IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LVI, 2014, Numero 1-2, Pagina 193

 

 

PER UNA COMUNITA‘ POLITICA DELL’EURO

 

 

Preambolo.

Tutti si aspettavano che l’Unione economica e monetaria portasse prosperità e migliorasse le condizioni di vita e di occupazione degli europei, come preludio di un loro riavvicinamento politico.

Gli errori commessi nella sua costruzione e gestione hanno tuttavia prodotto il risultato opposto. Gli europei vacillano. Noi siamo però convinti che non si debba abbassare la guardia. Gli obiettivi iniziali della costruzione europea – assicurare la pace e il benessere – sono quanto mai attuali e voltare le spalle all’Europa oggi sarebbe anacronistico, domani diventerebbe un suicidio.

Senza creare aspettative impossibili da soddisfare, cosa che troppo spesso ha portato a delusioni, occorre dar vita a una nuova fase. L’Europa deve offrire soluzioni a problemi concreti, come l’aumento delle disuguaglianze e della disoccupazione, pur nel rispetto della tutela del nostro pianeta. Deve, meglio di come fa attualmente, assicurare il rispetto dei valori che proclama e che, al di là del mercato e delle procedure, sono suscettibili di unire gli europei. Deve tornare a suscitare entusiamo.

E’ per questo che proponiamo una scelta strategica: costruire una Comunità politica, democratica, a partire dall’euro, ricordando che l’unione monetaria non era concepita come fine a sé stessa, ma avrebbe dovuto costituire la base di un più vasto progetto, destinato ad unire gli uomini.

Il nostro gruppo è pluralista perché l’urgenza, così come la violenza degli attacchi contro l’Europa, spingono gli europei di tutte le tendenze a raggrupparsi, nel rispetto delle loro sensibilità.

Vogliamo suscitare in Francia una presa di coscienza, ma anche lanciare un appello che vada ben oltre. Convinti che francesi e tedeschi abbiano tuttora una responsabilità particolare, condividiamo gli aspetti essenziali della diagnosi e della proposte del gruppo tedesco Glienicker.

Agnès Bénassy-Quéré – Yves Bertoncini – Jean-Louis Bianco – Laurence Boone – Bertrand Dumont – Sylvie Goulard – André Loesekrug-Pietri – Rostane Mehdi – Etienne Pflimlin – Denis Simonneau – Carole Ulmer – Shahin Vallee[1]

 

PER UNA COMUNITA‘ POLITICA DELL’EURO

 

Dove vuole andare la Francia, in Europa e nel mondo? Qual è l’avvenire dell’euro e dell’Unione europea, entro un orizzonte di dieci o vent’anni? Sono domande legittime spesso lasciate senza risposta.

La maggior parte dei governi e dei partiti politici si sono attenuti finora ad un approccio gestionale, “al pelo dell’acqua”. I partiti radicali auspicano il ripiegamento nazionale e l’uscita dall’euro come se si trattasse di un rimedio miracoloso. Occorre invece elaborare un’altra risposta, adatta al mondo del 2014, traendo insegnamenti dalla crisi e dagli errori collettivi compiuti, per lanciare una nuova dinamica.

 

Analisi

Esistere in un mondo che cambia.

Assicurarsi che l’Europa faccia sentire la sua voce non è una questione di prestigio o un’ubbia idealista. E’ il modo di far vivere, in futuro, le scelte sociali care agli europei, come l’eguaglianza tra uomo e donna, l’accesso all’educazione e alla sicurezza sociale per tutti, la conservazione dell’ambiente.

Quando si guarda il nostro continente da Pechino o da Ryad, o anche da Washington, ciò che unisce gli europei è infinitamente superiore a quello che li separa. Al di là degli interessi comuni, più o meno convergenti a seconda del momento, condividiamo un patrimonio di una ricchezza eccezionale. Quanto ai valori comuni – come la pace, i diritti della persona umana, la democrazia – nati dalla storia e dai drammi del ventesimo secolo, la loro fragilità dovrebbe incitarci ad averne ancora maggiore cura. Le decisioni della Corte europea dei diritti umani dimostrano che c’è ancora molto da fare, anche in Europa, per garantire il pluralismo, rendere più decenti le prigioni o frenare la deriva autoritaria di certi Stati membri.

