IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXI, 1979, Numero 1, Pagina 57

 

 

RELAZIONE E REPLICA DI ALBERTINI ALLA RIUNIONE DELLA COMMISSIONE ITALIANA
DELL’11 GIUGNO 1972
(Resoconto stenografico)
 
 
I. Relazione.
Il documento che vi è stato recentemente spedito[1] ha sollevato molte critiche e molte riserve. Tuttavia quando lo abbiamo steso non abbiamo esposto delle idee cadute dal cielo o senza alcuna relazione con quello che capitava a noi e con quello che capita nella situazione politica dell’Italia e dell’Europa: anzi, eravamo partiti da una constatazione che ci riguarda in prima persona. È un fatto che noi, tirati dalle cose più che per deliberazioni nostre o per nostre decisioni, siamo intervenuti, per la prima volta nella storia del M.F.E. italiano, in campagna elettorale. Fino a queste elezioni anticipate, i federalisti avevano qualche volta fatto una propaganda, che poi molti non prendevano in considerazione, per appoggiare, nell’arco dei partiti democratici, quei candidati che avessero promesso di occuparsi della federazione europea. Sapevamo anche quale fosse il valore, salvo casi speciali, di questa propaganda: praticamente nullo; perché un candidato in sede elettorale dice di sì a qualunque cosa e poi…
In realtà, il Movimento federalista europeo non aveva mai preso posizione in campagna elettorale, e questo specie in Italia dove la problematica della strategia federalista (che è, sin dall’epoca di Ventotene, una cosa pensata, non dico una cosa giusta, ma una cosa pensata) aveva fatto emergere addirittura l’opinione che il Movimento federalista non si deve occupare di politica interna. Vorrei ricordarvi che questo antichissimo principio che ci riguarda fin dal 1943, è sempre stato sentito come una necessità, ma anche come una lacuna, una limitazione. Chi non si occupa di politica interna, in realtà non si occupa della situazione di potere: o almeno, si occupa della situazione di potere solo a certi livelli — quelli europei in ipotesi — che possono essere anche a volte stratosferici, perché vengono staccati dal contesto della politica interna che è quello nel quale si originano i poteri. Tant’è che io vorrei ricordare che quando Garosci ha presentato la prima raccolta di scritti di Spinelli, che chi di voi abbia curiosità dovrebbe andarsi a rivedere, Garosci diceva che nella problematica di Spinelli è definito completamente l’aspetto internazionale della lotta per l’Europa, mentre non è definito l’aspetto interno, di politica interna, della lotta per l’Europa. Questa è una lacuna — concludeva Garosci — che dovrà essere colmata. Questa è un’opinione del 1947-48.
La discussione di oggi dovrebbe quindi tener presente che noi abbiamo fatto qualche cosa, intervenendo nella campagna elettorale, che rimette in questione la scelta di allora. Questo è il quadro in cui collocare questa discussione e vorrei anche ricordare che noi non siamo intervenuti in campagna elettorale a caso. Abbiamo quel manifesto che ha sollevato le preoccupazioni della sezione di Imola, quel manifesto con lo slogan «Chi vuole l’Europa unita vota antifascista». Vorrei ricordare che a questa posizione, a questo intervento in campagna elettorale del M.F.E., di fiancheggiamento in sostanza all’antifascismo, non siamo giunti con una decisione casuale o perché un piccolo gruppo di persone va a sinistra o farnetica, ma perché gli stessi partiti ci hanno sollecitato a ciò.
In questo manifesto «Chi vuole l’Europa unita vota antifascista», si è espressa in modo autonomo una posizione federalista che è nata però insieme al fatto che in campagna elettorale, per la prima volta, abbiamo avuto sollecitazioni e incontri molto qualificati con i partiti. I partiti in questione sono quelli dell’arco democratico e quelli dell’arco costituzionale. Questi rapporti, che ci sono stati in tutte le città e con particolare rilievo a Milano, perché a Milano c’è la sede della Commissione italiana, e che hanno riguardato i leaders — intendo Malagodi, Granelli, Bucalossi, Nenni — sono stati spesso sollecitati dai partiti e non da noi. Questo è il segno che c’era nella situazione politica italiana qualcosa di obiettivo che spingeva in sostanza a questo embrione di prese di posizione nuove: i partiti potevano avvertire la necessità della presenza del M.F.E. nei confronti della tenuta elettorale. È un fenomeno embrionale, beninteso, ma questi elementi servono per stabilire che non si tratta di risposte casuali o di invenzioni a tavolino, ma di qualche cosa — alla quale possiamo anche aver dato una risposta sbagliata — che ci veniva chiesta dalle cose. Quello che è successo dopo è stata la riflessione su questo fatto: perché il Movimento federalista ha creduto di intervenire, spinto dalle cose, non da scelte che siano state prima pensate, in politica elettorale. È dopo che ci siamo resi conto di ciò, ed è dopo che ci siamo resi conto che il Movimento federalista aveva mutato un suo antico orientamento e ci siamo chiesti qual era il vero significato di questo.
La prima riflessione che è stata fatta è stata di carattere teorico e dottrinale. Anche questo è un antico principio del M.F.E. (e del federalismo che abbia meditato sulle unificazioni statali del secolo scorso e che sa che fare uno Stato europeo non è un’operazione illuministica di vertice, in quanto implica lo scatenamento di contraddizioni e il superamento di contraddizioni): che lo Stato europeo non nasce gradualmente, come pensano gli europeisti di Bruxelles, e che a furia di farsi avanti un giorno si trova che il potere è trasferito dalla nazione all’Europa. La fondazione dello Stato federale europeo è un enorme episodio storico-politico che nasce da contraddizioni e che deve superare contraddizioni. L’avvento dello Stato europeo è un fenomeno storico di grande entità e che passa attraverso grandi contraddizioni e che certamente non si fa al vertice con operazioni illuministiche, né si fa con le conferenze con i capi di Stato. L’Europa si farà compromettendo i capi di Stato. Certo si farà anche se si troverà uno che, a un certo momento, diventa Cavour. Ma uno diventa Cavour se c’è La Farina in mezzo e Garibaldi a sinistra. Se il vertice non ha un La Farina a mezza strada e Garibaldi e Mazzini a sinistra, è certo che non si fa uno Stato. È tutta una dialettica che noi conosciamo e che in genere in Europa non si vuole tenere in considerazione.
Coscienti di questo, noi — o almeno molti di noi — abbiamo sempre pensato che il passaggio all’Europa, il passaggio vero alla Europa, il salto di qualità, il salto di potere, il trasferimento dei poteri fondamentali, quelli che poi generano la situazione politica globale, dalle nazioni all’Europa, non sarebbe stato possibile se non in epoca di crisi. È chiaro, anche questo è un ragionamento che si tratta di non interpretare meccanicamente, ma resta pur sempre di buon senso ed obiettivamente vero: se gli Stati sono tranquilli e le cose politiche e sociali vanno bene, non c’è nessuna possibilità di togliere agli Stati il loro potere supremo e trasferirlo ad un’altra entità. È chiaro che i passaggi di potere e le unificazioni statuali (l’Italia e la Germania ne sono il solo esempio recente, quindi il solo esempio illuminante) avvengono in epoca di crisi.
