IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIV, 2022, Numero 1, Pagina 23

 

 

Le critiche di Einaudi e di Agnelli e Cabiati
alla Società delle Nazioni*

 

SERGIO PISTONE

 

 

Nel periodo fra le due guerre mondiali e la Resistenza l’europeismo è stato fortemente presente in Piemonte.[1] Gli scritti di Luigi Einaudi, Attilio Cabiati e Giovanni Agnelli — le tre personalità più importanti e di significativa statura internazionale — nel 1918 dedicati al progetto della Società delle Nazioni (SdN) sono contributi di notevole valore al dibattito sul tema dell’unificazione europea svoltosi nel periodo fra le due guerre mondiali. Le argomentazioni formulate da questi autori costituiscono una svolta nella storia dell’idea dell’unificazione europea. In sostanza vengono qui per la prima volta individuati alcuni aspetti centrali della problematica dell’unificazione europea, i quali saranno al centro del successivo dibattito teorico su di essa e viene messo in luce in termini convincenti come la federazione europea rappresenti l’unica adeguata risposta ai problemi di fondo che stanno all’origine della prima guerra mondiale.[2] È pertanto doveroso richiamare all’attenzione questi scritti.

Non è casuale che questi chiarimenti siano apparsi nel contesto della critica alla SdN, allora in fase di progetto. In effetti l’emergere di un simile progetto era da una parte il chiaro sintomo che la prima guerra mondiale, con la sua inaudita distruttività e con il pericolo che essa aveva fatto balenare di un crollo irreparabile della stessa civiltà europea, aveva posto le classi politiche delle massime potenze non più soltanto di fronte all’esigenza essenzialmente morale, ma direttamente di fronte al problema politico (in quanto condizionante la sopravvivenza dello stesso sistema europeo degli Stati) di rendere per il futuro impossibili nuove guerre e, quindi, di mutare la struttura dei rapporti internazionali. Dall’altra parte la progettata nuova organizzazione internazionale costituiva una risposta del tutto inadeguata (come poi l’esperienza storica ha ampiamente dimostrato) a tale problema, perché non eliminava le vere radici della guerra. Ora, proprio la necessità di confrontarsi con una proposta politica concreta e abbastanza chiaramente definita permise ai nostri autori non solo di individuare lucidamente le sue insufficienze strutturali, ma anche di dimostrare in modo non astratto che la federazione europea rappresentava la risposta adeguata ai problemi posti dalla guerra mondiale e quindi di formulare la proposta federale in termini decisamente più precisi e convincenti di quanto non fosse avvenuto fino ad allora.

Di qui l’utilità di illustrare nei termini essenziali tali critiche alla S.d.N. Nel far ciò conviene prendere dapprima in esame il contributo di Einaudi, il quale dedicò alla S.d.N. nell’ultimo anno di guerra due memorabili articoli pubblicati sul Corriere della Sera,[3] il primo dei quali costituisce una delle fonti dirette di ispirazione dell’opera più ampia scritta in quello stesso anno da Agnelli e Cabiati.[4]

Nel primo articolo, che è anche il più importante, la critica di fondo al progetto della SdN riguarda il mantenimento della sovranità statale assoluta che tutti i governi interessati ponevano come condizione irrinunciabile della realizzazione del progetto stesso. Il giudizio di Einaudi al riguardo è estremamene netto. E’ del tutto illusorio sperare che sia possibile conservare durature condizioni di collaborazione pacifica fra gli Stati sulla base di un’organizzazione internazionale che non limiti sostanzialmente la sovranità, che non costituisca cioè “un vero super-Stato fornito di una sovranità diretta sui cittadini di vari Stati, con diritto di stabilire imposte proprie, mantenere un esercito super-nazionale, distinto dagli eserciti nazionali, padrone di un’amministrazione sua diversa dalle amministrazioni nazionali”.[5] Contro questa possibilità sta l’insegnamento inequivocabile dell’esperienza storica, dalla quale emerge che tutte le forme di “confederazioni di Stati sovrani” (così Einaudi definisce le associazioni fra Stati che non ne limitano sostanzialmente la sovranità), dalla confederazione delle città greche del quinto secolo avanti Cristo fino alla Santa Alleanza e alla Confederazione tedesca del XIX secolo, sono inesorabilmente fallite. Al contrario hanno avuto successo le fusioni di più Stati in un unico Stato unitario e la Federazione nordamericana, nata appunto per superare i limiti della confederazione costituita durante la guerra d’indipendenza e che stava per dissolversi. E proprio all’esempio americano viene dedicata la maggiore attenzione, in quanto esso propone il modello valido per realizzare l’unificazione di più Stati nazionali su un’area continentale, preservando il grado di autonomia compatibile con la conservazione dell’unità.

