IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIII, 2021, Numero 2-3, Pagina 101

 

 

80 anni del Manifesto di Ventotene e il futuro dell’Europa*

 

JOSEP BORRELL

 

 

Mi ha fatto piacere ritornare a Ventotene nel settembre 2021, in occasione dell’ottantesimo anniversario del Manifesto e della quarantesima edizione del Seminario sul federalismo e il mondo, promosso da Spinelli stesso. Ero già stato lì, nel 2014, per prendere la parola durante la sessione finale di questo seminario internazionale annuale sul federalismo. Questo luogo ha un significato unico, simbolico, per me e per tutto ciò per cui mi batto politicamente: l’integrazione europea, il federalismo, l’antifascismo, la democrazia e la solidarietà internazionale. È stato bello tornare sull’isola e discutere le prossime fasi del ruolo globale dell’Europa con giovani provenienti da tutt’Europa.

Quella del 2021 è stata un’estate di caos e di crisi. Come Alto rappresentate dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza e Vice-Presidente della Commissione, ho dovuto costantemente occuparmi del caotico ritiro dall’Afghanistan, delle sue conseguenze e delle sue implicazioni per il ruolo globale dell’Europa, senza dimenticare altre crisi: il Libano, la Bielorussia, Haiti, ecc.

Di questi tempi, molte politiche sono basate su dinamiche tribali. Tuttavia per forgiare i compromessi che sono necessari in politica estera, questo è tutt’altro che utile. Se c’è una tribù politica alla quale appartengo, è quella che combatte per un’Europa forte come antidoto al nazionalismo, come solo mezzo per permettere agli europei di raggiungere i nostri obiettivi comuni e di difendere il nostro modello europeo di solidarietà, prosperità e libertà.
 

Le lezioni dall’Afghanistan

Per mettere in luce le prossime fasi del ruolo globale dell’Europa, dobbiamo anzitutto prendere in considerazione la drammatica situazione dell’Afghanistan e le lezioni che fornisce all’Europa, perché essa non è solo una catastrofe per gli afghani, ma anche un duro colpo per l’Occidente e un punto di svolta nella politica mondiale.

Fino a questo momento, l’Europa si è concentrata esclusivamente sull’urgenza delle evacuazioni. Ma dobbiamo analizzare anche altre sfide:

— che cosa succederà a quanti rimangono in Afghanistan? Questo problema riguarda in particolare le donne, le ragazze, prive dei più elementari diritti;

— che lezioni possiamo trarre da questa situazione, per permettere all’UE di migliorare la sua capacità di state-building?

— quali sono le implicazioni per la capacità dell’Europa di agire nel campo della sicurezza?

— quali sono le conseguenze per le opzioni politiche dell’Europa sull’Afghanistan, compreso il problema della misura con cui trattare con i Talebani?

L’intervento internazionale in Afghanistan è stato una guerra “giusta”, un chiaro casus belli con un mandato delle Nazioni Unite concordato. Ha raggiunto rapidamente il suo obiettivo inziale di respingere Al Qaeda e di destituire il governo talebano. Si è poi trasformato in qualcosa di più ampio, essenzialmente un esercizio di state-building, riversando miliardi in aiuti civili e militari ed esportando i nostri modelli di pensiero e di organizzazione.

L’Afghanistan non l’abbiamo perso nelle ultime settimane. L’abbiamo perso negli ultimi vent’anni. Il nostro fallimento è stato dovuto alla mancanza di una politica efficace, non alla mancanza di risorse. Ci siamo mostrati più bravi in cose tecniche e misurabili, come costruire scuole o stabilizzare una moneta, che nel contribuire a creare strutture statali e capacità di gestione locale.

Quindi, la prima lezione da imparare dovrebbe essere che non si può vincere la pace facendo la guerra, non importa quanto brillante e potente sia la vostra strategia anti-insurrezionale. La pace può essere vinta solo con una politica funzionale, fondata sulla legittimità locale, sulle opportunità economiche e su un contesto regionale favorevole. Nessuna assistenza esterna, per quanto grande, potrà mai sostituire una soluzione politica concordata a livello locale. Gli europei, che sono profondamente impegnati in altri teatri — il Sahel, per esempio —, devono trarre dalla tragedia afghana questo insegnamento per evitare che si ripeta in futuro.