Quindi noi avevamo teorizzato, se volete in maniera un po’ meccanica, ma le opinioni bisogna ridurle a certe formule per tenerle presenti, che il passaggio all’Europa, cioè allo Stato federale, sarebbe stata una cosa possibile in epoche di crisi degli Stati. Questa crisi degli Stati, che ha andamenti diversi in tutti i paesi, ma che è presente in tutti i paesi, si sta avvicinando; per esempio, la Francia non ha più un sistema di partiti funzionali e si è salvata momentaneamente solo col sistema presidenziale; naturalmente la crisi francese è assorbita meglio di quella di altri paesi per la forza delle tradizioni, per la forza dell’amministrazione, e la Francia può vivere, come ha vissuto altre volte, con una specie, direi, di riduzione dell’attività politica, con una specie di paternalismo, senza gravi crisi.
La riflessione di fondo che abbiamo fatto sull’Italia era già stata messa in evidenza molto a Nancy, ed ho visto che è stata quasi accolta da Servan-Schreiber, che curiosamente è deputato a Nancy e forse ha sentito quello che abbiamo detto noi, perché ha detto le stesse cose, in un intervento pubblico. A Nancy, noi abbiamo messo in rilievo della crisi italiana un aspetto, che poi corrisponde anche questo ad un’osservazione che tutti fanno senza trarne conclusioni rigorose: l’Italia, essendo l’anello debole della catena europea — e questa è la polemica di oggi sul rischio dell’Italia di essere emarginata dall’Europa — è, per ciò stesso, anche il paese che può avere più iniziativa europea, ed è, per ciò stesso, anche il paese che può avere più vitalità europea, perché proprio come paese in crisi, paese in cui tutto può succedere, è il paese che può avere le maggiori chances. È chiaro che è la crisi che spinge il pensiero ad andare fino alla radice della crisi storica, politica e sociale e quindi può consentire di formulare meglio le alternative: è chiaro che meno la crisi è evidente meno il pensiero politico va in profondità. A Nancy si era fatto appunto rilevare questo elemento che l’anello debole della catena può essere più stimolante sia per quanto riguarda le iniziative, il voler porre il problema europeo in certi termini piuttosto che in certi altri, sia per la stessa vitalità di certi fermenti che si manifestano nel corso della crisi.
In questo quadro il comunismo italiano è una cosa positiva, non una cosa negativa. Se si resta prigionieri dell’orizzonte italiano il comunismo in Italia è quello che è, se si allarga la visuale all’orizzonte europeo, dove il comunismo italiano è molto rispettato, è molto tenuto presente come il comunismo più vivace e più intellettualmente definito, il P.C.I. diventa una garanzia, perché l’Europa elettorale sarebbe una Europa socialdemocratica, fatalmente avrebbe la socialdemocrazia come partito dominante. Ma quando in Italia si critica la socialdemocrazia come il partito che ha spento troppo le istanze del socialismo, ci si lamenta di ben poco, perché le istanze del socialismo sono state molto più spente dalle socialdemocrazie in Europa. Cos’è la socialdemocrazia tedesca di Brandt? È un partito che è arrivato al vertice con un’etichetta socialista e popolare e, una volta giunto a controllare il paese, si occupa solo di politica estera, quindi sotto banco di nazionalismo, della situazione della Germania nel mondo. Ho sentito dire una battuta da Malagodi, che dopo aver parlato con Brandt sosteneva: «Mi pare che i liberali italiani siano a sinistra della socialdemocrazia tedesca in politica interna». In questa prospettiva elettorale europea, il P.C.I. rappresenta una garanzia di rivitalizzazione della socialdemocrazia europea, perché è chiaro che in una prospettiva elettorale europea il P.C.I. ha da fare una scelta assoluta. Se sbaglierà questa scelta diventerà uno P.S.I.U.P. europeo e farà la fine che questo ha fatto in Italia — perché non ha gli omologhi elettorali negli altri paesi — (nell’Europa dei Dieci il comunismo è elettoralmente insignificante, ma quello che è più grave è che questa insignificanza elettorale è la spia di un ruolo che sarebbe insignificante). Il P.C.I. — e gli omologhi — se scegliessero in Europa la vecchia strada comunista seguita dal 1919 ad oggi, rapidamente arriverebbero al massimalismo astratto delle formazioni psiuppine (del P.S.U. in Francia e via dicendo) fino ad esaurirsi e ad essere estromessi dalla scena politica. Il comunismo in Europa dovrebbe fare una scelta diversa ed è molto chiaro secondo me che i comunisti si preparino a questo. Oggi chi ha visto queste strade è Amendola e non è un caso che Amendola sia allo stesso tempo il leader comunista che qualche anno fa ha detto: «Noi dobbiamo tener presente, se vogliamo essere sinceri fino in fondo, che in Italia, in Europa e nel mondo è fallito il comunismo, come esperienza politica di partito, come esperienza di rinnovamento politico-sociale ed è fallito il socialismo». Per Amendola l’avvenire è il partito del lavoro, un vero partito che sappia rappresentare il lavoro nell’evoluzione e nelle trasformazioni storiche.
Riassumendo, un punto fondamentale che era già comparso nei nostri discorsi, ma che non aveva ancora trovato una formulazione politica, cioè che non era ancora diventato un elemento della linea politica per l’M.F.E. è questo: l’idea dell’Italia come anello debole della catena, con queste caratteristiche.
In primo luogo l’Italia è il paese dove, se si lavora, c’è la possibilità di avere iniziative europee più forti che in altri paesi, e oggi iniziative europee più forti significa iniziative elettorali, perché già di fronte ai problemi che ha la Comunità economica cioè l’unione monetaria e via dicendo, il potere che può risolvere questi problemi è solo quello elettorale: al di fuori del potere elettorale non c’è nessuna possibilità di costruire un’unione monetaria, economica e politica. In secondo luogo l’Italia è il paese che presenta anche con i suoi squilibri e per certe sue caratteristiche storiche, il terreno più fertile per una presa di coscienza europea. Per esempio, l’esperienza che hanno fatto i comunisti in Italia dimostra come l’Italia può essere al di fuori degli slogans troppo facili il paese che più degli altri stimolerebbe l’Europa a darsi una struttura che le consenta di andare al di là dei limiti del capitalismo e dello stalinismo. Per andare al di là di questi limiti effettivamente l’Europa trova in Italia e in particolare nell’esperienza del P.C.I. una grande risorsa. E se non ci sono risorse di potere, risorse storiche che possono farci pensare alla nascita di certi tipi di società, allora è inutile parlare di Europa terzo modello.
D’altra parte, se noi dovessimo limitare l’Europa a una visione di club di paesi ricchi, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, possiamo stare sicuri che quella non è l’Europa terzo modello: quella è un’Europa atlantica e l’Europa atlantica è conservatrice. Ma se l’Europa non sarà atlantica e conservatrice ciò accadrà proprio perché i suoi squilibri sono vitali: dove non ci sono squilibri vitali c’è la conservazione. Questi sono gli elementi che erano venuti in campo, che non abbiamo inventato noi: ci sono questi elementi in campo e c’è in campo la nostra presenza elettorale alla quale si trattava di dare il suo senso preciso. Non si può fare politica senza riflettere; ma in politica come in guerra si comincia a reagire a una situazione e poi si riflette: noi abbiamo reagito alla situazione del potere politico in Italia e poi abbiamo cominciato a riflettere. Io credo che almeno il merito che dovrebbe esserci riconosciuto è di avere buttato questo sasso nello stagno, e quindi di portare il Movimento a riflettere sulla situazione nella quale l’Italia si trova oggi in Europa.