Sulla base di queste considerazioni storiche comparative Einaudi non solo giunge alla conclusione che la progettata SdN è destinata a fallire, ma prevede addirittura che essa finirà per “aumentare ed invelenire le ragioni di discordia e di guerra”, poiché alle “cause esistenti di lotta cruenta si aggiungerebbero le gelosie per la ripartizione delle spese comuni, le ire contro gli Stati morosi e recalcitranti”.[6]

Per apprezzare l’importanza di questa critica e di questa previsione, occorre rendersi conto che in tal modo viene introdotto nel discorso sull’unificazione europea un chiarimento concettuale che a prima vista può sembrare quasi banale, ma che in verità rappresenterà d’allora in avanti il fondamentale criterio necessario per discriminare le proposte in grado di risolvere il problema della stabile collaborazione pacifica in Europa dalle soluzioni apparenti di questo problema, e che già allora permette all’europeismo federalista di tradursi in punto di vista critico rispetto alla realtà politica, di non essere più semplicemente una delle versioni del pacifismo moralistico. Cioè viene introdotta, in riferimento alla proposta concreta di una nuova organizzazione internazionale, la precisa distinzione concettuale fra la collaborazione fra gli Stati e la loro unificazione, chiarendo come l’un concetto sia l’opposto dell’altro. In sostanza la scelta della collaborazione fra Stati sovrani significa la volontà di rimanere divisi, pur dovendo risolvere problemi che richiedono l’unificazione, e significa altresì non voler comprendere che, senza la limitazione dalla sovranità, che è la vera radice della divisione indipendentemente dalla buona o cattiva volontà da parte dei governi di collaborare, la collaborazione, e quindi l’organizzazione internazionale su di essa fondata, fallirà non appena i contrasti diventeranno rilevanti. Al contrario l’unificazione, possibile solo con la limitazione della sovranità, è quella situazione che permette di restare uniti nonostante l’emergere dei contrasti, il che rappresenta la normalità nei rapporti fra i gruppi umani.

Alla chiarezza di questa distinzione non corrisponde, si deve riconoscere, una netta indicazione a favore di una federazione europea, la quale a Einaudi appare poco realistica, mentre gli sembra più prudente in una prima fase limitarsi ad immaginare creazioni di Stati latini, germanici, slavi d’ordine più elevato dei piccoli Stati europei, che tutto fa presumere destinati a divenire stelle di seconda o terza grandezza.[7] Ciò non toglie che l’esigenza dell’unità europea costituisca il problema centrale della nostra epoca e che la sua soluzione in positivo od in negativo sia l’oggetto centrale dello scontro bellico in corso: “La guerra presente è la condanna dell’unità europea imposta colla forza da un impero ambizioso ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma politica d’ordine superiore”.[8]

Ciò che precisamente intende con quest’ultima affermazione Einaudi lo chiarisce nel secondo articolo, che sviluppa come tema centrale quello della contraddizione esistente fra il dogma della sovranità statale assoluta e la crescente interdipendenza, al di là delle barriere nazionali, dei rapporti umani in tutti i campi, ma soprattutto in quello economico, la quale interdipendenza richiede la limitazione ed il coordinamento della sovranità su spazi sempre più vasti e, in prospettiva, a livello del mondo intero. Che si tratti di una contraddizione matura lo dimostra, a suo avviso, nel modo più appariscente proprio l’esempio della politica tedesca, la quale dalla volontà di conservare piena e incondizionata la propria sovranità, e di non accettare alcuna limitazione volontaria della stessa è tratta con logica ed inesorabile consequenziarietà a perseguire un disegno di egemonia europea e mondiale. In effetti garantire militarmente con assoluta sicurezza la sovranità di uno Stato europeo è possibile solo distruggendo la potenza di tutti gli eventuali avversari; e ciò non si può ottenere se non dominando direttamente o indirettamente l’intero continente europeo, e facendo di questo dominio la base per un ruolo egemonico mondiale. E d’altra parte poiché l’indipendenza implica l’autosufficienza economica, cioè il non dover dipendere dalla volontà altrui, soprattutto in termini di risorse alimentari e di materie prime per l’industria, soltanto tramite il dominio su aree di dimensioni continentali e oltre è possibile garantire le basi economiche della sovranità. Da qui appunto gli obiettivi egemonici perseguiti dalla Germania nella guerra, contro la realizzazione dei quali si deve combattere con tutte le forze materiali e morali, contrapponendo ad essi non però la semplice preservazione o restaurazione dell’indipendenza nazionale, bensì la ricerca di una soluzione pacifica e volontaria, cioè federale del problema reale consistente nell’interdipendenza crescente su scala continentale e mondiale.