La seconda lezione riguarda le relazioni transatlantiche, la condivisione degli oneri e la capacità dell’Europa di pensare e agire in termini strategici.

L’Afghanistan è stato il primo caso in cui è stato invocato l’articolo 5 della NATO. Gli europei hanno fornito un forte impegno militare (1.000 perdite) e un programma di aiuti economici di oltre un miliardo di euro all’anno. Tuttavia, alla fine, la tempistica e le modalità del ritiro sono stati stabilite da Washington. Di conseguenza, gli europei si sono trovati a dipendere dalle scelte degli Stati Uniti, sia nel senso immediato dell’organizzazione delle evacuazioni, sia in termini più ampi.

Pertanto, l’Afghanistan deve essere il nostro campanello d’allarme. Gli europei devono investire di più nella loro capacità di sicurezza. Gli Stati Uniti dichiarano apertamente che non intendono impegnarsi nelle “guerre degli altri” e, giustamente, non vogliono fare tutto da soli, né ai confini dell’Europa, né oltre. L’UE ha bisogno dei mezzi per essere in grado di agire come fornitore di sicurezza globale, ove possibile con i partner, ma anche da sola se necessario.

Per quanto riguarda il conteso regionale e le nostre opzioni politiche, Cina, Russia, Iran, ma anche Pakistan, India e Turchia si riposizioneranno tutti in Afghanistan, con un impatto diretto sul contesto regionale e sulle nostre scelte politiche. L’UE non dovrebbe lasciare che altri siano i soli interlocutori dell’Afghanistan dopo il ritiro. Dobbiamo riformulare il nostro impegno.

Inoltre, qualsiasi cosa accada in Afghanistan continuerà a influenzare l’Europa e i paesi interposti tra noi e l’Afghanistan, in termini di droga, terrorismo e migrazione illegale. Ma anche in termini di opportunità. L’Afghanistan potrà sì essere il settimo paese più povero del mondo, ma dispone anche di molte risorse, tra cui vaste riserve di litio, vitali per lo sviluppo economico dell’Afghanistan, ma anche per la transizione energetica del mondo.

Dal momento che non siamo riusciti a tenere i Talebani fuori dal potere, dobbiamo trattare con loro. Naturalmente, ciò deve essere soggetto a chiare condizioni circa il loro comportamento, in particolare nel rispetto dei diritti umani. Al di là della questione di chi è al potere, l’UE deve continuare a sostenere il popolo afghano, soprattutto le minoranze, le donne e le ragazze. Per questo motivo, la Commissione europea ha già deciso di quadruplicare l’aiuto umanitario portandolo a 200 milioni di euro.
 

Costruire una politica estera europea più forte.
Lezioni dal Manifesto di Ventotene

Se allarghiamo lo sguardo oltre l’Afghanistan, appare chiaro che rafforzare la politica estera europea è il compito più urgente che l’Europa deve affrontare, ma è anche il campo in cui gli ostacoli sono maggiori. L’idea che gli europei possano essere efficaci nel mondo solo se agiscono insieme ha una plausibilità intrinseca. In effetti, il famoso Manifesto di Ventotene del 1941 chiedeva già un’unica politica estera e di difesa dell’UE. Già 80 anni fa, Spinelli su questo aveva ragione (come su molte altre cose).

Tra l’altro, i cittadini europei hanno sostenuto per decenni una politica estera dell’UE più forte. Per molti anni, forti e stabili maggioranze l’hanno chiesta e negli ultimi anni, le cifre sono ulteriormente aumentate (oltre il 70% secondo l’ultimo Eurobarometro).

I cittadini capiscono molto bene che in un mondo di superpotenze che fanno sentire il loro peso, in un mondo di grandi tendenze e grandi minacce, non c’è speranza di avere un impatto se ogni paese agisce da solo. Questo è ovvio e, tuttavia, rendere efficace la politica estera dell’UE rimane un lavoro incompiuto. Il fatto è che i cittadini sono avanti rispetto ai governi nazionali. I grandi decisori sono i governi e, in politica estera, per l’Unione europea, questo ha imposto la regola dell’unanimità.

In altri campi, com’è noto, abbiamo trasferito competenze a livello comunitario e concordato di prendere decisioni a maggioranza qualificata; per di più, in questi campi sono in gioco anche importanti interessi nazionali, ad esempio il mercato unico, ma anche obiettivi energetici e climatici. Si tratta di settori politici non meno “sensibili” della politica estera; tuttavia in questi campi abbiamo collettivamente deciso che è meglio evitare la paralisi e i ritardi che derivano dall’unanimità e dare alle istituzioni comuni mandati chiari e risorse.