Queste sono le premesse; gli elementi che poi possono averci spinto a precisare questa formula sono questi: il primo — ed esprimo qui una mia personale preoccupazione, nella quale peraltro vive una componente del M.F.E. in Italia che è nato durante la Resistenza, e che si è formato come risposta alla coscienza che la Resistenza ha avuto della situazione dell’Italia, della sua situazione storica, delle sue debolezze — è il pre-fascismo. Io sono convinto che la colpa del fascismo è del pre-fascismo. È abbastanza stupido dare la colpa del fascismo ai fascisti perché di nevropatici, di violenti e di idioti il mondo è sempre stato pieno: il grosso problema dell’Italia è che questo manipolo di nevropatici, di violenti e di idioti è andato al potere. E se questi vanno al potere la colpa è degli altri perché normalmente i nevropatici e gli idioti vengono emarginati o vanno in manicomio, o comunque costituiscono una fauna bizzarra di un paese e non un pericolo politico: anche gli inglesi avevano avuto le loro formazioni fasciste, ma in Gran Bretagna erano una curiosità, una bizzarria; erano anche una cosa antipatica per quel che dicevano, ma non erano un pericolo per la Gran Bretagna. Il problema grosso era che in Italia, in Germania e, in forme molto più blande e meno pericolose, in Francia, questo tipo di formazione politica, questo tipo di uomo in sostanza che c’è in tutto il mondo, può andare al potere e quindi è chiaro che la colpa è di chi consente che questa gente vada al potere. Quindi nell’esperienza antifascista del M.F.E. l’accento non viene messo sul fascismo: il nemico del M.F.E. è il pre-fascismo, perché il pre-fascismo è la situazione di cedimento della democrazia e dello Stato che prepara le strade all’avvento al potere del fascismo.
Il secondo elemento da tenere presente è che non si può valutare il fenomeno fascista con i normali criteri elettorali e via dicendo, perché il fascismo ha una natura politica violenta e vive in una situazione di debolezza dei poteri per cui non si può valutare il pericolo fascista prendendo in considerazione i fascisti che abbiamo sotto gli occhi e prendendo come criterio di misura le possibilità elettorali di questi fascisti, ma bisogna usare altri criteri di valutazione, perché il fascismo non va al potere attraverso i primi imbecilli che parlano di fascismo, né va al potere attraverso le elezioni, ma va al potere attraverso la crisi dello Stato e del governo. Quando non si riesce a fare bene un governo democratico, ci si trova già nella situazione in cui il fascismo ha vinto e quindi bisogna combattere prima che il paese si trovi in una situazione di questo genere. Anche questi sono principi che non sempre vengono tenuti presenti e che sono un retaggio comune della tradizione antifascista, specie laddove la tradizione sia gobettiana e non sia post-fascista (cioè non sia di quelli che sono diventati antifascisti quando il fascismo è andato al potere): bisogna essere antifascisti prima che il fascismo vada al potere.
Quindi l’esperienza del pre-fascismo, la volontà di non cascare negli errori del pre-fascismo, ha come terreno di confronto una figura molto precisa: la debolezza del governo. In paesi come i nostri, se si arriva ad un periodo storico nel quale il governo è difficile a farsi, in cui il governo è debole, in cui si fanno soltanto governi deboli, quella deve essere considerata come una situazione di pericolo fascista; e poiché del contingente non c’è scienza, non si può aspettare ad agire quando il fenomeno sia sicuro: il solo segno di pericolo è sufficiente. Non c’è altro da fare, non c’è altra possibilità, non c’è nessuna scienza che ci possa dare la previsione dell’andamento di questi fattori: debolezza del governo, debolezza dello Stato, rafforzamento del fascismo, contraddizioni interne di potere che portano al fascismo. L’esistenza di segni di pericolo è sufficiente a rendere necessaria qualche risposta politica: questa è la sola maniera per poter frenare il fenomeno. Questi sono gli elementi sui quali dobbiamo basare la nostra analisi. Essa ci ha portato sulla situazione futura dell’Italia, sul ciclo politico che si sta aprendo e sul problema che nel mondo si pongono tutti, e non soltanto i federalisti: l’Italia ha finito un ciclo politico o non l’ha finito? l’Italia ha avuto un ciclo politico del centrismo, ha avuto un ciclo politico del centro-sinistra; il centro-sinistra è di nuovo capace di sorreggere un intero nuovo ciclo politico dell’Italia oppure no? Se il centro-sinistra è capace di sorreggere un nuovo ciclo della vita politica italiana i federalisti non hanno niente da dire in politica interna: c’è un governo che riesce a fare una politica democratica, certi legami popolari sono forti. Non si potrà fare una vera e propria politica di sinistra ma si potrà fare comunque una politica capace di tenere in piedi il governo, di tenere in piedi le istituzioni democratiche, e questo in una prospettiva in cui l’orientamento del governo è tendenzialmente europeista: per cui noi potremmo lavorare con i soliti criteri cioè di non occuparci di politica interna e di fare la nostra politica federalista. Ma chiedersi oggi se il centro-sinistra è capace di formare un nuovo ciclo politico è chiedersi una cosa molto grossa, alla quale tendenzialmente si risponde di no. Nessuno di noi è in grado oggi di esprimere risposte, di dire che il centro-sinistra è morto e di dire che è vivo con la stessa certezza con cui si dice che due più due fa quattro; ma questo basta per stabilire che in sede politica bisogna occuparsi della possibilità che il centro-sinistra non sia vitale. E in fondo il testo che abbiamo cominciato a redigere non vuole altro che rispondere a questo fatto: è possibile, dobbiamo tener conto del fatto, che il centrosinistra potrebbe non essere più vitale. E naturalmente di fronte alla situazione in cui il centro-sinistra potrebbe non essere più vitale bisogna tirare certe conseguenze. Che il centro-sinistra non sia più vitale sembra essere uno stato di fatto. È innegabile che il centro-sinistra è la formula, lo schieramento di forze che ha generato la crisi e questa è la cosa più allarmante, che con più evidenza fa pensare che il centro-sinistra sia in crisi: noi non siamo arrivati alla crisi con il centrismo per risuscitare con il centro-sinistra. Siamo arrivati alla crisi più grave nelle istituzioni italiane con la formula e con lo schieramento del centro-sinistra.
Si fa una politica, con certi schieramenti e con certi programmi, perché si pensa di poter mobilitare delle forze, di poter cambiare a un certo momento la situazione sociale, la situazione istituzionale: quando il centro-sinistra è nato, è nato proprio perché apriva una strada all’avvenire, perché colmava una vecchia lacuna, eliminava un vecchio limite che era quello dei socialisti estranei al governo e quindi di un governo che non poteva portare alla rappresentanza storica certe forze popolari. D’altra parte si pensava che portando una parte di queste forze popolari al governo, si avesse la possibilità di alterare l’equilibrio politico italiano.
