell’altro.[13]
A trentaquattro anni di distanza dalla pubblicazione del volume di Lavergne uno storico americano, Boyd C. Shafer, ha raggruppato le principali definizioni della nazione secondo la loro struttura metafisica, fisica e culturale, ed ha potuto mostrare il carattere mitico o l’inconsistenza di tali definizioni. Egli ha ammesso la rilevanza dei fatti nazionali, ma ha negato la validità di tutte le definizioni date sinora.[14]
Una ulteriore conferma di questo stato di cose ci viene dal lessico, che può informarci sull’uso della parola «nazione» nel linguaggio ordinario. Se consultiamo, ad esempio, lo Zingarelli, troviamo che la parola nazione viene spiegata con la parola stirpe, e questa a sua volta con la parola razza. Anche il Concise Oxford Dictionary, ed il piccolo Webster americano, parlano di razza, race. Precisamente il Concise Oxford Dictionary alla voce nationdice: «Distinct race or people having common descent…» ed alla voce people dice: «Persons composing community, race or nation».
I miti della nazione sono dunque presenti anche nel linguaggio ordinario. Le motivate conclusioni degli autori citati, e la situazione lessicale del termine «nazione», confermano la nostra opinione sulla mancanza di una conoscenza positiva del «comportamento nazionale», e perciò anche quella della possibilità di ridurre le dottrine della nazione alle due idee della «razza» e dell’«organismo vivente», o perlomeno a formule analoghe. Una parte della nostra indagine è così conclusa. Noi ci eravamo chiesti se queste dottrine ci forniscono qualche schema concettuale adatto a distinguere, ed eventualmente a spiegare, i fatti nazionali. Possiamo ora rispondere negativamente persino alla prima parte di questa domanda; e potremmo persino pensare che, ogni volta che usiamo la parola «nazione» a proposito di certi fatti, non sappiamo nemmeno se questi fatti sono davvero «nazionali». Di fatto non possiamo uscire da questo dubbio sinché ci riferiamo alle dottrine della nazione perché in questo caso gli schemi con i quali pensiamo, e le esperienze che chiamiamo «nazionali» nel linguaggio ordinario, non hanno alcun punto di contatto.
La mancanza di schemi concettuali che ci consentano una obiettiva selezione di dati ci separa addirittura dall’esperienza, e ci impone di considerare come problematico lo stesso punto di partenza del nostro studio: la «realtà nazionale». Non ci sono infatti, a questo proposito, evidenze che si impongano da se stesse. Le «nazioni» non sono entità evidenti. Ci vien fatto di crederlo se pensiamo «nazioni» e se diciamo Francia, Germania, e via dicendo. Ma in tal caso l’evidenza riguarda soltanto l’esistenza di un gruppo stabile, mentre il termine «nazione» comporta l’idea di un gruppo avente un certo carattere, e questo carattere non è evidente. Infatti, quando lo si vuole descrivere, si comincia col dire: «lingua, etnicità, Stato, tradizioni storiche»; si costata subito che nessuno di questi elementi esaurisce la questione, e perciò, invece di dare una risposta, si apre una discussione.
Che cosa c’è di evidente nel fatto che i sudtirolesi sono etnicamente tedeschi, giuridicamente italiani, austriaci di sentimento? Perché l’Austria è una «nazione» come la Germania e la Francia, pur essendo etnicamente tedesca? Che senso ha la massima questione nazionale del presente momento storico, l’«unificazione tedesca» se questo obiettivo, che sembra mettere in primo piano l’unità di tutti i tedeschi, in realtà non riguarda i tedeschi dell’Austria? Ovviamente ci sono risposte politiche a questi problemi. Ma non c’è una risposta «nazionale» che ci spieghi perché, nelle diffuse convinzioni di tutte le persone implicate, gli austriaci sono e non sono tedeschi, o, per meglio dire, lo sono se si pensa all’etnicità, non lo sono proprio se si pone la questione «unificazione tedesca».