L’ordine del mondo, come l’abbiamo conosciuto da secoli, sta finendo. Tra venti o trent’anni, nessun paese europeo farà più parte del G8, che riunisce le prime potenze economiche della Terra. La Francia o la Germania rappresenteranno meno dell’1% della popolazione mondiale. Alle esequie di Mandela, nessun dirigente di un paese europeo è stato invitato a prendere la parola. Uniti, al contrario, abbiamo i mezzi per contare: con 350 milioni di abitanti, la zona euro possiede una dimensione paragonabile agli Stati Uniti e il suo PIL rimane superiore a quello della Cina, nonostante la spettacolare crescita di quel paese. La potenza commerciale europea è, a tutt’oggi, ineguagliata. L’Europa ha un potenziale industriale, agricolo e di servizi che deve essere valorizzato.

Tuttavia, l’unità richiede maggiori sforzi. La “politica estera e di sicurezza comune” dell’Unione europea resta ben al di sotto delle attese. Nemmeno nel Fondo monetario internazionale, chiamato in soccorso di vari paesi europei, la zona euro è rappresentata come un’entità unica. Di fronte alla Cina, agli altri paesi emergenti o agli Stati Uniti, le capitali europee sono miopi quando giocano ancora da sole.

 

Uscire definitivamente dalla crisi economica e finanziaria.

L’attuale calma dei mercati finanziari non deve illuderci. In molti paesi, le politiche adottate hanno certamente portato frutti benefici; l’interdipendenza tra gli Stati che condividono la stessa moneta viene ormai meglio percepita. E sono stati fatti notevoli sforzi di rigore e di riforme, spesso però mal calibrati e mal ripartiti, in particolare nel caso della Grecia. La politica di bilancio in generale è stata troppo restrittiva ed è stata differenziata in modo insufficiente. Il sovraindebitamento pubblico e privato rischia di soffocare l’economia, mentre le sofferenze delle popolazioni nutrono la radicalizzazione politica. Questa constatazione non deve spingere ad abbandonare gli sforzi di risanamento, ma a completarli nell’interesse stesso dei paesi che presentano un debito troppo elevato.

Un grave rischio, oggi, è che una deflazione come quella giapponese porti alla stagnazione e al sacrificio di un’intera generazione. Molto attiva all’inizio della crisi (2007-2010), la Banca centrale ha ancor oggi i mezzi per agire per scongiurare questo rischio, ma deve superare molti timori contradittori, legati alle differenze di cultura monetaria e all’eterogeneità degli Stati membri.

L’Europa deve integrarsi meglio nella crescita mondiale e, a tal fine, ritrovare dinamismo creativo, scientifico, imprenditoriale. La crisi non è solo un “brutto passaggio” congiunturale. Sono i nostri modi di produzione (in particolare industriale) e di organizzazione ad essere rimessi in causa dalle nuove tecnologie, dall’interdipendenza globale e dall’invecchiamento della popolazione europea.

Ciascuno Stato europeo, e particolarmente la Francia, deve affrontare i propri problemi, ma anche l’Europa deve agire più vigorosamente. Cominciano ad essere attuate soluzioni comuni per sorvegliare e risanare il sistema bancario, senza ricorrere al denaro dei contribuenti. Ma bisognerà che siano serie, affinché le banche possano tornare a finanziare le imprese e le famiglie, a tassi ragionevoli, in tutta l’UE.

 

Superare il blocco della democrazia.