Il criterio era preciso: il centro-sinistra avrebbe dovuto fare del partito socialista un partito più forte del partito comunista. E il fallimento del centro-sinistra è stato determinato proprio dal fatto che è stato mancato questo grande obiettivo. Il partito socialista non è diventato più forte del partito comunista. L’esperienza del centro-sinistra ha rafforzato il P.C.I. e ha indebolito il P.S.I. Non dimentichiamo che il centro-sinistra è nato nella prospettiva dell’unificazione socialista. L’unificazione socialista ha fatto pensare ad un grande partito socialista: queste sono state le motivazioni, questa è stata la volontà. Si pensava che, disponendo di un forte partito socialista in Italia, si sarebbe disposto fatalmente di un elemento per fare una politica di sinistra, democratica e sociale in Italia. L’unificazione socialista è fallita. Il socialismo si è scisso un’altra volta: oggi si presenta diviso, mentre il P.C.I. ha mantenuto la sua unità, la sua compattezza, la sua presenza, ha praticamente emarginato (almeno nella situazione attuale, e sempre che gli avvenimenti politici italiani non portino verso un governo tanto debole da consentire qualche esplosione di follia) tutte le sue dissidenze di sinistra. Il recente episodio elettorale è stato enormemente interessante perché ha mostrato che la contestazione non ha alcuna prospettiva politica: non ha una via elettorale e non ha una via rivoluzionaria. Quindi questo ridà al P.C.I. la posizione forte di partito egemone della sinistra nazionale. Ma i recenti avvenimenti hanno dimostrato anche che il P.C.I. è rimasto vitale anche nell’elaborazione politica: non sottovalutiamo il fatto che il P.C.I. ha fatto la svolta europea; quante persone hanno constatato che la risoluzione del congresso del P.C.I. parlava di elezioni generali del Parlamento europeo? Quando dieci anni fa nel P.S.I. sono comparsi i primi elementi europei, quelli che allora erano prigionieri del passato dicevano che si trattava di posizioni strumentali, mentre quelli che avevano la vera volontà di portare delle forze nel campo europeo, hanno preso quei primi segni di europeismo del P.S.I. come incoraggianti. Se compare un elemento europeo nel P.S.I. — essi dicevano — è segno che è comparso qualcosa di obiettivo nella storia e nella evoluzione di quel partito e quindi quel qualcosa va tenuto presente. Le cose si presentano allo stesso modo per il P.C.I. Io non capisco perché dovremmo fare una considerazione diversa nei confronti del P.C.I. da quella che abbiamo fatto per il P.S.I. Non dobbiamo dimenticarci che oggi consideriamo indiscutibilmente il partito socialista come un partito democratico, come un partito europeo, come un partito sicuro. Ma quindici anni fa le cose stavano in termini completamente diversi: il P.S.I. era stalinista, il che significa che i democratici, anche se di sinistra, lo consideravano con la stessa diffidenza e con lo stesso sospetto con il quale si guarda oggi il P.C.I., perché le cose stavano nello stesso modo. Nenni ha preso il premio Stalin, e il partito si era pronunciato contro il Patto atlantico e contro le Comunità europee; c’era una scelta di campo del P.S.I. che era una scelta del cosiddetto campo socialista e del cosiddetto campo antiimperialista. Non vedo quali siano le differenze, almeno per la strategia che Moro chiama dell’attenzione, tra il P.S.I. di dieci anni fa e il P.C.I. di oggi. In ogni caso ciò che non dobbiamo dimenticare è che il P.C.I. è uscito vincente dal centro-sinistra e le vittorie e le sconfitte in politica sono fenomeni obiettivi: il che significa che le forze sono in un certo modo e non in un certo altro. Il centro-sinistra è stato un periodo storico della vita italiana positivo come in fondo tutti quelli che abbiamo vissuto finora nella misura in cui l’Italia ha potuto tenere il passo con l’Europa, sviluppare la democrazia e una certa vitalità del movimento operaio. Ma il centro-sinistra ha avuto una certa vitalità appunto perché aveva una prospettiva di avvenire, di trasformazione, di vita, di governo, di potere. Il centro-sinistra oggi è in una posizione difensiva che non corrisponde ad una diagnosi nella quale si dica: noi vogliamo fare il centro-sinistra perché in questo modo possiamo esprimere le forze storiche che oggi agiscono in Italia. È semplicemente una formula di vertice, non è in questo momento una formula, come era allo inizio, di espressione delle forze che sono maturate nel nostro paese. Quindi si può ragionevolmente temere che il centro-sinistra non sia più capace di essere la formula di un ciclo politico stabile, positivo ed evolutivo, nel senso più generale della parola. Il centro-sinistra si può temere che sia esaurito. In questo caso, evidentemente, tutte quelle preoccupazioni che nascono dalla presenza del fascismo, dal ritorno della minaccia fascista, dalla crisi dell’economia, da tutte queste impasses nelle quali ci troviamo, acquistano un rilievo preciso. Il pericolo fascista è l’altra faccia dell’incapacità di formare dei governi positivi, non dico di destra o di sinistra, ma dei governi positivi, che sappiano avere una certa vitalità e garantire una certa evoluzione delle istituzioni. Quindi il pericolo fascista deve essere analizzato nei confronti delle difficoltà di formare un governo, non nel senso superficiale della parola, ma in funzione della possibilità di dare all’Italia un nuovo ciclo politico su qualche formula che possa avere il consenso del paese.
È a questo punto che noi abbiamo detto: se in Italia c’è questa situazione, cioè c’è il pericolo fascista (non perché Almirante strilla, ma perché appunto è difficile immaginare uno schieramento che ci dia un nuovo ciclo politico italiano), allora è chiaro che noi siamo di fronte a questo problema nuovo, perché i federalisti possono non interessarsi di politica interna fino a che non c’è rischio di fascismo, di trasformazione delle istituzioni, di perdita della democrazia, devono preoccuparsene quando questi pericoli si presentano. L’alternativa quindi mi pare precisa: o si forma l’idea di un ciclo politico che tutti accettano, di cui si senta la forza, che terrà il campo — pur avendo un’alternativa e quindi quelli che lo criticano, ma che lo criticano come una cosa solida — oppure noi dovremo tenere presente il pericolo del fascismo e quindi avere, nella nostra strumentazione politica, nelle nostre iniziative politiche, la risposta a questa possibile minaccia.
Quindi il documento nel quale noi indichiamo questa formula di un governo possibile dal P.L.I. al P.C.I. non vuole indicare un’iniziativa che abbia qualche relazione con la formazione del governo oggi. Oggi verrà fuori probabilmente un governo centrista, vista la posizione del P.S.I. e di tutti gli altri partiti. Ma la situazione è grave, perché si tratta di un governo di cui le sue stesse componenti dichiarano che sarà debole. Ed è disastroso un governo debole in un paese in cui c’è l’ordine pubblico minacciato, ci sono i guerriglieri, c’è la crisi economica e c’è l’incapacità di trovare una qualche forma di equilibrio sociale e di equilibrio politico. Quando il potere è debole non c’è per nessuno la possibilità di un comportamento responsabile perché i comportamenti politici responsabili sono quelli del governo e quelli dell’opposizione: quando non si forma un comportamento responsabile di governo e un comportamento responsabile di opposizione noi siamo vicini all’anarchia, vicini al disordine. Questo governo debole di centro, nasce con la prospettiva che è amara, che è difficile, che è tale da rendere il governo ancor più debole di quanto non lo sarebbe di per se stesso, di ridare spazio ad un governo di centro-sinistra, ammesso che questo sia possibile. Ma voi capite che cosa sarà questo governo in cui i liberali vanno con la speranza di seppellire per sempre il centro-sinistra, ma con la frustrazione di sapere che gli altri lo fanno solo allo scopo di buttar fuori i liberali appena il compito dei liberali, di salvare la strada agli altri, sia esaurito. Questo è veramente il governo più debole che si possa pensare ed è una soluzione cattiva, obiettivamente, perché non è neanche una soluzione onesta: imbarcare i liberali per farli fessi.
Quindi noi siamo in presenza di un governo debole la cui prospettiva è di sboccare di nuovo nel centro-sinistra, che a sua volta sarà debole. Noi siamo nelle peggiori condizioni possibili, in Italia, sotto l’aspetto della formula politica, nei confronti dei problemi del paese, nei confronti dell’aggancio del paese all’Europa. E allora, visto che la situazione è pericolosa e che il pericolo non è sventato, anzi che le cause che hanno prodotto il disagio, il disordine, la difficoltà, stanno diventando più forti (e quindi possiamo temere che vengano disagi, disordini e difficoltà più forti di prima e che il pericolo fascista aumenti) bisogna essere preparati ad affrontare questi pericoli.