Privi di schemi concettuali che ci presentino dei dati, ed in mancanza di qualche cosa di evidente, per impostare la questione della «realtà nazionale» noi possiamo partire solo dal linguaggio ordinario. Abbiamo testé osservato che i miti della nazione sono presenti anche in questo linguaggio. Però ciò non comporta che il linguaggio ordinario si occupi effettivamente di questi miti quando viene usato in rapporto ad esperienze nazionali. Infatti il linguaggio ordinario, per il suo «realismo ingenuo»: a) tende a trasformare in «cose», in personalizzazioni e via dicendo le esperienze di relazione, di classe e così via, ma, b) mancando di unità sistematica non costruisce teorie sulla base delle «cose» che ritiene esistenti ma le risommerge sempre nell’estrema mobilità dei suoi orizzonti. Al contrario l’atteggiamento dottrinario, se introduce una «cosa», costruisce una teoria proprio su questa base. In conseguenza di ciò l’atteggiamento dottrinario, risolta la «cosa» nell’«organismo vivente» o in qualche formula analoga, la immaginerà e la studierà — come mostra ad esempio la storiografia nazionale — in quanto tale; mentre il senso comune, pur esprimendosi rozzamente, nominerà la «nazione», sia pure come «cosa», ogni volta che si trovi in rapporto con i fatti «nazionali», e perciò non perderà il contatto con l’esperienza. In altri termini il contesto linguistico (che stabilisce il significato delle parole) nel caso dell’atteggiamento dottrinario dipende dalla teoria, nel caso del linguaggio ordinario dipende dai fatti. Il secondo, naturalmente, è un contesto non definito, un contesto semplicemente usato, e quindi approssimativo, ma tuttavia idoneo a metterci in contatto con i fatti.[15]
Nell’introduzione avevamo osservato che l’esistenza di un contesto linguistico «nazionale» prova l’esistenza di una realtà «nazionale», ed ora riprendiamo l’osservazione proprio per togliere di mezzo i dubbi su questa «realtà» e per chiederci quali sono i fatti sui quali gli uomini si scambiano informazioni mediante il contesto linguistico «nazionale». Si tratta di fatti che circoscrivono una realtà complessa, nella quale un certo insieme di azioni comuni a tutti come il parlare la stessa lingua (o almeno di dare lo stesso significato a certi termini), il praticare certi costumi, l’osservare certi valori, non sta da sé ma è in relazione con altre azioni «imputabili a tutti» dovute all’iniziativa di alcuni individui che hanno la capacità di influenzare o di organizzare le azioni altrui. Tali azioni, e tali rapporti di influenza e di organizzazione sono, generalmente parlando, politici, giuridici, culturali, religiosi, etnici, magici. Il termine «nazione», nell’uso comune, ha scartato apparentemente solo i significati magici, e sembra denotare volta a volta qualche aspetto dei gruppi costituiti appunto da coordinazioni come lo Stato, l’unità di lingua, di cultura, di costume e via di seguito. Ogni volta si tratta di rapporti diversi, non solo perché indicano azioni diverse, ma anche perché implicano diversi modi relativamente stabili di raggruppare degli individui. Non esiste infatti nessuna comunità (salvo che nel modello dello Stato totalitario che però non si è mai realizzato al cento per cento) nella quale il gruppo definito dal potere statale coincida perfettamente con i gruppi definiti dal possesso comune di una lingua, di una cultura, di un costume.[16]
Il linguaggio nazionale viene usato in tutti questi casi, ed è pertanto in rapporto con gruppi diversi. Ma esso sta per qualche cosa di unitario. A tutti questi gruppi infatti possono essere applicati i nomi nazionali, i quali si riferiscono perciò ad un gruppo costituito dalla interdipendenza di tali gruppi. Il «comportamento nazionale» sembra perciò essere l’aspetto della condotta umana che mette in relazione le diverse azioni di cui stiamo parlando. Naturalmente la difficoltà sta proprio nel comprendere questa interdipendenza, nominata ma non spiegata, che viene comunemente intesa come un modo «naturale» di raggrupparsi, correlativo ad una sola fonte «nazionale» di diverse azioni umane, fonte che darebbe luogo al gruppo «nazionale» collegato ma sovraordinato ai gruppi statale, linguistico, culturale.[17]
Evidentemente noi non possiamo accettare questo preteso carattere «naturale» perché sappiamo che i fatti nazionali sono «storici», cioè comparsi nel tempo; e dobbiamo invece studiare il «comportamento nazionale», al quale questi fatti, che sono umani, vanno ricondotti. Il linguaggio ordinario può tenerci in contatto con questi fatti, e perciò costituisce il punto di partenza della nostra indagine. Tuttavia lo studio del loro carattere non si esaurisce nell’analisi del linguaggio, e richiede il ricorso a criteri che potranno venire in luce man mano che sarà chiarito l’aspetto della condotta umana che emerge dallo studio dei fatti identificati dal contesto linguistico «nazionale» del linguaggio ordinario.