Accanto alla chiarificazione concettuale dell’opposizione fra collaborazione interstatale e unificazione, questo è dunque il secondo contributo decisivo dato da Einaudi negli scritti in esame al chiarimento della problematica dell’unificazione europea. Si tratta di un punto di vista che d’ora in poi resterà costante, sia pure attraverso successivi approfondimenti, nel pensiero federalista di questo autore, e che riemergerà in tutte le più acute prese di posizioni a favore della federazione europea.[9]

Rispetto ai contributi di Einaudi alcuni importanti passi in avanti sono già presenti nell’opera contemporanea di Agnelli e Cabiati. Del loro libro, ricco di spunti di notevole interesse,[10] vengono qui per altro prese in considerazione soltanto le tesi più chiarificatrici attinenti al tema specifico della S.d.N. A questo proposito i due autori per un verso si riallacciano direttamente al discorso einaudiano facendone proprie le due tesi centrali sopraindicate (e prendendo più nettamente posizione, come si è visto, a favore di una federazione europea), mentre, per l’altro verso, lo integrano con dei contributi originali.

Il più notevole di questi contributi consiste in un’argomentazione più ampia e articolata a sostegno della tesi che la S.d.N. non impedirà nuove guerre, e anzi contribuirà a favorirne lo scatenamento. Nell’approfondire la critica einaudiana, che individua il difetto strutturale del progetto della SdN nell’assenza di una reale limitazione della sovranità, i due autori esaminano dettagliatamente i singoli aspetti del progetto del Presidente Wilson e, tra l’altro, demistificano in modo radicale l’idea, che nel progetto ha un’importanza centrale, del tribunale supremo, davanti ai deliberati del quale tutti gli Stati dovrebbero inchinarsi.

Un tribunale arbitrale, come dimostra l’esperienza storica, non è in grado, nei confronti di Stati che conservano, oltre alla sovranità formale, la possibilità effettiva di difenderla militarmente, di far valere le proprie sentenze in tutti i casi in cui i suddetti Stati ritengano lesi da tali sentenze i propri interessi vitali. Né ci si deve illudere di poter superare tale resistenza impiegando la forza coattiva delle nazioni collegate. In effetti, se tale forza coattiva è quella delle armi, allora si cadrebbe nella situazione che la SdN vorrebbe escludere; cioè si sarebbe costretti a continuare su scala sempre crescente una corsa agli armamenti, destinata fatalmente a sboccare in una guerra. Se invece si ritenesse di dar forza coattiva alle sentenze del tribunale internazionale, minacciando l’esclusione della potenza ribelle dagli accordi economici, tale sanzione sarebbe nei casi decisivi insufficiente: “1° perché, se la Potenza in questione si pone d’accordo con altri Stati, può costituire una forza tale da resistere al blocco economico per tutta la durata di una lunga guerra; 2° perché questa resistenza può venire facilitata da accaparramenti di materie prime e di commestibili compiuti con la dovuta larghezza nel periodo prebellico”.[11] D’altro canto, l’idea di poter superare tali difficoltà con il disarmo è ancor più fantastica, dal momento che non ci sono mezzi adeguati “per impedire ad uno stato di preparare almeno potenzialmente una organizzazione militare superiore a quella che appaia esteriormente sulla carta”, ed è d’altronde chiaro che “i popoli più industriali e meno democratici… saranno sempre superiori agli altri nella rapida organizzazione di eserciti”.[12]