Bisogna che il paese non consideri come assurdo un governo di emergenza nel caso in cui la situazione di emergenza arrivi, e nessuno può oggi escludere che arrivi. Lo dicono i partiti, lo dicono i giornalisti anche se si contraddicono in fase risolutiva. Ma sono discorsi che fanno tutti: La Malfa continua a dire che c’è una situazione d’emergenza, che bisogna fare un governo d’emergenza: e propone un governo dal P.L.I. al P.S.I. con i segretari dei partiti; ma questo non è un governo d’emergenza per una situazione d’emergenza perché lascia fuori e contro il P.C.I. Se c’è infatti una situazione d’emergenza, che cosa significa un governo d’emergenza? Significa portare al vertice, quindi rappresentare, tutte le forze che in quel particolare momento sono inquiete e che non riescono a trovare un equilibrio; è quindi chiaro che un governo d’emergenza deve rassicurare i sindacati e obbligarli a fare una politica responsabile: tenete conto che l’idea di fondare un governo dal P.L.I. al P.C.I. significa la prospettiva di portare alla responsabilità tutte le forze politiche e sociali ed impedire che divengano irresponsabili perché si crea una dialettica di non emergenza nell’emergenza. Cioè si scatena una parte della società contro l’altra in un momento in cui la società è fragile.
L’idea di far circolare nel dibattito politico l’idea di un governo dal P.L.I. al P.C.I. è relativa a queste considerazioni e ha solo questo valore: non è una indicazione di governo, significa solo ammonire che se venisse davvero la situazione d’emergenza, non bisogna farsi sorprendere e non bisogna essere vittime del tabù che il P.C.I. non può essere messo al governo. Del resto dobbiamo ricordare che, quando la Russia e l’America erano d’accordo, il P.C.I. era al governo in Italia. E questo fantasma che è stato sollevato dagli amici di Imola, che il P.C.I. andrebbe al potere per fare lo stesso scherzo del partito fascista, è completamente un’invenzione della propaganda (intanto non è detto che il partito fascista per vincere debba entrare in un governo di coalizione e poi eliminare gli altri elementi della coalizione dall’interno: il partito fascista va al governo attraverso crisi, attraverso fatti militari…). È vero che il partito comunista ha preso il potere in Cecoslovacchia entrando in governi di coalizione e poi, come elemento forte della coalizione, spegnendo la libertà degli altri; ma quando si fa questo ragionamento occorre tener presente che questo è accaduto nei paesi di osservanza comunista e subordinati all’Unione Sovietica. Quando il P.C.I. di Togliatti è andato al governo in Italia si è ben guardato dal far questo, perché sapeva che c’erano i soldati americani in Italia; il P.C.I. che va al governo in Italia non si trova nella stessa situazione di un partito comunista che va al governo in Cecoslovacchia o altrove nella zona di influenza sovietica. E comunque bisogna tener presente che ci troviamo in una situazione internazionale ed europea mutata.
La situazione internazionale è mutata perché la convergenza di America e Russia, pur non essendo forte come ai tempi di Roosevelt e di Stalin, è purtuttavia abbastanza forte. L’America ha più interesse ad andare d’accordo con l’Unione Sovietica che con i paesi europei. Certo, se noi fossimo uniti, gli U.S.A. dovrebbero tener più conto dell’Europa che della Russia, ma visto che gli europei, in sede di decisioni politiche supreme, sono sempre divisi, ciascuno di essi rappresenta per l’America un interesse molto meno forte dell’interesse di convergenza che essa ha con l’U.R.S.S. Nixon sta cercando di fare emergere quella che è la posizione reale dell’America nel mondo, cosa che l’America si era nascosta per molto tempo. In una situazione di questo genere è chiaro che non si può sostenere la posizione: «se, in caso di emergenza, portiamo il partito comunista al governo, il P.C.I. stabilirà la dittatura».
Inoltre, l’indicazione di un possibile governo a sei dai liberali ai comunisti, vuole far fronte ad un pericolo ulteriore della situazione politica italiana: che in una situazione di emergenza, vengano emarginati i partiti minori: non è stata vista di questo documento una preoccupazione, direi, risorgimentale. L’Italia col suo sistema multipartitico, coi governi di coalizione e via dicendo, ha potuto mantenere certe caratteristiche storiche attraverso la presenza dei partiti liberale, repubblicano e socialdemocratico, che costituiscono delle eredità preziose nella situazione storica italiana e non vanno soppresse. Se viene una situazione d’emergenza e qualcuno non ha avuto il coraggio di pensarla con una certa libertà intellettuale, il rischio grosso è che noi abbiamo non il governo costituzionale dai liberali ai comunisti, ma la repubblica conciliare, cioè il dominio di queste masse e di queste élites non ancora perfettamente democratiche che sono le masse e le élites democristiane e comuniste, che, non dobbiamo dimenticarci, sono storicamente recenti. Le tradizioni di pensiero politico statuale si fanno con lunghe elaborazioni storiche: queste sono presenti nei liberali, nei repubblicani, nei socialdemocratici, sono deboli nel P.S.I. e sono molto più deboli ancora nella Democrazia cristiana e nel P.C.I. Quindi la preoccupazione di questo documento non era di fare del sinistrismo, ma era una preoccupazione di responsabilità politica basata sulla convinzione che se l’Italia corre il pericolo di trovarsi in una situazione d’emergenza, e se a questa situazione d’emergenza non ci si prepara, il rischio forte è che venga uccisa l’Italia del Risorgimento. Ora, l’Italia del Risorgimento che sotto alcuni aspetti odiamo, sotto altri aspetti è quanto c’è di europeo in Italia. Infatti oggi che è arrivata la Gran Bretagna nel Mercato comune dovremmo capire con più chiarezza che tutte queste formazioni spurie, che sono tipiche dell’esperienza politica continentale, il comunismo da una parte e le democrazie cristiane dall’altra, sono un segno dell’immaturità politica del Continente, perché laddove la democrazia si esprime con maturità non c’è né il partito democratico cristiano né il P.C.I.: c’è il partito conservatore e c’è il partito del lavoro che sono le forze che costituiscono l’indice che un paese è arrivato alla trasparenza politica, alla saggezza politica e che ha le forze politiche al livello della democrazia e non al livello della pre-democrazia. Quando abbiamo bisogno, per tenere le forze sul terreno democratico della benedizione del Papa da una parte e di un’altra benedizione totalitaria dall’altra, dovremmo avere anche l’umiltà di riconoscere che quel paese sta avanzando verso la democrazia, ma che non è ancora democratico.
Quindi una preoccupazione è questa: se si arriva ad una situazione di emergenza non emarginare i partiti minori, non fare uscire dal gioco i liberali, i repubblicani e i socialdemocratici, che, certamente si troverebbero fuori dal gioco se la situazione di emergenza arrivasse senza che ci sia stato niente di pensato, niente di preparato, con la conseguente necessità di ricorrere alle forze più consistenti in quel momento immediato, cioè all’alleanza dei democristiani con i comunisti, nel disprezzo di tutti gli altri. La preoccupazione di essere preparati a fronteggiare una possibile situazione di emergenza, mi sembra tanto più legittima in quanto l’Italia è il punto sensibile dell’Europa, sia perché rischia di uscirne, sia perché è quella che ha più chances di mandarla avanti.