 
IL PARADOSSO DEL NAZIONALISMO.
Per completare l’analisi dello stato della questione conviene dire qualche cosa sulla rilevanza del «comportamento nazionale». Da questo punto di vista la situazione è paradossale. In sede teorica si costata che non esiste alcuna definizione positiva della nazione. In sede pratica si deve prendere atto del fatto che le questioni più gravi della vita umana sono regolate da princìpi tratti dalle oscure dottrine della nazione.
Questo è il paradosso del nazionalismo. Esso comporta una dottrina della nazione, e certe condotte umane, ma i suoi principi, che sono i soli nel nostro tempo a legittimare il dovere di morire e di uccidere, ed in nome dei quali anche nel nostro secolo è stata effettivamente giustificata la morte violenta di molti milioni di individui, non sono stati mai definiti seriamente, e non consentono attualmente né di circoscrivere con precisione i gruppi di individui implicati, né di conoscere seriamente quale sia il legame che stringe gli individui quando sentono ed agiscono in modo «nazionale», né di dare una giustificazione utile al valore «nazionale», che ha preso purtuttavia il primo posto nella scala dei valori umani. Milioni e milioni di volte uomini sono morti cruentemente e sulle loro labbra c’era, o fu messa, la parola Francia, Germania, Italia e così via. Essa significava sempre qualche cosa di più del puro comando di un potere politico, però non sappiamo veramente che cosa significasse. Noi non sappiamo ancora con quale motivazione queste parole condannano gli uomini a far coincidere un atto di devozione suprema e di sacrificio totale con la negazione altrettanto totale dei valori umani implicati; in altri termini non sappiamo perché queste parole fanno del sacrificio della vita, del morire, un valore proprio quando questo sacrificio coincide con la negazione del valore della vita altrui, con l’uccidere.
Queste domande, cui dovrebbe rispondere il termine «nazione», non hanno in realtà altre risposte all’infuori del generico riferimento al patriottismo perché la «ragion di Stato», alla quale si possono riferire la politica estera e le guerre, può essere familiare ai governanti ma non corrisponde certo allo stato d’animo della maggioranza dei cittadini. Naturalmente ci sono molti argomenti che giustificano le affermazioni del patriottismo. Ma la patria oggi è la «nazione». Perciò, se non conosciamo la natura della «nazione», non sappiamo nemmeno quali siano attualmente i caratteri del patriottismo. In tal modo il dovere di morire e di uccidere si presenta ancora, nella nostra era «scientifica», come una necessità formulabile soltanto mediante il ricorso a miti come quello deli’«organismo vivente», della «razza», o del «plebiscito di tutti i giorni».[18]
Vale ancora la pena di osservare che solitamente gli individui discutono, apertamente negli Stati democratici, la politica estera del loro governo, e che, nel far ciò, sovente essi attribuiscono valore positivo o valore negativo alla condotta del proprio paese ed hanno qualche possibilità di mutarla. Ma quando tale condotta sfocia in circostanze gravi, e soprattutto nella guerra, anche coloro che reputano errata la condotta del proprio paese sospendono ogni discussione. Il divario tra il giudizio sulla guerra, e la fedeltà alla nazione, fu talmente forte per la Germania e per l’Italia nell’ultimo conflitto mondiale che alcuni, dolorosamente, furono tratti a rompere il legame di fedeltà, ed auspicarono la vittoria del nemico. Ma costoro ritennero ciò una sciagura, e si augurarono fermamente di poter ritrovare l’antica condizione di fedeltà alla propria «nazione». Tale fu il caso, ad esempio, di Benedetto Croce; ma proprio Benedetto Croce aveva contrastato la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, ed aveva poi fatto tacere la voce della ragione di fronte alle esigenze del lealismo nazionale. Così, proprio quando i fatti divengono estremamente gravi per i singoli individui, essi non possono discuterli, e restano senza scelte.