È significativo che i due autori rafforzino queste critiche veramente preveggenti ricorrendo all’autorità di Treitschke, vale a dire di uno dei più noti esponenti di quella dottrina tedesca dello Stato-potenza (Machtstaatsgedanke) che è stata il principale strumento di giustificazione ideologica del nazionalismo e dell’imperialismo tedesco soprattutto nel periodo della prima guerra mondiale.[13] Essi evidentemente rifiutano l’orientamento valutativo nazionalistico e imperialistico proprio di questa corrente culturale e vi contrappongono la scelta a favore del superamento, tramite il federalismo, delle radici della politica di potenza, e quindi del nazionalismo e dell’imperialismo; ma ne riconoscono nello stesso tempo la validità dei contributi scientifici, che si collocano nel filone della secolare tradizione di pensiero fondata sulla teoria della ragion di Stato, e l’indispensabilità degli stessi ai fini di una comprensione adeguata della problematica dei rapporti internazionali. Attraverso Treitschke recepiscono in sostanza l’insegnamento fondamentale della teoria della ragion di Stato, il quale imputa la politica di potenza e le tendenze bellicose emergenti nei rapporti fra gli Stati in ultima analisi all’anarchia internazionale, cioè alla pura e semplice divisione dell’umanità in Stati sovrani, in conseguenza della quale ogni Stato, indipendentemente dal regime politico e dal sistema produttivo, deve piegarsi alla legge della forza per tutelare la propria autonomia.[14] E riconoscono perciò che, in mancanza di una reale limitazione della sovranità, rimane incondizionatamente valida l’affermazione dello storico tedesco secondo cui “La guerra non sarà mai bandita dal mondo per virtù di corti arbitrali tra le nazioni. Nelle grandi questioni vitali di una nazione, l’imparzialità degli altri membri della Società degli Stati è semplicemente impossibile. Non possono questi ultimi non essere un partito, appunto perché costituiscono una comunità vivente. Se fosse fattibile la pazzia che la Germania rimettesse ad un arbitrato la questione dell’Alsazia-Lorena, quale potenza europea potrebbe essere imparziale? Non esiste neppure per sogno. Donde il noto fenomeno che i Congressi internazionali sono ben capaci di formulare i risultati di una guerra, di ordinarli giuridicamente, ma che non valgono a stornare la minaccia di una guerra”. E ugualmente valida rimane l’altra nota osservazione che i trattati internazionali stretti fra due Stati rimangono in piedi solo “fino a quando le condizioni dei due Stati non mutano interamente”.[15]

Nell’atteggiamento di Agnelli e Cabiati di fronte alle tesi di Treitschke c’è in fondo una conferma significativa del fatto che il pensiero federalista teoricamente più consistente, e quindi capace di superare i limiti del pacifismo utopistico, trae uno dei suoi fondamentali punti di forza da un confronto critico e creativo con la dottrina della ragion di Stato. E vi è altresì la conferma che senza il punto di vista valutativo favorevole al superamento definitivo dei rapporti di potenza fra gli Stati non è possibile superare il limite di fondo del puro pensiero politico realistico, il quale, come mostra chiaramente l’esempio di Treitschke, studiando la realtà internazionale dall’angolo visuale dell’interesse di potenza del singolo Stato, è portato a vedere nell’anarchia internazionale non una situazione storicamente determinata e quindi storicamente superabile da parte della volontà umana, bensì un dato naturale e immodificabile.[16]

Pure fondato sull’utilizzazione critica della teoria della ragion di Stato è l’ulteriore e decisivo argomento su cui i due autori basano la previsione del fallimento della SdN “Cosa è — si domandano — in ultima analisi questo concetto di una lega di nazioni, che mantenga ad ognuna di essa la piena sovranità? Non è altro, se noi ben vi riflettiamo, che il concetto allargato della ‘bilancia delle Potenze’; cioè un organismo che cerca di creare un equilibrio stabile nella politica europea. Ma ciò che appunto ha dimostrato la storia, è la vanità di questo concetto ed i pericoli che porta con sé. È impossibile bilanciare delle forze vive. Le nazioni, gli Stati non sono masse inerti che possano essere disposte in bilico in un sistema; ma bensì organismi viventi, che si espandono l’uno con energia diversa dall’altro, secondo leggi naturali a noi ignote. Convenzioni umane non possono arrestare lo sviluppo naturale e se lo tentano, non fanno che aggiungere una causa di più a quelle già preesistenti di conflitto. Fino a quando gli interessi della Germania non vengano fusi con quelli della Francia, dell’Inghilterra, ecc., ad ogni passo dello sviluppo storico il patto internazionale che lega le nazioni fra di loro si trasformerà in un letto di Procuste, contro le torture del quale le nazioni saranno naturalmente spinte a reagire, o modificando regolarmente e periodicamente il patto internazionale, o spezzandolo. La lega delle nazioni diventa in tali condizioni la fucina di un’atmosfera di sospetti e di insidie, da cui una nuova guerra europea potrebbe venire affrettata, anziché eliminata. Non vi è nulla di meglio di patti non mantenuti, per creare nuove e più minacciose fonti di dissidio”.[17]