L’ampiezza delle difficoltà dà ormai alla crisi una dimensione politica. Sebbene nessuna elezione abbia portato al rifiuto dell’euro, gli Stati che hanno chiesto assistenza, come la Grecia, il Portogallo o l’Irlanda, sentono il giogo di un’autorità mal identificata, composta dai capi di Stato e di governo europei, dai ministri delle finanze (Eurogruppo), dalla Banca centrale e dalla Commissione europea, nonché dal Fondo monetario internazionale. Le responsabilità sono diluite in un magma politico-tecnocratico, privo di legittimità, il cui simbolo diventa la “troika”. Il destino di certi paesi è rimasto appeso al voto del Bundestag e alle decisioni della Corte costituzionale di Karlsruhe. La percezione generale è tale che il Primo ministro italiano Mario Monti ha potuto parlare, nel 2012, del pericolo di una “creditocrazia”, forzando la realtà, dal momento che l’Italia non ha ricevuto alcuna assistenza e contribuisce anch’essa a finanziare gli aiuti.

Tutti gli Stati membri hanno dovuto accettare un rafforzamento della reciproca sorveglianza, indispensabile per ripristinare la credibilità collettiva. Il grado di intrusione raggiunto, soprattutto nei paesi sotto tutela, alimenta però un risentimento pericoloso tra il “Nord” (essenzialmente la Germania) e il “Sud”. L’euro diventa fonte di divisioni.

Una parte dell’opinione pubblica è disorientata: alcuni fanno credere che l’austerità sia imposta ai paesi del Sud “dall’Europa”, mentre essi stessi hanno gravemente messo in pericolo il proprio avvenire creando troppo debito pubblico (per esempio in Grecia) o privato (in Spagna e in Irlanda). I paesi “virtuosi” dimenticano di aver fornito ai paesi “spendaccioni” buona parte dei beni che questi ultimi hanno acquistato a credito e perfino i capitali per indebitarsi. La responsabilità dell’attuale situazione ricade quindi sia sul Nord, sia sul Sud, sia sui governi nazionali, sia sulle istituzioni europee. Quanto ai mercati, che dovrebbero mettere ciascuno davanti alle proprie responsabilità, sono rimasti ciechi per lungo tempo.

Di qui la tentazione di “buttare tutto a mare”, abbandonando l’euro. Quest’ipotesi è solo un’illusione. A causa delle conseguenze a catena che essa produrrebbe, nessuno è in grado di calcolare con precisone il suo costo, ma esso sarebbe terribilmente alto. La svalutazione aumenterebbe matematicamente il costo del debito denominato in euro, spesso detenuto da stranieri; porterebbe gli Stati alla bancarotta e a fallimenti nel settore finanziario. Le imprese ritroverebbero i rischi di cambio nelle esportazioni, con conseguenze negative sulla crescita e sull’occupazione. Le famiglie perderebbero parte dei loro risparmi e gli europei la loro credibilità.

Un’analisi ponderata invita al contrario a proseguire e ad accelerare la ricostruzione dell’unione economica e monetaria. Non è sufficiente il semplice rafforzamento delle regole accompagnato da una sorveglianza reciproca. Il confronto della gestione della crisi da parte degli europei e degli americani dimostra chiaramente i vantaggi di un’organizzazione politica più legittima e, perciò, più reattiva ed efficace.

 

Una particolare responsabilità della Francia.

Una linea di frattura rischia di separare il Nord dal Sud dell’Europa. Poiché appartiene ad entrambe le categorie e insieme alla Germania ha voluto l’euro, la Francia ha un ruolo particolare da giocare. Essa può svolgere un’azione decisiva a tre condizioni.

La prima è che abbandoni alcune delle illusioni nelle quali si è a lungo cullata; grazie a Jean Monnet e a Robert Schuman, la Francia è stata all’origine della Comunità del carbone e dell’acciaio, ma ha anche inferto alla costruzione europea i colpi più brutali: dal 1954, con la bocciatura della Comunità europea di difesa, al 2005, con il rifiuto del trattato costituzionale. Da decenni, sull’Europa la Francia esita. Quando, a due riprese, personalità tedesche[2] hanno proposto un’unione politica più spinta, attorno ad un nucleo duro, prima della messa in cantiere della moneta unica, la Francia, nella persona di uomini politici appartenenti a tutti gli schieramenti, hadisdegnato tali offerte senza nemmeno discuterle.