Quando la politica mette in gioco la vita e la morte non c’è libertà degli individui nei confronti di tale situazione. Si tratta evidentemente di uno scacco decisivo per tutte le ideologie democratiche che concepiscono lo Stato in funzione dell’individuo e non viceversa, perché non si capisce che senso abbia il diritto dell’individuo di organizzare lo Stato, e la sua vita nello Stato, nel modo che gli pare opportuno, se lo stesso individuo non ha il diritto di disporre liberamente della sua esistenza fisica. Il problema che dobbiamo porci, a questo proposito, non sta nel rivendicare tale libertà, nella presente situazione impossibile, ma può consistere nel prepararne sul piano teorico le condizioni, e perlomeno nel sapere che tale libertà non esiste, nel sapere che la «nazione», lungi dall’essere un fatto di «libertà», è al contrario un gravissimo limite alla «libertà». Infatti la situazione del potere politico che toglie la libertà agli individui proprio quando le circostanze riguardano la loro esistenza fisica, viene formulata in termini nazionali. Questa situazione è la «nazione»; ma la nazione, in tal caso, non è né l’organismo vivente, né il plebiscito di tutti i giorni. E’ un ente ignoto che signoreggia gli uomini valendosi del suo braccio secolare coercitivo, lo Stato.
Questo carattere del potere politico non è permanente nella storia, anche se i comuni osservatori politici lo ritengono normale e naturale. Due secoli fa, in Europa, le cose stavano diversamente. Per Wieland la libertà tedesca era proprio la libertà dalla situazione di potere attualmente formulabile con il linguaggio nazionale. Infatti egli pensava che i tedeschi godessero «del più alto grado di libertà umana e civile», e fossero più di ogni altro popolo «tutelati contro la soggezione e la servitù politica» proprio perché potevano scegliere tra diversi Stati.[19] Il caso tedesco era eccezionale perché la Germania era una «Kulturnation» divisa in parecchi Stati. Tuttavia anche negli Stati che, giudicati retrospettivamente, possono essere definiti mononazionali, non c’era l’attuale lealismo nazionale, e non c’erano le servitù corrispondenti. Ma il secolo scorso ha distrutto, tanto negli istituti quanto nella coscienza degli uomini, persino il ricordo di questa libertà la quale, se reclamata, sarebbe scambiata per una follia o per un delitto. Per ogni nazionalismo vale la regola: «wright or wrong, my country».


* Da un volume in corso di pubblicazione presso l’editore Giuffré sullo «Stato nazionale».
[1] Con diverse sfumature, molti autori condividono questa opinione. Georges Weill scrive: «Partout où pénètrent les principes de 1789 la nation apparaît comme un être collectif… les Français disent la nation formée par un contrat volontaire… les penseurs allemands… voient dans la nation un être vivant…». In seguito Weill introduce l’idea della razza. Nessun altro concetto della nazione compare nel suo lavoro; uno dei migliori che possediamo sulla storia del Nazionalismo del secolo scorso. Georges Weill, L’Europe du XIX siècle et l’idée de nationalité, Albin Michel, Parigi, 1938, pp. 2-3 e passim. Il contrat volontaire è il plebiscito di tutti i giorni di Renan, che sarà discusso più avanti.