In sostanza, poiché l’evoluzione economica e demografica era diventata, in piena rivoluzione industriale, sempre più rapida, era ormai impossibile pensare di poter assicurare un minimo di ordine internazionale con il vecchio sistema europeo di equilibrio fra le potenze, capace, entro certi limiti, di funzionare solo in una situazione nettamente più statica. Si doveva invece avere il coraggio di superare alla radice, con la federazione, il sistema degli Stati sovrani in Europa, che era la fonte principale di disordine e di guerra in Europa e nel mondo intero; mentre il cercare di aggirare le difficoltà oggettive connesse al superamento di tale sistema, semplicemente nascondendo la vecchia realtà dietro un paravento ideologico e giuridico, non poteva far altro che aggrovigliare i problemi e porre le premesse della squalifica morale della nuova organizzazione internazionale di fronte all’opinione pubblica delle potenze insoddisfatte. Sarebbe stato meglio, sembrano chiaramente suggerire i due autori, lasciare in primo piano senza finzioni ipocrite e senza inutili impacci giuridici il sistema dell’equilibrio.

Per meglio cogliere il rilievo teorico di queste considerazioni, si può, tra l’altro, notare come esse convergano in parte con la famosa teoria dello sviluppo diseguale, la quale fornisce la base dell’argomentazione con cui Lenin, negli anni della prima guerra mondiale, giustificò il rifiuto della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa.[18] In regime capitalistico tale obiettivo era praticamente irraggiungibile, a suo avviso, precisamente perché l’inevitabilmente diseguale sviluppo delle economie capitalistiche dei diversi Stati avrebbe periodicamente modificato i preesistenti equilibri di forza economici, politici e militari e spinto quindi gli stati non più soddisfatti dall’esistente distribuzione delle risorse mondiali a spezzare con la forza i trattati di collaborazione internazionale. Donde appunto l’inutilità di stabilire come uno degli obiettivi della lotta socialista, finché non fosse stato abolito il capitalismo, l’unificazione europea. Il fatto è, a ben vedere, che Lenin, parlando di Stati Uniti d’Europa, aveva in realtà presente un qualche modello confederale tipo la SdN, e cioè un’organizzazione internazionale che lo sviluppo diseguale tende fatalmente a spezzare per la semplice ragione che i suoi componenti sono Stati sovrani e armati, e quindi il rafforzamento economico e/o demografico di taluno di essi in confronto agli altri si traduce automaticamente in aumento della loro potenza militare, e di conseguenza in rottura dell’equilibrio strategico. Radicalmente diversa è per contro, come mettono in luce Agnelli e Cabiati, la situazione di una vera federazione, in quanto in essa i fenomeni di sviluppo diseguale (in una certa misura inevitabili con qualsiasi sistema produttivo), verificandosi nei rapporti fra Stati disarmati, comportano certo divergenze anche gravi, ma non fanno nascere problemi di natura strategica.

Analoga lucidità dimostrano i due autori quando, al di là del problema dell’inadeguatezza della SdN a garantire la pace, si soffermano a chiarire il contenuto oggettivamente conservatore e reazionario sul piano dei rapporti sociali, che tale struttura avrà fatalmente, proprio in quanto forma di confederazione di Stati sovrani. Delle loro considerazioni in proposito una merita di essere particolarmente sottolineata, in quanto anticipa, in nuce, uno dei temi centrali della successiva critica federalista alle strutture integrative di carattere confederalistico-funzionalistico. Concretamente, essi vedono nella SdN una riedizione della Santa Alleanza e fondano tale giudizio sulla seguente analisi di J. Dover Wilson: “E’ certo che il capitale europeo dirà la sua parola al tavolo delle trattative ed eserciterà una considerevole influenza nel nuovo Concerto Europeo, quale potrà venire costituito. Ora supponiamo — ipotesi non impossibile — che un accordo di capitalisti ottenesse il completo controllo di qualche paese politicamente arretrato, come la Russia, e supponiamo ancora che scoppiasse una grave crisi nel campo del lavoro in Inghilterra o in Francia; non potrebbe allora verificarsi un accordo nella conferenza internazionale al fine di trasferire truppe russe in occidente ‘per preservare i sacri diritti della proprietà e della tranquillità in Europa?’. Questa supposizione potrà sembrare fantastica: eppure fu precisamente in questa guisa e su identiche basi che la Santa Alleanza intervenne negli affari interni dei paesi europei durante la seconda e la terza decade del secolo scorso, e ancora non più tardi del 1849 si vede la Russia, rimasta fedele ai principi di trent’anni prima, accorrere in aiuto dell’Austria per la soppressione della libertà in Ungheria”.[19] Una tale situazione, in cui le oligarchie finanziarie possono utilizzare la forza schiacciante, di cui dispongono gli interessi conservatori di taluni paesi arretrati socialmente e politicamente, per rovesciare gli equilibri politico-sociali più favorevoli agli interessi progressisti esistenti in altri paesi, può essere secondo Agnelli e Cabiati eliminata precisamente se, “in luogo di una Lega di nazioni, si abbia lo Stato federato, al cui Congresso tutti i gruppi sociali abbiano proporzionale rappresentanza e dove l’esercito sia unico, composto dalla fusione degli elementi di tutte le nazioni e assiso su una base democratica”.[20]