In politica estera e di sicurezza, non abbiamo, e nemmeno progettiamo una politica estera unica dell’UE, come chiedeva Spinelli, ma ci limitiamo ad una politica comune. E’ un po’ come il piano Balladur quando preparavamo l’Unione monetaria. Tuttavia, vale la pena di notare che abbiamo deciso di optare per una moneta unica con una politica monetaria unica gestita dalla BCE, e che abbiamo una politica commerciale unica gestita dalla Commissione, basata su mandati e decisioni adottati a maggioranza qualificata. In genere, queste politiche funzionano ragionevolmente bene: possiamo prendere decisioni veloci per difendere i valori e gli interessi comuni europei.

Al contrario, nell’Europa a 27, abbiamo una grande diversità di vedute sulle questioni internazionali. Non abbiamo una cultura strategica comune: non c’è da stupirsi, quindi, se spesso occorre molto tempo per giungere a una decisione, o se eccelliamo nel rilasciare dichiarazioni in cui “monitoriamo una situazione” o “esprimiamo le nostre preoccupazioni”, ma non specifichiamo quali azioni intraprenderemo se le nostre preoccupazioni non vengono ascoltate — il che accade fin troppo spesso.

So benissimo che è difficile cambiare le cose nell’UE, soprattutto su come organizzarci. Tuttavia, nel corso dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, dovremmo essere pronti ad avere un dibattito aperto, senza tabù e dovremmo discutere su come darci i mezzi istituzionali per costruire la politica estera credibile che i nostri cittadini chiedono.

A metà degli anni Ottanta, il Rapporto Cecchini sul costo della non-Europa, che ha spianato la strada al mercato unico, è stato adottato a maggioranza qualificata. Ora dobbiamo calcolare il costo della non-Europa in politica estera e trarre e dovute conseguenze.
 

Le risorse dell’Europa e i recenti progressi

L’UE è ancora lontana dall’obiettivo che Spinelli aveva indicato 80 anni fa, tuttavia abbiamo fatto dei progressi ed esistono grandi potenzialità. Rimaniamo il più grande mercato del mondo. Le aziende di tutto il mondo seguono volontariamente le regole dell’UE per avere accesso al più grande gruppo di ricchi clienti (il cosiddetto “effetto Bruxelles”). Abbiamo il più grande bilancio del mondo per l’aiuto pubblico allo sviluppo (Official Development Assistance). Schieriamo 17 operazioni civili e militari in tre continenti. L’Europa ha tre volte più diplomatici degli Stati Uniti o della Cina, ma qui sta anche il problema: si tratta di diplomatici nazionali, che rispondono ai rispettivi Ministeri degli Affari esteri nazionali che, a loro volta, rispondono ai parlamenti nazionali e ai dibattiti nazionali. È quindi meno ovvio affermare che l’Europa è tre volte più potente degli Stati Uniti o della Cina.

Il principale problema dell’Europa è auto-imposto: la frammentazione. Frammentazione tra le aree politiche, dove la politica è fatta a compartimenti stagni; e tra gli Stati membri, dove i dibattiti e le scelte sono guidate da considerazioni nazionali. La buona notizia è che se qualcosa è auto-imposto, potete cambiarlo voi stessi. Non avete bisogno di approvazioni esterne.

Dobbiamo guardarci dall’atteggiamento psicologico dell’accettazione della debolezza dell’Europa, dal senso di un inevitabile declino e di irrilevanza. Abbiamo molti strumenti e una forte legittimità, grazie alle nostre forti credenziali multilaterali.

Forse troppo lentamente, ma stiamo comunque facendo progressi. Idee come quella che gli europei debbano “imparare il linguaggio del potere” e sviluppare la loro “autonomia strategica” sono ora più comunemente capite e guidano il processo decisionale. Stiamo sviluppando con gli Stati membri una “bussola strategica” per creare una percezione delle minacce e priorità di difesa e sicurezza condivise a 27.

Abbiamo anche adottato un regime di sanzioni globali per perseguire le più gravi violazioni dei diritti umani, ovunque esse avvengano. Anche se chi le commette risiede in Cina e se ci si aspettano contro-sanzioni.