[2] Friedrich Meinecke,Weltbürgertum und Nationalstaat: Studien zur Genesis des deutschen Nationalstaates.Cfr. la traduzione italiana, Cosmopolitismo e Stato nazionale, La Nuova Italia, Firenze, Perugia-Venezia, 1930, pp. 2-3.
[3] Per la discussione di questa concezione cfr. Boyd C. Shafer, Nationalism: Myth and Reality, Gollancz, Londra, 1955, al capitolo Some «Physical» Myths, anche in rapporto alla documentazione bibliografica.
[4] Hans Kohn attribuisce la paternità di questa concezione ad Herder. Cfr. Hans Kohn, L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico, traduzione italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1956, p. 315.
[5] La necessità della risoluzione dei «soggetti collettivi» in individui determinati è ritenuta da Max Weber indispensabile per la considerazione sociologica. «L’individuo rappresenta, per questa forma di considerazione, il limite ed il solo sostegno del comportamento dotato di senso. Nessuna forma di espressione che in apparenza se ne distacchi può mascherare questo fatto. E’ legato al carattere specifico non solo del linguaggio, ma anche del nostro pensiero, che i concetti con cui l’agire viene penetrato lo facciano apparire in veste di un essere permanente, di una formazione simile a una cosa o ad una «persona» che conduce una propria vita. Ciò avviene anche, e particolarmente, nella sociologia. Concetti come «Stato», «associazione», «feudalesimo» e simili designano per la sociologia, in generale, categorie di determinate forme di agire umano in società; ed è loro compito riportarle all’agire intelligibile e cioè, senza eccezione, all’agire degli uomini che vi partecipano». Tuttavia W. aggiunge: «Ed in questo la considerazione sociologica è soprattutto diversa dalla considerazione giuridica. La giurisprudenza ad esempio tratta lo «Stato», in certe circostanze, come una «personalità giuridica» al pari degli individui umani… nello stesso modo una proposizione «giuridica» considera gli embrioni come «personalità giuridica…» A noi pare però che il diritto, quando tratta lo «Stato» (o l’embrione) come una persona, cerca sempre di imputare a individui determinabili certe forme dell’agire umano, e quindi che l’idea di «persona collettiva» non metta in luce una differenza tra il diritto e la sociologia (che andrà cercata nel diverso modo di elaborare questi concetti «collettivi»), ma una differenza generale tra un uso riducibile all’empiria, ed un uso non riducibile all’empiria, di procedimenti mentali e linguistici spontanei. Lo stesso W. del resto allude a questi procedimenti quando dice che il nostro pensiero forma come «cose» o «persone» i concetti dell’agire. Cfr. Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali (traduzione italiana parziale della raccolta Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, 2a ed. 1951). Einaudi, Torino, 1958, pp. 256-57.
[6] Queste osservazioni valgono per molti concetti politici correnti, e spiegano perché in politica le «entità collettive» equivalgono spesso ad idee puramente arbitrarie, utili per fare battaglie di parole ma inutili per pensare con chiarezza situazioni di fatto.
[7] Egli scrive: «Il problema dello Stato è un problema di imputazione. L’imputazione allo Stato di una azione umana è possibile solo alla condizione che questa azione sia determinata in maniera specifica da un ordinamento normativo; e questo è l’ordinamento giuridico». Hans Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, 1945. Cfr. la traduzione italiana (già citata) a p. 196, ed in genere tutto il testo da p. 185 a p. 197.