Al di là del caso-limite ipotizzato, quello che è importante è il concetto informatore di questa critica, vale a dire la messa in evidenza che un’organizzazione internazionale, implicante il trasferimento di importanti competenze statali ad organismi interstatali sottratti ad un effettivo controllo democratico da parte della popolazione complessiva degli Stati membri dell’organizzazione stessa, non può che favorire le forze economico-sociali che dall’indebolimento dei controlli democratici sull’azione dello Stato hanno tutto da guadagnare. Si tratta di un concetto la cui validità è generalizzabile, nel suo nucleo centrale, alle strutture integrative di carattere confederalistico-funzionalistico, implicanti precisamente l’assenza di adeguati controlli democratici degli organi interstatali. E, in questo senso, si può dire che Agnelli e Cabiati precorrono la critica federalista di questo dopoguerra all’integrazione funzionalistica.[21]

L’acutezza della loro analisi, così come di quella di Einaudi, occorre dire venendo alla conclusione, non ebbe purtroppo alcun esito pratico negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Il loro discorso non fu raccolto non solo dagli ambienti nazionalisti conservatori, il che era ovvio, ma pure dalle forze politicamente più avanzate. Basterà, a quest’ultimo proposito, ricordare due esempi significativi: Gobetti e Gramsci.

Il primo, pur con alcune riserve e senza troppo illudersi sulla possibilità di una duratura pace universale, approvò nella sostanza il progetto wilsoniano della SdN, e rifiutò esplicitamente la proposta federale di Agnelli e di Cabiati, partendo dalla concezione mazziniana delle nazioni affratellate, ma sovrane e armate: “Una confederazione di Stati quale propongono l’Agnelli e il Cabiati nel loro recente volume non è possibile perché ci sono, oltre alle forze economiche ed industriali, delle altre forze più grandi, perché comprendono anche queste, e sono le forze ideali dei popoli, che non rinunceranno mai alla loro storia o almeno non vi rinunceranno ora e non andranno a cercare il nirvana in un’artificiale unità che effettivamente sarebbe varietà confusa e contrastante. Come si potrebbe giungere ad una unità di lingue? Come ad unità di legislazione, e di governo? O si tratterebbe di un’unità solo relativa, cioè la Federazione si risolverebbe nella Società (Gobetti si riferisce qui alla SdN), oppure si avrebbe una artificiale unità contraria alla storia e alle tendenze umane”.[22]

Quanto a Gramsci, un suo articolo del 1919[23] polemico contro Agnelli, riferentesi principalmente alla costituzione di un corpo di polizia interna alla FIAT, indica come egli considerasse il fondatore della FIAT un convinto assertore del progetto wilsoniano della S.d.N. Dal che emerge in modo estremamente netto come la problematica federalista fosse del tutto assente dall’ottica del futuro fondatore del Partito Comunista d’Italia.

Il discorso avviato da Einaudi e da Agnelli e Cabiati non entrò dunque allora nel dibattito politico, e fu necessario giungere, dopo l’esperienza fascista, alla Resistenza perché le loro anticipazioni trovassero in Italia un terreno fertile di sviluppo.[24] 


* Si tratta di una relazione tenuta al convegno Europeismo e antifascismo tra le due guerre organizzato dall’Università del Salento e dalla Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati” di Firenze il 26-27 novembre 2021. 

[1] Rinvio in proposito a: C. Malandrino (a cura di), Alle origini dell’Europeismo in Piemonte, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1993 e S. Pistone e C. Malandrino (a cura di), Europeismo e federalismo in Piemonte tra le due guerre mondiali; la Resistenza e i Trattati di Roma, Firenze, Leo Olshki, 1999.