Inoltre, abbiamo lanciato due operazioni di politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) che dimostrano che gli europei sono pronti a correre dei rischi e a diventare fornitori di sicurezza.

Abbiamo risorse e buona esperienza: da queste dobbiamo attingere per promuovere i nostri valori e i nostri interessi nel mondo post-pandemico.
 

Il mondo post-pandemico e le tre principali priorità

È difficile riassumere le prospettive del nostro mondo post-pandemia, ma vedo cinque tendenze principali: nessuna di esse è completamente nuova, ma sono state tutte accelerate dalla crisi.

In primo luogo, c’è una competizione senza precedenti tra gli Stati, che dà forma a un mondo di nazionalismo competitivo, politica di potere e giochi a somma zero.

In secondo luogo, il nostro mondo sta divenendo più multi-polare che non multilaterale. La competizione strategica tra Stati Uniti e Cina spesso paralizza il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del Commercio e l’Organizzazione mondiale della Sanità.

In terzo luogo, anche se abbiamo quasi smesso di viaggiare come individui, la globalizzazione continua. L’interdipendenza è sempre più conflittuale, e gli strumenti di soft power sono diventati armi: vaccini, dati e standard tecnologici sono tutti strumenti di competizione politica.

In quarto luogo, alcuni paesi seguono “una logica imperiale”, discutendo in termini di “diritti storici” e di “zone di influenza” anziché aderire a regole concordate e al consenso locale.

Infine, il mondo sta diventando meno libero e la democrazia è sotto attacco, sia in Europa che fuori. Ci troviamo di fronte a una vera e propria battaglia di narrazioni.

La conclusione ovvia è che queste tendenze sono sfavorevoli all’Unione europea. Noi preferiamo un mondo multilaterale prevedibile, basato su regole, con persone e paesi liberi di plasmare i propri destini; quindi dobbiamo vedere queste cinque tendenze come una chiamata all’azione.

In futuro, tre mega-sfide determineranno il ruolo futuro dell’UE in questo mondo post-pandemico:
 

1. Come affrontare un vicinato sempre più “affollato”?

Il vicinato dell’UE è diventato “affollato” e competitivo, con la Russia, la Turchia ed altri che utilizzano tattiche ibride. Contemporaneamente, sappiamo che gli abitanti del vicinato vogliono dall’Europa di più, reso disponibile più velocemente e meglio. Il modello europeo di democrazia, solidarietà, libertà e diritti fondamentali rimane estremamente attraente e potente. Dobbiamo continuare a lavorare con quanti condividono la nostra visione.

Ciò significa mantenere i nostri impegni con i Balcani occidentali e mantenere l’intera regione su un percorso europeo, compreso il rilancio del dialogo tra Serbia e Kosovo. Ciò significa sostenere l’Ucraina quando affronta l’aggressione russa, mentre il suo programma di riforme porta il paese più vicino all’UE. Ciò significa continuare a fare pressione sul regime bielorusso per l’oppressione dei suoi cittadini. Ciò significa sostenere la Libia e il suo nuovo governo di unità nazionale. Ciò significa anche fare tutto il possibile per evitare una catastrofe in Libano a causa dello stallo politico. La lista è ancora lunga.

La carne al fuoco è molta, ma l’UE deve fare un passo avanti quando si tratta del suo vicinato, a est e a sud, sia chiedendo di più, sia offrendo di più.
 

2. La posizione dell’UE nella triangolazione strategica con gli Stati Uniti e la Cina.

La seconda mega-sfida sta nel pilotare l’UE nella triangolazione strategica tra Stati Uniti, Cina e Unione europea — e come mescolare elementi di cooperazione e di competizione in una strategia coerente.

La crescente influenza cinese, costruita sulla centralizzazione in patria e sull’assertività all’estero, è riconoscibile ovunque, e la cooperazione con la Cina sta diventando più difficile. Ciò è in parte dovuto al legame da parte dell’UE tra accesso al mercato e diritti umani. Tuttavia, con il 25% della crescita mondiale nel 2021 che dovrebbe venire dalla Cina, la cooperazione economica rimane essenziale.