La seconda condizione è che la Francia affronti finalmente la questione del suo ruolo in un mondo aperto, competitivo e fortemente integrato. I francesi hanno sognato “l’Europa potenza”, ma essa non sarà mai una “leva di potere” al loro esclusivo servizio. Se la Repubblica francese si assume, più di altri partner europei, le proprie responsabilità in materia di sicurezza e di difesa, come ha dimostrato anche recentemente in Africa, i suoi risultati economici negli ultimi dieci anni minano la sua credibilità. Lo status di membro permanente del Consiglio si sicurezza, la force de frappe nucleare sembrano garantire un’autonomia che potrebbe rivelarsi illusoria se i nostri mezzi si riducono.

Le poste in gioco europee sono troppo spesso ridotte a slogan che, come “l’Europa sociale” o “l’Europa che protegge”, hanno tendenza a rinchiudere i francesi nelle loro angosce. I nostri partner europei riescono a combinare meglio un approccio aperto sul mondo e il legittimo desiderio di difendere il loro modello sociale. La miglior protezione sta nella qualità dell’educazione e della formazione, nonché nella creatività delle imprese.

Infine, la Francia deve ritornare ad essere una forza propositiva positiva. Da parecchi anni è sulla difensiva, piena di non detti e di tabù. Con l’euro, la Francia ha già fin d’ora accettato di condividere la sua sovranità; l'idea che “l’Europa delle nazioni” possa ancora, nel 2014, offrire un prospettiva utile non contribuisce a progredire. Non c’è ragione di temere una discussione sulle migliori forme di organizzazione politica, né di rifiutare a priori ogni forma di federalismo, anche se la Francia non l’ha finora sperimentato.

Queste paure, queste incomprensioni nutrono largamente il senso di malessere che si percepisce oggi all’interno dell’esagono. Eppure, con un lavoro metodico, si può riconquistare influenza. La battaglia condotta dall’attuale governo francese sulla direttiva sui lavoratori distaccati è un esempio recente, positivo, di quanto un governo che ha ben definito la propria posizione e la difende possa ottenere nell’UE di oggi. Lo scarso interesse per il Parlamento europeo nella maggior parte delle famiglie politiche francesi è un desolante esempio contrario.

Così l’Europa è “a metà del guado”. Le insufficienze dell’Unione europea e le sue intrusioni negli Stati che si credono ancora perfettamente sovrani generano crescenti frustrazioni. Noi suggeriamo di uscire da questa impasse seguendo un cammino chiaro.

 

La nostra proposta

Ritrovare un’ambizione politica.

Proponiamo una Comunità politica dell’euro, aperta agli altri paesi europei e al mondo, non perché l’euro sia un valore in sé, ma, al contrario, perché è l’espressione di un destino comune. Gli sforzi cui abbiamo acconsentito in nome della moneta durante la crisi non hanno senso se non vengono reinquadrati in una visione politica positiva, rivolta all’avvenire, all’altezza della nostra condivisa identità europea.

Il suo primo compito dovrà essere di consolidare la moneta unica, perché questa è la condizione del ritorno della prosperità e dell’occupazione. L’esigenza di “competitività” sembra troppo spesso significare diminuzione dei salari e delle prestazioni sociali o un loro livellamento verso il basso. Un simile approccio non può costituire un futuro desiderabile, da qui l’idea di una Comunità dell’euro dotata di poteri che le consentano di andare al di là di quanto fa l’attuale zona euro.

Senza rimettere in discussione il reciproco impegno di sana gestione delle finanze pubbliche, né gli sforzi di riforma compiuti durante la crisi, la Comunità si doterà di nuovi strumenti destinati ad attenuare i rischi della congiuntura e a sostenere le popolazioni più fragili. Questo potrebbe avvenire attraverso l’erogazione da parte del livello europeo di sussidi di disoccupazione oppure attraverso politiche di incoraggiamento della mobilità, accompagnate da una parziale armonizzazione del mercato del lavoro. La solidarietà non è concepibile senza una maggior responsabilità, ma è necessario uno sforzo collettivo se vogliamo stabilizzare e rendere duratura, agli occhi dei cittadini, l’unione economica e monetaria.