[2] Per l’inquadramento degli scritti di Einaudi e di Agnelli e Cabiati, a cui si fa qui riferimento, nella storia dell’idea dell’unità europea cfr. in particolare: Carl H. Pegg, Der Gedanke der europäischen Einigung während des Ersten Weltkrieges und zu Beginn der zwanziger Jahre, Europa-Archiv, 17 (1962), pp. 749-758, e W. Lipgens, Europäische Einigungsidee 1923-1930 und Briands Europaplan im Urteil der deutsche Akten, Historische Zeitschrift, 103 (1966), pp. 46-89 e 316-363 (cfr. in particolare le pp. 46-63). Cfr. inoltre, limitatamente ad Einaudi, M. Albertini, Federalismo e Stato Federale. Antologia e definizione, Milano, Giuffrè, 1963, pp. 105-110. 

[3] Si tratta degli articoli intitolati La Società delle Nazioni è un ideale possibile? (5 gennaio 1918) e Il dogma della sovranità e l’dea della Società delle Nazioni (28 dicembre 1918), entrambi ripubblicati in Junius, Lettere politiche, Bari, Il Pensiero, 1920, e successivamente in L. Einaudi, La guerra e l’unità europea, Milano, Edizioni di Comunità, 19481, 19502, al quale si riferiscono le citazioni.

[4] Cfr. G. Agnelli e A. Cabiati, Federazione Europea o Lega delle Nazioni?, Torino, Treves Editore, 1918. Il libro fu pubblicato in francese l’anno successivo a Parigi col titolo Fédération européenne. Il testo italiano è stato ripubblicato in ristampa anastatica nel 1979 da E.T.L., Torino, con una prefazione di Giovanni Agnelli (nipote del fondatore della FIAT) e un’introduzione di S. Pistone.

[5] Cfr. L. Einudi, La Società delle Nazioni è un ideale possibile?, op. cit., p. 12.

[6] Ibid., pp. 16-17.

[7] Ibid., p. 21. Einaudi precisò meglio il suo pensiero in proposito nella recensione del libro sopraricordato di Agnelli e Cabiati (pubblicata in La Riforma Sociale, 29 (1918), pp. 661-662, ripubblicata in L. Einaudi, Gli ideali di un economista, Firenze, L Voce, 1921).

[8] Cfr. L. Einaudi, La Società delle Nazioni è un ideale possibile?, op. cit., p. 22.

[9] Cfr. L. Einaudi, La guerra e l’unità europea, op. cit., che comprende i suoi scritti federalisti più importanti dal 1918 fino al 1948. Occorre tener presente che, se il discorso sulla necessità di creare grandi spazi statali in conseguenza della crescente interdipendenza economica su scala continentale e mondiale aveva cominciato già dalla fine dell’800 ad essere un tema sempre più ricorrente nel dibattito politico-culturale (cfr. in proposito soprattutto C.H. Pegg, op. cit., anche per quanto concerne la bibliografia sull’argomento), la novità delle tesi einaudiane sta nel fatto che esse inquadrano in termini rigorosi tale discorso nella prospettiva del federalismo europeo. Sullo stesso tema sono da segnalare in quello stesso periodo gli importanti contributi di Agnelli e Cabiati, op. cit., e di A. Demangeon, Le déclin de l’Europe, Paris, Wentworth, 1920, sul quale cfr. pure C.H. Pegg, op. cit., pp. 754-55.

[10] Per l’inquadramento del contesto politico in cui è nato questo libro ed il chiarimento dell’influenza di Einaudi e di Frassati (allora direttore de La Stampa) sull’emergere dell’orientamento federalista del fondatore della FIAT, cfr. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, Einaudi, 1977, pp. 132-135, 159-162, 725 (da tener presenti anche l’articolo di Frassati su La Stampa del 29 ott. 1918, intitolato L’assemblea degli azionisti FIAT. L’opera della società durante la guerra, e il libro di AA VV, I cinquant’anni della FIAT, Milano, Mondadori, 1950, p. 128). Tra le fonti culturali di questo libro ha grande rilievo la letteratura inglese contemporanea, e in particolare quella favorevole alla trasformazione dell’impero inglese in una vera e propria federazione sul modello nordamericano. Tra gli altri, vien fatto riferimento dagli autori a J.R. Seeley (di cui però viene citato solo Introduction to political science, e non l’assai più importante The expansion of England, 1883, trad. ital. L’espansione dell’Inghilterra, con introduzione di G. Falco, Bari, Laterza, 1928, e L. Curtis (a cura di), The Commonwealth of the nations, London, Franklin Classics Trade Press, 1916.