[8] Questa osservazione giustifica, a nostro parere, il ricorso all’espressione «comportamento nazionale». Dobbiamo però, usando la parola «comportamento», fare una precisazione sul suo uso. Il termine (behaviour) è stato associato alla ben nota teoria psicologica dell’azione umana. L’influenza di questa teoria, ed un certo modo di vedere, hanno indotto alcuni studiosi ad oltrepassare, considerandoli come variabili dipendenti, i fatti abitualmente considerati rilevanti nell’azione politica, ed a ricondurli a motivazioni tratte dalla psicologia, come psicanalisi, come psicologia sociale e via dicendo. In tal modo tutto il campo della esperienza politica, e con trattamenti simili quello dell’esperienza giuridica, economica e così via, scomparirebbero per dar posto ad una antropologia scientifica generale. Contro queste estrapolazioni affrettate si è manifestata una sana reazione (cfr. ad es. David Easton,The political system, Knopf, New York, 1953, particolarmente a p. 151). Generalmente parlando si può, usando una certa teoria del comportamento umano, fare del «comportamento» il concetto-chiave della comprensione dei fatti umani, oppure si può usare il termine entro discorsi ai quali spetta di qualificarlo semplicemente allo scopo di riportare agli individui considerazioni che sovente, nell’esame dei fatti sociali, vengono imputate ad entità extraumane. Tale è l’uso che seguiamo.
[9] Cfr. Ernest Renan, Discours et Conférences, Calmann Levy, Parigi, 1887, pp. 277-305. Si tratta della famosa conferenza dal titolo Qu’est-ce qu’une nation?, che Renan pubblicò per la prima volta nel 1882, ed a cui teneva particolarmente tanto che, nella prefazione alla raccolta sopramenzionata, la raccomandò al lettore «come la sua professione di fede in ciò che riguarda le cose umane», dicendo che «ne aveva pesato ciascuna parola con la più grande cura».
[10] Tale è proprio il caso della discussione sulle «colpe della Germania» che si ebbe nel dopoguerra, discussione il cui esito non è andato al di là della rivalutazione di Herder che venne proposto come l’interprete del vero «spirito nazionale tedesco». A questo proposito si può osservare che l’uso dello «spirito» per giustificare le condotte politiche non è molto comprensibile. I tedeschi (gli uomini che vivono in Germania, e si ritengono esclusivamente tedeschi, e non anche europei) avrebbero dovuto fare i conti con il loro passato per cercare di comprendere le cause del nazismo. Sì occupano invece del gentile Volksgeist di Herder per dimenticare il brutale Herrenvolk di Hitler, ma l’uno e l’altro non diranno mai loro perché c’è ora un certo tipo di potere politico, perché ce n’è stato un altro, e la natura dei fatti in causa. In questa discussione figurarono Meinecke, che nel volume Die Deutsche Katastrophe si richiamò appunto ad Herder e fece la proposta di salvare lo «spirito della Germania» coltivando il «grande spirito tedesco» mediante la creazione di «Comunità Goethiane» in ogni città; e Jaspers, che nel volume Die Schuldfrage scrisse: «Non ci può essere nessun dubbio che tutti noi tedeschi siamo colpevoli; e che ogni tedesco in un modo o nell’altro ha la sua colpa». L’addebito riguarda anche chi si oppose al nazismo, il che implica che un individuo apparterrebbe ad una nazione in un modo tale che la «colpa» di questa lo riguarderebbe personalmente indipendentemente dalla sua condotta.
[11] Torneremo sulla questione quando discuteremo il problema del «carattere nazionale». Intanto osserviamo che, se si studiano gli aspetti psicologici ecc. dei fatti nazionali senza aver istituito una chiara discriminazione tra ciò che è «nazionale» e ciò che non lo è, non si sa nemmeno se si stanno studiando fatti nazionali o fatti di altro genere. A titolo indicativo citiamo Laswell, che dopo aver notato che la divisione dell’umanità in nazioni non corrisponde né a divisioni geografiche, né a divisioni economiche, né a divisioni razziali, e neppure a divisioni psicologiche, si limitò a studiare gli identifying symbols nazionali dal solo punto di vista psicologico senza chiedersi a quale aspetto della condotta umana si possa riferire il «comportamento nazionale», indagine necessaria non solo per selezionare i fatti, ma anche per collocarli nel quadro di interdipendenze entro il quale possono essere compresi. Ad esempio se il rilievo nazionale della condotta umana fosse riferibile ad una attività fabulatrice (come è possibile) per studiarne il carattere psicologico bisognerebbe evidentemente conoscere i contenuti (politici, economici, ecc.) cui si riferisce tale attività. Cfr. in Laswell, Merriam, Smith, A Study of Power, The Free Press, Glencoe, Illinois, 1950 lo studio di Laswell dal titolo World Politics and Personal Insecurity.