Dovranno essere messe al centro degli obiettivi della Comunità dell’euro la lotta alle diseguaglianze e all’esclusione, la valorizzazione del capitale umano attraverso l’educazione, la formazione, l’innovazione: troppo spesso, in questi ultimi anni, una concezione troppo restrittiva della “sussidiarietà” ha fatto passare in secondo piano l’esistenza di diritti riconosciuti a tutti i cittadini europei, ovunque vivano in Europa. Il primo tra di essi è la dignità della persona umana, insieme alla protezione dell’ambiente e alla qualità della vita.

Contemporaneamente, questa Comunità porterà avanti delle politiche di lungo periodo nei campi nei quali la sua azione può essere più efficace di quella degli Stati che la compongono. Senza pretendere di essere esaustivi, si può pensare ad investimenti nella transizione energetica e nelle grandi infrastrutture, come le reti telematiche, di trasporto, elettriche o anche nella ricerca, al servizio della produzione industriale, ma anche di un’agricoltura capace di nutrire un mondo molto popolato, nel quale le risorse saranno carenti. Il diritto e la giustizia sono valori in sé; sono anche quadri particolarmente importanti per lo sviluppo dell’attività economica e della crescita: certezza del diritto, semplicità delle regole, diligenza della giustizia al di là delle frontiere, lotta alla corruzione sono altrettanti obiettivi che la Comunità dell’euro farà propri.

La Comunità dell’euro deve parimenti avere un ruolo sulla scena mondiale perché una simile potenza commerciale ed economica non può disinteressarsi dell’avvenire del mondo. A noi, la questione di sapere se la dimensione della “zona euro” sia appropriata sembra secondaria rispetto alle nostre responsabilità. Questa Comunità avrà bisogno di esercitare una rappresentanza esterna, inizialmente economica, ma pure diplomatica e di difesa, in particolare nei confronti degli Stati Uniti e della Cina, ma anche degli Stati confinanti, per non trascurare le questioni delle libertà pubbliche, della sicurezza e dell’emigrazione. La tempistica e le modalità si possono discutere, ma non dobbiamo dimenticare che la dichiarazione di Schuman del 1950 comincia con l’obiettivo di preservare la “pace mondiale” e fa riferimento allo sviluppo dell’Africa, continente che oggi è ancor più strategico.

 

Garanzie democratiche.

La Comunità dell’euro dovrà offrire delle garanzie democratiche corrispondenti agli standard più elevati dei paesi che la compongono. I tedeschi possono essere legittimamente orgogliosi di aver costruito, a partire dal 1949, una democrazia e uno Stato di diritto esemplari. Dopo la tormentata storia del ventesimo secolo, si tratta di un progresso non solo per la Germania, ma per l’intero continente. Tuttavia le autorità tedesche devono capire che il controllo delle decisioni europee da parte delle autorità di un solo paese è difficilmente accettabile da parte degli altri. Certamente non lo accetterebbero per loro stessi. L’attuale situazione, nella quale gli organi federali tedeschi (Bundestag, Corte di Karlsruhe) tengono in mano il destino dell’euro (e di certi paesi) non va bene né per la Germania, posta in una posizione egemonica, né per i partner della Germania, ridotti ad ubbidire.

Dovrà essere insediato un esecutivo proprio alla Comunità dell’euro, distinto dagli esecutivi nazionali e ristretto[3]; tale governo sarà il risultato dell'elezione, in contemporanea e con le medesime modalità in tutti i paesi membri della Comunità dell'euro, di un'assemblea. Questo punto è fondamentale, perché non si può chiamare “governo” (economico o senza specificazioni) un’autorità designata e non “eletta” con un’elezione paneuropea, aperta, che permetta di scegliere con chiarezza tra diverse opzioni politiche.

L’assemblea avrà il compito di controllare in modo continuo l’esecutivo e, se de caso, di censurarlo. Per evitare duplicazioni e sottolineare lo spirito di apertura della Comunità nei confronti dell’UE, l’assemblea parlamentare della Comunità potrà essere composta da deputati facenti anche parte del Parlamento europeo (dell’UE a 28)[4].