[11] Cfr. G. Agnelli e A. Cabiati, op. cit., p. 88.

[12] Ibid., p. 81.

[13] Cfr., per un inquadramento generale della dottrina tedesca dello Stato-potenza, F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, München, R. Oldenbourg,1924, trad. ital., L’Idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze, Vallecchi, 1970. Si veda anche S. Pistone, Friedrich Meinecke e la crisi dello Stato nazionale tedesco, Torino, Giappichelli, 1969. 

[14] Utilizzando il punto di vista della ragion di Stato, essi non solo capiscono che la politica di potenza deriva in ultima analisi dalla situazione anarchica dei rapporti internazionali più che dalla natura delle strutture interne agli Stati, ma si rendono anche conto che il dominio delle caste militari e delle tendenze militaristiche (le quali certo favoriscono la propensione ad una politica di potenza esasperata) negli Stati continentali europei, soprattutto in Germania, è anche una conseguenza dell’anarchia internazionale che favorisce oggettivamente il militarismo e indebolisce le forze democratiche e progressiste. Per questo criticano come semplicistica la tesi del presidente Wilson (che è una delle basi concettuali del suo progetto di SdN), secondo cui le tendenze bellicose e imperialistiche sono essenzialmente il frutto della natura autoritaria e antidemocratica delle strutture interne di certi Stati. Cfr. Agnelli e Cabiati, op. cit., pp. 51-52, 78-80, 93-99. Per un confronto fra le teorie dei rapporti internazionali fondate sulla tesi del “primato della politica interna” e la teoria della ragion di Stato, fondata sul concetto di anarchia internazionale, cfr. S. Pistone (a cura di), Politica di potenza e imperialismo. L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di stato, Milano, Franco Angeli, 1973, in particolare l’introduzione.

[15] I due passi di Treitschke riportati da Agnelli e Cabiati alle pp. 88-89 sono tratti da La politica.

[16] Cfr. Agnelli e Cabiati, op. cit., pp. 84-89, i quali citano alcuni esempi significativi (riguardanti Treitschke ed altri meno noti teorici tedeschi dello Stato-potenza) della tendenza a considerare l’anarchia internazionale un dato naturale. In generale, sul problema dell’inserimento degli schemi concettuali tratti dalla dottrina della ragion di Stato nella teoria federalista, cfr. M. Albertini, op. cit., pp. 105-110.

[17] Cfr. Agnelli e Cabiati, op. cit., pp. 81-82.

[18] Cfr., di Lenin, l’articolo Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (pubblicato nel n. 44 del Sotsial-Demokrat il 5 settembre 1915 (23 agosto 1915) e L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, Roma, Edizioni Rinascita, 1948, in particolare i capp. VII, VIII, IV.

[19] Cfr. Agnelli e Cabiati, op. cit., p. 71.

[20] Ibid., p. 72.

[21] Una illustrazione assai penetrante degli aspetti fondamentali di questa critica si trova in L. Levi, L’integrazione europea, Torino, Cooperativa libraria universitaria torinese, 1974.

[22] Cfr. P. Gobetti, La società delle nazioni, Energie nuove, serie I, n. 5, 1-15 gennaio 1919, pp. 65-67, ripubblicato in P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1969, pp. 36-42. Va sottolineato che Gobetti rifiuta, sia pure senza esaminarla a fondo, la critica della dottrina dello Stato nazionale che Agnelli e Cabiati pongono alla base della loro proposta federalista, e che fondano sull’analisi di Lord Acton (cfr. Nationality, 1862, raccolto in The History of freedom and other essays, London, McMillan, 1922, pp.270-300). Circa l’incapacità da parte di Gobetti di superare il punto di vista nazionale cfr. le puntuali annotazioni di Cofrancesco nella nota inserita in G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, nuova edizione a cura di M. Schiavone e D. Cofrancesco, Milano, Marzorati, 1972, pp. XXIV-XXXI.

[23] Cfr. A. Gramsci, Un soviet locale, Avanti, edizione torinese, 5 febbraio 1919, pubblicato in 2000 Pagine di Gramsci, I. Nel tempo della lotta (1914-1926), Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 357-359.

[24] Cfr. L’idea d’Europa nel movimento di Liberazione 1940-1945, a cura di Gaetano Arfé, Roma, Bonacci Editore, 1986.

  

 

 

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