La legislatura che comincia adesso è la legislatura che coincide temporalmente con la prima fase della realizzazione dell’unione monetaria, economica e politica dell’Europa. Bene, bisogna diventarne consapevoli. Per diventarne consapevoli ci vogliono delle frustate. Se quest’idea del governo dal P.C.I. al P.L.I. è una frustata che fa pensare fino in fondo senza lasciarsi addormentare, ben venga. Se se ne trova un’altra che abbia lo stesso valore di frusta, poniamone un’altra, ma cerchiamo di far capire ai politici, all’opinione pubblica, ai giornali, con il lavoro paziente ma duro — duro, com’è dura la situazione — che il fatto che siamo nella prima fase della realizzazione dell’unione economica, monetaria e politica, significa che l’Europa è entrata nella fase costituente, che noi stiamo vivendo davvero un periodo di emergenza. Ed è qui che acquista senso la paura degli italiani, di La Malfa: «Stiamo per uscire dall’Europa, cerchiamo di restare legati all’Europa!». Ma cosa significa «stiamo per uscire dall’Europa, cerchiamo di stare in Europa», se non fare una politica europea? E capire di che politica europea si tratta? Ebbene, si tratta della politica costituzionale europea. Anche lì non possiamo essere prigionieri del passato: le Comunità hanno funzionato, e allora pensiamo per tutta la vita in termini di Comunità. Ma il futuro dell’Europa, visto che possiamo avanzare soltanto sul terreno dell’unione economico-monetaria e politica, chiaramente deve portarci molto al di là delle Comunità, deve portarci al potere europeo e quindi deve portarci all’elettorato europeo, perché problemi così non si affrontano senza la volontà politica che venga direttamente dalle elezioni. Tutto ciò significa che si tratta di realizzare la costituzione dell’Europa.
Anche questi elementi sono presenti nella politica dell’Italia, anche se lo sono in maniera passiva e non attiva, attraverso la paura delle forze politiche più responsabili — e sono quelle risorgimentali, dei liberali, socialdemocratici e repubblicani di essere emarginati dall’Europa.
Ora anche qui si tratta di portare a un livello di attività quelle situazioni che sono recepite ma alle quali non si dà ancora risposta. Questo livello di attività è costituito in fondo dalla consapevolezza che l’Europa è entrata nella fase costituzionale, nella quale i problemi sono costituzionali, le scelte sono di natura costituzionale. Ma se questo è vero, i problemi di ordine costituzionale vanno affrontati con l’unità popolare, con schieramenti di emergenza, perché per definizione i momenti costituzionali sono momenti di emergenza e di unità popolare. La Costituzione l’abbiamo fatta assieme ai comunisti perché era un momento di emergenza e quindi un momento di unità popolare.
Ora, quando noi stabiliamo questo nesso tra unione economica, monetaria e politica e problema costituzionale, certamente Le Monde e tutti i sapienti europei ci darebbero degli stupidi e dei dottrinari. Ma il fatto è che Pompidou, che è un uomo di Stato e non un giornalista, presenta una alternativa costituzionale e la sta imponendo. Egli presenta la confederazione, e la confederazione è una scelta politica precisa, che può anche funzionare se esiste una convergenza di alcuni Stati attorno alla formula confederale. Ora la convergenza di alcuni Stati attorno alla formula confederale esiste: è la convergenza della Gran Bretagna, della Francia e della Germania occidentale, in una prospettiva sociale e politica. Si tratta dei paesi forti, dei paesi che non vogliono avere il carico della politica sociale, della politica di sviluppo regionale che interessa i paesi più deboli e soprattutto l’Italia. C’è in sostanza un blocco storico, che è quello del club dei ricchi nella loro espressione conservatrice, che può benissimo manifestarsi intorno alla formula confederale. E questo blocco storico può benissimo acquisire una posizione definita nell’equilibrio politico internazionale. È la posizione in cui l’Europa fa da supporto all’America, in cui il capitale europeo accetta di essere alleato e subordinato al capitale americano. Quindi la scelta è sul tappeto ed è una scelta costituzionale: fare una confederazione significa proporre agli europei un disegno politico globale valido per un intero ciclo politico con alcune caratteristiche specifiche. Sappiamo benissimo cosa significa ciò: in termini di unità, un’unità fragile che durerebbe quanto dura questo ciclo politico, che emarginerebbe alcuni paesi, che non ricupererebbe su di una piattaforma democratica quelli che oggi sono emarginati, come la Spagna, la Grecia, il Portogallo, che non direbbe niente all’est europeo se non nei termini vivi della soggezione ai grandi.
Quindi i federalisti la debbono rifiutare perché non è un’unità irreversibile. In particolare poi essa significherebbe l’egemonia per un intero periodo storico delle forze del privilegio e del capitale sulle forze della democrazia e del movimento operaio. Si tratta di un nuovo ciclo politico simile, con tutte le differenze storiche, a quello che abbiamo inaugurato nel 1919 ed abbiamo concluso nel 1945.
La diagnosi europea che noi diamo è incombente perché le scelte sono sul tappeto. Se si va al vertice continuando a puntare sul vertice e sulla Comunità come soli centri di potere, il disegno confederale ha già vinto. Contrapporre a questo disegno un disegno democratico vuol dire far intervenire effettivamente nel processo i partiti e gli elettori: la democrazia sono i partiti e gli elettori, i vertici sono i governi ed i diplomatici. Se nello schieramento che si va a fare si mobilitano solamente i vertici, cioè i governi ed i diplomatici, la battaglia è perduta.
In conclusione voglio invitarvi a meditare su una proposta d’azione che in questa congiuntura potrebbe, a mio avviso, servire da veicolo al nostro discorso politico. Possiamo metterci a studiare la possibilità di una legge di iniziativa popolare per mettere fuori legge il M.S.I.? lo credo che una iniziativa di questo genere sarebbe di importanza vitale. Si tratta evidentemente di un problema che presenta delle difficoltà, che deve essere studiato sotto il profilo giuridico. E si tratta di un problema che non dovremmo affrontare da soli: noi dovremmo cercare di schierare con noi tutte quelle forze sindacali e politiche che pensano che sia uno scandalo l’esistenza legale del M.S.I. in Italia.
L’unica cosa che i fascisti e quella parte dell’opinione pubblica sensibile alla tentazione fascista sentirebbero è che il potere è forte nei loro confronti, perché quello che fa avanzare psicologicamente il fascismo è l’idea della debolezza del potere. I fascisti pensano che la democrazia è imbelle e lo pensano perché la democrazia non li punisce. La democrazia deve punire i fascisti e il problema di punire i fascisti, checché ne dica La Malfa, non è un problema politico, ma è un problema legale, è un problema di autorità. È sbagliato dire che il M.S.I. è un problema politico, perché, se si va a fondo del ragionamento «il M.S.I. è un problema politico» ne derivano conseguenze tremende. Se il M.S.I. è un problema politico, ciò significa che la costituzione e la legge non valgono e che il problema dell’esistenza di una formazione che sta fuori dal quadro costituzionale ed anche dalle norme transitorie, è un problema che si risolve in sede politica, cioè non è un fenomeno illegale. Quindi io penso che noi dovremmo mettere subito allo studio, se voi siete d’accordo, dapprima a livello tecnico, la possibilità di una legge di iniziativa popolare per la messa fuori legge del M.S.I. Se fossimo capaci di avere una prospettiva di questo genere, dovremmo invitare molto rapidamente partiti e sindacati senza distinzione a raccogliere le firme per un’iniziativa popolare. Se c’è una legge, in cui l’iniziativa popolare assume veramente tutto il suo risalto, questa è una legge che metta fuori legge la canaglia fascista. Se noi potessimo mettere allo studio questa idea e prendere un’iniziativa in questo senso, è chiaro che noi troveremmo qui il veicolo di cui parlavo. Noi non siamo forti, quindi il nostro discorso non passa da sé nell’equilibrio politico italiano, ma può passare quando noi abbiamo uno strumento da far valere, uno strumento riconosciuto come buono. Una legge di iniziativa popolare per mettere fuori legge il fascismo potrebbe essere il veicolo per sostenere attivamente un discorso che noi dobbiamo fare, e che non ha nessuna intenzione di essere una proposta di governo, ma che è semplicemente l’ammonimento agli italiani che l’Italia è in crisi, e che bisogna prenderne coscienza con la mente rivolta ai due aspetti complementari che ogni crisi presenta: alle disgrazie che si possono verificare quando un paese è in crisi, ma anche alle fortune che si possono verificare se un paese va a fondo della sua crisi e sa trovare le grandi risposte adeguate ad Essa. E l’Italia, proprio perché ha la crisi dello Stato potrebbe essere l’elemento mobilitante dell’unificazione europea.