Questo esecutivo avrà da una parte il compito di portare avanti le politiche affidategli, avendo a disposizione un bilancio autonomo, finanziato da risorse proprie (v. sotto). Nei campi di sua competenza, avrà poteri discrezionali, naturalmente inquadrati da regole fissate in comune e sotto il controllo dell’assemblea parlamentare e della Corte di giustizia. D’altra parte, sorveglierà il rispetto, da parte dei governi nazionali, degli impegni reciproci.

Gli Stati conserveranno responsabilità proprie per la gestione delle proprie politiche secondo una chiara definizione delle competenze che rappresenti una rottura con l'attuale “sussidiarietà” mal definita, pretesto di rinazionalizzazioni di ogni tipo.

I Parlamenti nazionali continueranno ad esercitare il controllo sui governi nazionali, conformemente alle costituzioni nazionali e le disposizioni in questo senso possono essere rinforzate in parecchi paesi, tra cui la Francia. Le condizioni di creazione e di finanziamento del Meccanismo europeo di stabilità hanno spinto ad assegnare, nell’immediato, ai Parlamenti nazionali il controllo degli impegni di bilancio ad esso assegnati. A rigor di logica, finché questi impegni risultano finanziati da fondi nazionali, il controllo da parte dei deputati nazionali è concepibile. Al contrario, nel lungo periodo, deve imporsi il principio che a decisioni europee corrisponda un controllo europeo, a decisioni nazionali, un controllo nazionale. Bisogna evitare che il controllo democratico si fondi su strutture che diluiscono le responsabilità, come fa ad esempio il “Fiscal compact”[5], che associa in modo impreciso, per non dire allusivo, parlamentari nazionali e parlamentari europei. I cittadini chiedono, giustamente, di capire chi è responsabile di che cosa.

Notiamo anche che essi chiedono nuove modalità per l'assunzione di decisioni, più interattive, più “partecipative”. Il problema non è solo di far vivere la democrazia rappresentativa, interrogandosi sulla ripartizione dei poteri tra Bruxelles e gli Stati membri, il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali. Essa dovrà esser completata con legami più stretti tra cittadini, imprese, mezzi di comunicazione, collettività, al di là delle frontiere. La Comunità dell’euro deve essere una Comunità vivente che coinvolge le società nella loro totalità.

Infine, una delle gravi lacune dell’attuale unione economica e monetaria sta nel fatto che non sono previste sanzioni per eventuali violazioni da parte degli Stati dei loro impegni. In uno Stato di diritto, è importante che sia un giudice a dirimere le questioni. Preferiremmo, dunque, anche a questo proposito, non duplicare le istituzioni ed affidare questo compito alla Corte di Giustizia dell’UE che dovrebbe organizzarsi appositamente per giudicare gli affari della Comunità dell’euro.

 

Un bilancio della Comunità.

La Comunità dell’euro dovrà essere dotata di un bilancio autonomo destinato a finanziare le politiche che abbiamo descritto nella prima parte di questo documento. La sua autonomia rispetto al bilancio dell'UE è resa necessaria dal fatto che esso è anzitutto concepito per finanziare gli interventi specificamente legati all’esistenza e al funzionamento dell’euro: ad esempio per stabilizzare l’unione economica e monetaria attraverso di un sussidio di disoccupazione comune. Inoltre, tale bilancio allocherà risorse per migliorare la formazione, accrescere la mobilità dei lavoratori o per costruire infrastrutture energetiche, industriali e di servizi a beneficio della Comunità.

Dovrà imperativamente essere alimentato da risorse proprie, al fine di evitare i dibattiti impropri e controproducenti sul “giusto ritorno”, che abbiamo sperimentato nell’UE. Tra le risorse che si possono prendere in considerazione, si possono citare un’imposta sulle società o tasse ambientali (carbon tax). La creazione del bilancio della Comunità sarà l’occasione per procedere ad una certa armonizzazione fiscale (armonizzazione della base imponibile e possibilità per gli Stati di stabilire i tassi, entro una forbice predefinita).