[12] Beranrd Lavergne, Le principe des nationalités et les guerres, Alcan, Parigi, 1921. Per i passi citati cfr. pp. 7-9 e 11, e per gli argomenti che li giustificano l’introduzione ed il primo capitolo. Lavergne cita la famosa formula di Mancini, ma la trova giustamente più brillante che rigorosa, ed osserva che per tutto il corso del diciannovesimo secolo non fu fatto alcuno studio serio sul concetto di nazione, che rimase allo stadio di una metafisica inconfessata. Egli propose che fossero considerati come «nazioni» solo i popoli in grado di darsi un governo efficiente, tenuto conto della sufficienza del mercato nazionale e della possibilità di condurre una politica estera indipendente. Si tratta di una proposta sensata, non di una spiegazione dei fatti nazionali. Applicandola oggi dovremmo concludere che non bisogna più considerare come «nazioni» la Francia, la Germania, l’Italia e via dicendo, cosa che non ha molto senso mentre ha senso proporre la Federazione Europea.
[13] Cfr. René Johannet, Le principe des nationalités, Nouvelle Librairie Nationale, Parigi, 1923. In questo volume, nella lunga introduzione di 149 pagine dal titolo Le mouvement nationalitaire dans le monde au XX siècle et principalement de 1914 à 1922, si trova una interessante analisi storica di questi fatti. La natura di questi fatti risulterà del resto evidente a chi si ponga il problema di quali sono, e cosa sono, le nascenti nazioni dell’Africa. Il paragone, in qualunque modo si pensi la differenza di civiltà tra Africa ed Europa, è calzante. Questi fatti d’altronde non erano diversi nemmeno nel secolo scorso. Possiamo ricordare che, pochi anni prima del conseguimento dell’«unità nazionale» italiana, Stuart Mill riteneva che esistesse una «nazione siciliana» ben diversa dalla «nazione italiana». E l’Italia, dopo la Germania, era la «nazione» più importante, e meglio caratterizzata, tra quelle sorte dalla crisi e dal disfacimento dell’Impero degli Asburgo.
[14] Cfr. Boyd C. Shafer, op. cit., Sezione I, Definitions, e Sezione II, Illusions Concerning the Basis of Nation and Nationalism.
[15] Come abbiamo già osservato nell’introduzione, ciò che determina il significato di una parola è il contesto. Il lessico, rispetto al linguaggio parlato, è già una astrazione, ed il suo limite sta nel fatto che deve considerare le parole ad una ad una, come non sono mai nel linguaggio parlato. Da questo punto di vista si dovrebbe dire che il linguaggio ordinario non irrigidisce i contesti, fatto che permette alla parola di aderire ai fatti anche se la nozione è imprecisa, mentre il linguaggio dottrinario li irrigidisce, perché deve stabilire nozioni precise, e quindi l’uso rigido di certe parole.
[16] Sfruttando le ambiguità delle dottrine nazionali, autori fascisti sostennero che soltanto il totalitarismo fascista, unificando senza residui «popolo» e «Stato» oltre l’«atomismo individualistico», realizzava veramente la «nazione». Cfr. la voce Nazione di C. Costamagna nel Dizionario di Politica, a cura del Partito nazionale fascista, vol. 3. Roma, 1950.