La competizione strategica tra Stati Uniti e Cina è destinata a modellare il mondo nei decenni a venire e bisogna che l’UE segua una rotta chiara. E’ essenziale tener presente che l’UE e gli Stati Uniti hanno una storia condivisa e che i nostri sistemi politici sono il prodotto dell’illuminismo, anche se non sempre i nostri interessi coincidono.

Le relazioni tra l’UE e la Cina riguardano in gran parte il fare i nostri compiti per quanto riguarda la valutazione degli investimenti, i sussidi esteri, il 5G, gli appalti, gli strumenti anti-coercizione e lo sviluppo di una strategia indo-pacifica.
 

3. Come possiamo garantire un’azione efficace nelle sfide globali, specialmente per quanto riguarda la crisi climatica e la regolamentazione della tecnologia?

Anche di fronte a una crisi del multilateralismo, abbiamo bisogno di rivitalizzarlo per ottenere risultati nelle grandi questioni. Il cambiamento climatico e la tecnologia sono due terreni di confronto esemplari per il sistema multilaterale.

Il recente rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) è stato l’ennesimo campanello d’allarme che dice che siamo di fronte a una vera crisi climatica. Le anomalie climatiche non sono qualcosa che accadrà in futuro, stanno già accadendo oggi. La Sicilia ha registrato un record assoluto di 48,6° C nell’estate del 2021. Il riscaldamento globale si sta verificando due volte più velocemente del previsto nell’Artico. Stiamo superando ogni sorta di “punti di non-ritorno”. Un mondo che si è riscaldato di 3° C entro il 2100 — che è la traiettoria attuale — è radicalmente diverso da uno con 1° C o 2° C di aumento.

La COP26 a Glasgow nel novembre 2021 potrebbe essere considerata come l’ultima occasione per fermare il cambiamento climatico incontrollato, ma questo richiederà un’accelerazione radicale degli sforzi globali. Il cambiamento climatico è anche una questione geopolitica. Creerà nuove minacce alla sicurezza e spostamenti del potere nel mondo.

D’altra parte, il multilateralismo ha anche bisogno di ottenere risultati nel campo della tecnologia, in particolare nella definizione di standard per l’intelligenza artificiale, i dati, le armi autonome, i servizi cloud e la sorveglianza. Dovremmo chiederci chi stabilirà le regole e su quali basi e valori.

Nel corso della storia, il controllo della tecnologia ha determinato chi governa il mondo. Ma possiamo continuare a contare sull’“effetto Bruxelles” se nessuna delle aziende Big-Tech è europea? Gli europei devono lavorare sodo per contribuire a stabilire le regole per il futuro.
 

Un Manifesto di Ventotene per il XXI secolo

In conclusione, dopo ottant’anni, potrebbe essere arrivato il momento di un nuovo Manifesto di Ventotene, che si concentri non solo sulla critica degli Stati nazionali come fonte di guerre e dell’anarchia internazionale, ma che metta in evidenza i loro limiti nell’affrontare le grandi sfide transnazionali del nostro tempo, come le pandemie, il cambiamento climatico, le migrazioni e la transizione digitale, tra le altre. Tutte queste sfide hanno una natura globale e ad esse non ci sono risposte nazionali. Oltre a dotare la nostra Unione Europea dei poteri di cui ha bisogno, dobbiamo anche forgiare una governance globale riformata, con regole chiare e soprattutto con mezzi efficaci per farle rispettare.

Troppo spesso vediamo che le regole concordate a livello internazionale vengono violate impunemente. Troppo spesso, vediamo paesi che adottano approcci egoistici e la fanno franca. Troppo spesso, sentiamo il canto delle sirene del nazionalismo dove uomini forti (sono per lo più maschi) offrono soluzioni semplici. In troppi casi, il sistema esistente non è in grado di assicurare un’azione efficace.

Per questo, propongo la discussione di un nuovo Manifesto di Ventotene, che offra soluzioni concrete ai pressanti problemi del mondo instabile di oggi. Un manifesto ambizioso e audace, con un forte senso di urgenza. Ma che sia anche profondamente pratico e moderno, per risolvere i problemi che definiscono la nostra epoca e quella dei nostri (nipoti) figli.


* Questo saggio è la rielaborazione del discorso tenuto dall’Alto Rappresentante Dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di Sicurezza e Vice-Presidente della Commissione europea a Ventotene il 29 agosto 2021 in apertura della quarantesima edizione del Seminario sul federalismo in Europa e nel mondo.

 

 

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