Devo ribadire che lo scopo della mia relazione è solo quello di avviare un dibattito. Molte cose sono mutate in Italia, in Europa e nel mondo. Pericoli nuovi e possibilità nuove si manifestano ovunque. Un nuovo ciclo politico sta nascendo. È impossibile acquistarne coscienza, allo scopo di agire efficacemente, senza rimettere in discussione tutti i temi del passato per accertare quale consistenza mantengano nella nuova situazione, e per stabilire in tempo quali siano i nuovi temi da introdurre. Ciò non può essere fatto, a mio parere, senza il libero uso di ipotesi nuove, che costituiscono il solo mezzo per una discussione realistica, quale che debba essere il risultato cui si giungerà.
 
II. Replica.
Nel replicare agli amici che sono intervenuti nel dibattito ed hanno parlato contro (o almeno, espresso seri dubbi) in merito alle proposte che ho presentato, mi sembra essenziale una premessa di fondo: il M.F.E. nasce proprio storicamente dall’idea della crisi: se non ci fosse l’idea di una crisi storica non ci sarebbe il M.F.E. È completamente assurdo nell’ambito della nostra organizzazione ragionare della prospettiva federalista senza ragionare della prospettiva della crisi: se la crisi è nei tempi lunghi, allora è l’alimento del nostro modo di pensare, ma è completamente assurdo dissociare l’elemento crisi, l’elemento M.F.E. e l’elemento rivoluzione. E non facciamo della retorica né contro né per! Il C.L.N. è stato un fatto rivoluzionario; le forze attualmente stagnanti che governano in modo impotente l’Italia, nel 1943-45 erano forze rivoluzionarie, protagoniste di una svolta rivoluzionaria.
D’altro lato o c’è crisi, almeno in prospettiva, ed allora ha senso porsi il problema dell’Europa, o non c’è crisi degli Stati, e allora il pensiero più idiota è quello della federazione europea. Perché degli Stati che vanno bene, che hanno una prospettiva, che hanno un avvenire, che possono risolvere i loro problemi, dovrebbero anche mettersi in mente di fondare una federazione, cioè di abolire la loro sovranità, di autoabolirsi come quadro politico? È chiaramente una scelta folle, per cui de Gaulle aveva perfettamente ragione nei confronti di questo atteggiamento, quando lo disprezzava. Voi sapete che io sono stato accusato di gollismo, ma io capivo perfettamente de Gaulle e il suo disprezzo per chi crede che la federazione europea sia questa sciocca operazione priva di senso drammatico e non una risposta, la risposta ai problemi di fondo della società in cui viviamo. Vorrei qui ricordarvi perché noi siamo federalisti in un modo migliore degli altri federalisti europei: perché abbiamo Ventotene alle spalle. La frase che ha sconvolto chi è diventato federalista (e che ha fatto del federalismo soltanto la sua milizia politica, convinto che questa è l’alternativa politica, seppure di carattere storico, a cui bisogna rispondere se non si vuole, come diceva Luigi Einaudi, entro poco tempo finire schiavi dell’America) è l’affermazione di Spinelli a Ventotene: se noi ristabiliamo gli Stati nazionali, vedremo riemergere tutte le aporie.
C’è da meravigliarsi se noi nel 1972 in Italia vediamo riemergere il pericolo fascista? No, o noi crediamo in Ventotene, o ha senso quello che abbiamo fatto da quel giorno in cui abbiamo capito Spinelli ad oggi, e allora dobbiamo essere in un certo senso contenti: quando verranno le aporie, verrà la crisi. Non possiamo sfuggire a questo. Ragionare per una ipotesi federalistica al di fuori di questo quadro non è ragionare.
Questo non vuol dire che noi non possiamo sfruttare quelli che ragionano in un altro modo; ma dovremo recepire quella fondamentale lezione del risorgimento per la quale non è stato il Piemonte a fare l’Italia (perché il Piemonte avrebbe fatto la confederazione dei tre Stati presieduta dal Papa, cioè avrebbe fatto una confederazione come quella di Pompidou o peggio ancora, o perlomeno la confederazione di Pompidou ai tempi di Cavour), ma l’Italia è stata fatta perché ha sempre tirato la forte ala mazziniana e garibaldina, che ha fatto sì che questo ragionamento empirico, vile, non pari alla situazione, dei moderati italiani, dei confederalisti italiani, portato sul terreno italiano, ha dovuto sfociare nella creazione di uno Stato italiano. Aveva ragione Oriani nel dire che il risorgimento era un problema semplice ma terribile: parimenti è un problema semplice ma terribile fare l’Europa, perché significa abolire la vita politica dell’Italia, della Francia, della Germania. Ma è chiaro che non si può ragionare dell’avvento della federazione se contemporaneamente si ragiona in termini di mantenimento della vita politica italiana, francese e tedesca.
Bisognerebbe anche fare una diagnosi: un paese deve avere un avvenire. Qual è l’avvenire dell’Italia? Mettiamo pure che ci sia una piccola riviviscenza del centro-sinistra: ma dov’è l’avvenire dell’Italia? Di questo paese che ha il partito permanente di governo e che non è capace di avere un’alternativa, e che vive da venticinque anni una vita costituzionale nella quale non si può fare un governo se non c’è sempre al governo lo stesso partito? Vi sembra democrazia? Che i cattolici e i socialisti abbiano il merito storico di colmare le lacune del risorgimento italiano ove le posizioni democratiche erano raggiunte soltanto da tre partiti (e questo solo era il senso del mio intervento) è evidente: per cui quando ho detto che c’è meno democrazia nella democrazia cristiana e nel partito comunista rispetto agli altri partiti recepivo un giudizio storico che i democristiani stessi danno quando riconoscono di aver assunto la responsabilità di portare alla democrazia forze che il processo storico italiano non aveva ancora potuto far emergere (la stessa considerazione si può fare per i socialisti nazionalisti).
Ma insomma questo paese che ha un partito permanente di governo, nel quale non esiste nessun disegno per farlo uscire dal partito permanente di governo, che paese è? Ricordatevi che il centro-sinistra, nella sua motivazione più profonda esprimeva la speranza di far uscire l’Italia da questa situazione. Nella misura in cui avesse promosso davvero un ricupero generalizzato delle forze di sinistra alla democrazia avrebbe finalmente aperto per l’Italia l’epoca della vera democrazia: quella nella quale se c’è un’ondata di sinistra si fa un governo di sinistra e se c’è un’ondata di destra si fa un governo conservatore; non quella che, se si ha un’ondata di sinistra, rischia di essere travolta e, se c’è una ondata di destra, rischia il fascismo. Questo non è lo Stato che noi volevamo con la resistenza ed è precisamente merito del federalismo di avere individuato e di battersi permanentemente sul terreno della crisi storica dello Stato.