Questo bilancio potrà anche consentire economie a livello nazionale, razionalizzando le spese. Ciò è particolarmente vero per difesa. Dovrà parimenti essere posta, a medio termine, anche la questione della capacità di indebitamento collettivo, precisando che non si tratta di mutualizzare il debito esistente degli Stati, ma, se del caso, di indebitarsi insieme per finanziare progetti comuni.

Resta aperta una questione, che il nostro gruppo non pretende di risolvere definitivamente. In una Comunità dell’euro completata come descritto, la prospettiva del fallimento sovrano tornerebbe ad essere credibile, perché non destabilizzerebbe tutto l’edificio e non riguarderebbe i più vulnerabili. A termine, si potrebbe reintrodurre la possibilità di fallimento degli Stati membri, al fine di responsabilizzare i dirigenti nazionali ed i mercati. La Comunità risulterebbe allora tanto meno intrusiva quanto più chiara fosse la ripartizione delle responsabilità, facendo sì che ciascuno corra i propri rischi. Uno dei pregi del federalismo che il dibattito francese, in generale, evita di prendere in considerazione, sta in questo: rispetto al livello centrale, le entità federate sono meglio protette contro le intrusioni. Il risultato paradossale della situazione attuale è che la zona euro pratica subdolamente quello che si è chiamato “federalismo d’eccezione”, che interferisce con le decisioni nazionali senza che tale situazione sia stata completamente prevista, e ancor meno spiegata e legittimata.

 

Le relazioni Comunità/UE.

Il nostro auspicio è di far coabitare il più armoniosamente possibile la Comunità politica dell’euro e l’Unione europea a 28, la cui ragion d’essere naturalmente non viene meno. E’ nell’interesse di tutti i paesi europei che la zona euro si stabilizzi definitivamente, così come è nell’interesse di quest’ultima che il mercato unico a 28 sia consolidato e che si rafforzino le istituzioni comuni dell’UE, prime fra tutte, la Commissione europea.

Tutti gli Stati che desidereranno entrare nella Comunità politica dell’euro, accettando diritti e i doveri che ne derivano, saranno i benvenuti (anche se la questione delle differenze di reddito in futuro meriterà di essere presa molto più sul serio). Per contro, gli Stati che faranno la scelta sovrana di non condividere la moneta dovranno assumersene tutte le conseguenze, senza lamentarsi di presunte discriminazioni. E’ ora di chiarire le cose a questo proposito, rendendo alla zona euro quanto spetta alla zona euro e alla UE quanto spetta all’UE. Durante la crisi, sono stati creati dei meccanismi di sostegno finanziati dai soli paesi che ne fanno parte (Meccanismo europeo di stabilità, domani forse un fondo di risoluzione bancaria). Il loro controllo spetta ai paesi contributori, e solo a loro. Inoltre, è assolutamente legittimo che i paesi della zona euro si dotino di strumenti comuni più avanzati o di politiche comuni, dal momento che devono compensare il fatto che hanno rinunciato a certi strumenti, come la politica di cambio.

E’ probabile che tra qualche anno il panorama sia piuttosto diverso da quello che conosciamo oggi. Tra i 28 Stati membri dell’UE, solo due (Regno Unito e Danimarca) hanno una deroga riguardo alla moneta; tutti gli altri si sono impegnati ad adottare l’euro, in particolare la Polonia, che è un paese di grandi dimensioni. Infine è difficile sapere a che cosa porterà la promessa di David Cameron di organizzare un referendum sull’appartenenza del suo paese a un’Unione “rinnovata”. L’essenziale è andare avanti con uno spirito di cooperazione. Il cerchio più ampio, attorno al mercato unico, potrà, se del caso, accogliere paesi la cui adesione è problematica a causa delle loro dimensioni (Turchia, Ucraina) o del loro ritardo nello sviluppo (Moldavia, Albania).