[17] Le conseguenze del fatto che il sentimento nazionale si applica a diverse azioni (cioè a diversi gruppi) rende spesso contradditorio il problema dell’attribuzione di questa o quella qualificazione nazionale a questo o quel gruppo. Ne risulta, in sede teorica, l’impossibilità di circoscrivere il gruppo «nazionale» senza ricorrere all’idea di un soggetto collettivo, mitico, che si sovrappone ai gruppi realmente esistenti (statale, linguistico, tradizionale ecc.) e fa perdere di vista gli individui ed i loro sentimenti. Ad es., se l’«Italia» è un gruppo linguistico, essa, rispetto al Sud Tirolo (nel linguaggio politico italiano Alto Adige), finisce a Salorno. Ma, poiché l’Italia è tout court una «nazione», essa resta un gruppo linguistico ma finisce al Brennero, e comprende anche Bolzano, dove gli uomini parlano tedesco.
[18] Anche se ciò appare a prima vista sconcertante, un esame freddo dei fatti prova a sufficienza che gli uomini ricorrono ancora a concetti mitici per formulare il comando di morire e di uccidere. Del resto questa situazione risulta perfettamente comprensibile se si tiene presente che il tentativo di affrontare scientificamente i problemi politici è abbastanza recente. Per valutare questa situazione il paragone con la scienza economica è illuminante. Siamo oggi in grado di usare i principii del pensiero scientifico nei rapporti economici perché negli ultimi due secoli c’è stata, a tal proposito, continuità di produzione scientifica. Dalla fondazione di schemi generali si è passati grado a grado alla introduzione di schemi sempre più particolari, e così alla creazione di un linguaggio che ci consente entro certi limiti di descrivere l’aspetto economico della condotta umana, e di organizzarlo tecnicamente verso certi scopi, superando l’epoca nella quale il comportamento economico era riferito a concezioni metafisiche, e praticamente abbandonato ai sentimenti irrazionali degli uomini. Nella politica siamo ancora a tale stadio perché un lavoro pari a quello della scienza economica non è ancora stato compiuto. Ma invece di affrontare sino in fondo il problema molti lavorano alla introduzione di schemi particolari, adatti a ricognizioni empiriche parziali, mentre non è ancora garantita la fondazione di schemi generali, necessari per identificare il tipo dell’esperienza ed il discorso che deve organizzarla, e per orientare tali ricerche particolari. Questa situazione si riflette tanto nelle considerazioni dell’uomo della strada, che trova la politica un imbroglio quanto nell’opinione degli studiosi: ad esempio il Burdeau scrive: «Io sono convinto che nell’ordine politico noi siamo ancora dei primitivi». (Cfr. Georges Burdeau, Méthode de la science politique, Dalloz, Parigi, 1959, p. 89). A proposito della situazione della scienza politica, del paragone con la scienza economica, e dei problemi di metodo, dobbiamo qui manifestare il nostro debito verso l’insegnamento del prof. Bruno Leoni, del quale vogliamo almeno citare l’articolo programmatico con il quale inaugurò la «Nuova Serie degli Annali di Scienze Politiche dell’Università di Pavia», dal titolo «Il Politico». Cfr. «Il Politico», 1950, n. 1, pp. 5-9.
[19] Cfr. Hans Kohn, op. cit., p. 457. Kohn riporta inoltre, a p. 484, l’opinione di Wieland il quale affermava di esaltare, e non di lamentare, la divisione della Germania in molti popoli e Stati perché riteneva che l’unità popolare e statale tedesca avrebbe distrutto la libertà umana e la vita intellettuale in Germania. Ha addirittura sapore di tragica profezia questa frase di Johann Stephan Putter: «Che sciagura per la libertà del Continente se le centinaia di migliaia di baionette tedesche ubbidiranno un giorno ad un solo sovrano!» che Kohn cita a p. 457. Naturalmente questa «sciagura» non sta nella «essenza tedesca», come potrebbe pensare chi attribuisce alla Germania due «anime», l’una razionale e l’altra irrazionale, ma nella concentrazione del potere, nelle centinaia di migliaia di baionette a disposizione di un «solo sovrano» tedesco, francese, o di qualunque altra nazionalità.

 

 

 

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