 

Un metodo

Siamo convinti, in sintonia con il gruppo tedesco Glienicker, che una “Europa ottimale”, concepita con grande rigore intellettuale, abbia più probabilità di convincere l’opinione pubblica di una “Europa minimale”, sempre frustrante.

E’ d’altra parte quanto insegna l’esperienza. Da due decenni circa, i governi hanno scelto di presentare l’Europa come un male necessario di cui essi cercano di limitare “i danni”, e non come una “nuova frontiera” da conquistare collettivamente. Molti pro-europei hanno d’altra parte votato no nel 2005 per delusione. I cittadini, come i mercati e gli investitori, hanno soprattutto bisogno di una rotta. Ciò che ci spinge a rifiutare il termine “zona euro” e a privilegiare quello di Comunità dell’euro è che il primo non riflette affatto la portata politica del progetto. Se la rotta è chiara e accompagnata da un calendario preciso e rispettato, è già un progresso. E’ inutile bruciare le tappe.

Data l’ampiezza delle reticenze, l’impresa dovrebbe essere preparata con cura a trattati invariati fin da oggi. Nel frattempo, la priorità dovrebbe essere quella di migliorare la situazione economica e sociale che esacerba le tensioni sia all’interno dei paesi membri, sia tra di loro. Si dovrebbe anche affrontare la questione del debito ed accelerare la modernizzazione delle economie dei 28.

A termine, la nascita di una Comunità dell’euro richiede un nuovo trattato, le modalità della cui ratifica dovrebbero essere fissate in anticipo; è possibile prevedere, in base al diritto internazionale, che la ratifica possa non essere unanime (al fine di evitare che un’infima minoranza della popolazione prenda in ostaggio l’intera Comunità) e che sia impedito agli Stati che rifiutano di progredire di bloccare gli altri. In democrazia il “no” deve restare possibile, ma le conseguenze di un rifiuto devono pesare sul paese che lo esprime e non sui partner favorevoli.

Inoltre, è venuto a cessare il consenso tacito dei cittadini europei all’integrazione europea. Il passaggio alla Comunità, così come l'ingresso di nuovi membri, richiede quindi una procedura democratica solenne, che riunisca tutti gli europei coinvolti. I cittadini sono stanchi di decisioni d’adesione che modificano surrettiziamente, a loro insaputa, il perimetro della “comunità di destino”. Anche questa è una delle ragioni per cui è stato rifiutato il Trattato costituzionale nel 2005.

Se necessario, bisognerà condurre un doppio negoziato: quello di un trattato tra i paesi desiderosi di partecipare alla Comunità politica dell’euro e quello dei 28 per riformare l’UE. Andrebbero comunque evitati due scogli: l’esclusione di quanti vorrebbero avanzare lealmente e il ricatto di quanti vorrebbero impedire agli altri di avanzare, senza però accettare i vincoli dell’euro.

***

E’ possibile dare un nuovo slancio, è possibile superare una nuova tappa. E’ arrivato il momento. Ed è urgente che i cittadini di buona volontà agiscano insieme, al di là delle frontiere degli Stati e dei diversi orientamenti politici.



[1] Ciascuno dei membri si esprime a titolo personale, senza impegnare alcuna delle istituzioni a cui appartiene o ha appartenuto. Ringraziamo anche gli esperti, gli alti funzionari, i collaboratori e gli amici che hanno partecipato ai nostri scambi di idee ed hanno arricchito le nostre discussioni.

[2] Karl Lamers e Wolfgang Schäuble nel 1994 e Joska Fischer nel 2000.

[3] Una équipe i cui membri siano scelti per le loro competenze, rispettando certi equilibri geografici, senza che ciascuno Stato membro sia necessariamente rappresentato.

[4] Secondo una legge elettorale modificata, il cui modello potrebbe essere per esempio quello dell’elezione dei deputati al Bundestag tedesco, eletti in parte in circoscrizioni di piccole dimensioni e in parte su di una lista a livello della Comunità.

[5] Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance in seno all’Unione economica e monetaria sottoscritto da 25 Stati membri il 2 marzo 2012.

 

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