Ma verrà o non verrà il momento della crisi? Noi dobbiamo vivere un’avventura stupida della mente in cui farnetichiamo della federazione europea e poi consideriamo che la vita politica è normale, oppure dobbiamo vivere il dramma storico della crisi permanente degli Stati nazionali? Io invito veramente chi tra voi è moderato a rileggere la pagina 89 dello «Scrittoio del Presidente» di Luigi Einaudi — non di qualche massimalista di sinistra o di qualche ciarlatano.[2]
Questo è il primo punto, questo il punto sostanziale per cui si pone il problema di una risposta alla crisi; poi il fatto che la crisi ci sia, grave o non grave, che senso ha? Si fa il 1917, ma si fa anche il 1905 per preparare il 1917, dato che non c’è scienza che ci dica col cento per cento di garanzia che la crisi attuale è quella decisiva. D’altronde se uno non vive sul terreno della crisi, non può rafforzarsi quando la crisi sembra in vista, né la potrà risolvere quando si presenta. Nella ipotesi storica del M.F.E. (soprattutto di quello italiano fondato da Spinelli) la crisi può trovare solo una soluzione federalistica, il che implica, di converso, che si potrà fare la federazione solo sul terreno della crisi.
Il secondo punto: io sono d’accordo con le osservazioni di metodo che sono state fatte qui da chi ha criticato le impostazioni che abbiamo cercato di suggerire oggi al M.F.E. in Italia; mi sembra sostanzialmente che tre osservazioni siano permanenti e nessuno debba trascurarle. L’amico di Venezia ci dice che noi dobbiamo fare soprattutto una politica organizzativa, aumentare gli iscritti, rafforzare ed estendere il numero delle sezioni. Ci si invita anche ad entrare in rapporto con tutta questa nuova realtà politica che va emergendo al di fuori dei partiti ed avere posizioni precise in questi rapporti. Ed è altrettanto giusto chiederci di stabilire rapporti e misurarsi con le soluzioni che i vertici, i governi, ecc. cercano di dare alla questione europea.
Tenete conto però che tutto questo funziona se questi elementi hanno tutti un motore ed un carburante politico: non si estende il numero degli iscritti e delle sezioni senza una motivazione politica, senza una giustificazione politica, perché ci si impegna nella politica se emerge un interesse. Non è che abbiamo perso gli iscritti per caso, non è che le sezioni del M.F.E. italiano si siano ridotte da 200 a 20 o 30 perché non è stata fatta una politica organizzativa; al contrario noi ci siamo ridotti da 200 sezioni e 50.000 iscritti a quelli che siamo oggi perché dai partiti e dai governi è stata fatta una politica che ci ha isolati.
Non dimentichiamo che la politica dei partiti e dei governi era di credere beotamente (e benedetto sia Petrilli che almeno lo riconosce) che l’unificazione economica, nel senso di un’unione doganale, avrebbe portato quasi automaticamente alla federazione europea. Quando questo lungo periodo nel quale tutti hanno creduto queste cose è finito, cosa è successo? Che la situazione politica europea ora è più difficile, perché il problema reale oggi come allora è un altro. Quindi la ragione della contrazione della nostra organizzazione da 200 sezioni e 50.000 iscritti alla forza attuale, è questa: abbiamo tenuto la posizione giusta mentre i partiti tenevano la posizione sbagliata e la posizione sbagliata purtroppo era dominante e quindi noi siamo stati condotti all’isolamento.
Niente di male se si è condotti all’isolamento; io son ben felice di essere stato in isolamento in periodo fascista mentre avevo degli amici che credevano che si combatteva il fascismo entrando nel G.U.F. e facendo il fascista di sinistra. Io sono convinto di avere fatto bene a non entrare nel G.U.F. a fare il fascista di sinistra e che ho fatto bene e sono diventato un buon antifascista perché quando c’era il fascismo ho accettato l’isolamento. Durante il periodo del Mercato comune galoppante con l’idiozia dei partiti che erano diventati tutti marxisti senza saperlo — marxisti volgari beninteso — perché credevano che un fatto economico avrebbe prodotto da solo un fatto politico, noi siamo stati isolati e questo ci dà la forza di restare ancora sul campo.
Queste tre cose: 1) rafforzare gli iscritti ed estendere le sezioni, 2) riuscire a stabilire un contatto con le nuove realtà sociali che emergono nel paese e che sono di enorme interesse; 3) riuscire ad avere una influenza sulla politica europea dei partiti, tutte richiedono una posizione politica, un rapporto con il potere, una indicazione di potere, altrimenti non troviamo neanche la gente che fa queste cose. Non crediate che sia così facile trovare degli attivisti che organizzano le sezioni, non crediate che siamo ascoltati se andiamo a parlare ai gruppi: noi tentiamo di parlare ai gruppi. Voi sapete benissimo che abbiamo inaugurato una politica contro il servizio militare e per l’obiezione di coscienza. Ma quando noi tentiamo di condensare questi rapporti con questi gruppi estremamente interessanti, veramente cristiani (perché vogliono che sia riconosciuto per tutti gli uomini il diritto di non uccidere, che è il primo ed il più santo dei doveri cristiani) è chiaro che noi dobbiamo avere una alternativa politica da offrire loro.
Non è tanto importante che l’M.F.E. come tale disponga di una alternativa di potere: occorre però almeno che ci si muova nell’ambito di una tale alternativa, che oggi manca, tanto al federalista o all’europeista (che crede nell’Europa, ma che non vede come si possa fare l’Europa, e quindi non lavora), quanto a questa realtà pluralista che sta sorgendo in Italia — ma non solo in Italia — e che non può trovare, per definizione, una risposta a livello nazionale, nei partiti nazionali. La stessa osservazione vale — a maggior ragione — quando vogliamo stabilire contatti con i partiti, ai quali necessariamente dobbiamo indicare la risposta, l’alternativa di potere che, facendo avanzare la scelta federalistica, permetta di superare la crisi. Tutte queste indicazioni che sono giuste e che come dirigente accetto, in assenza di una alternativa di potere, sono «aria fritta». Questa è un’indicazione di metodo e mi sembra chiara: cioè, chi propone misure isolate deve proporle a livello di una politica; se non vengono proposte all’interno di una alternativa di potere, non sono altro che aspirazioni non realizzabili.
D’altro lato, per poterci muovere nell’ambito di una alternativa di potere noi siamo portati a dare innanzitutto un giudizio sulla situazione in cui siamo. Secondo me il periodo nel quale ci troviamo è caratterizzato dal fatto che le situazioni di politica europea non sono più relativamente isolate. Abbiamo alle spalle un lunghissimo periodo nel quale politica interna, europea e mondiale, pur essendo profondamente collegate, erano relativamente isolate; nel senso che chi faceva politica europea, poteva farla al riparo dell’ombrello americano, senza occuparsi della politica italiana, conservando un certo margine di azione: è la vita delle Comunità, in sostanza.
Questa situazione esiste ancora? A mio parere no. Tutto quello che mi stimola a proporre una radicale conversione di rotta è questo: non esiste più questo relativo isolamento nella politica europea rispetto alla politica italiana ed a quella mondiale. Allora è chiaro: noi nel passato avremmo potuto avere una funzione, una certa crescita, per lo meno un certo mantenimento dell’M.F.E. isolando il problema europeo ed astraendoci dal problema mondiale e da quello italiano: oggi ciò non è più possibile.
Del resto, oggi, non è veramente più possibile. Esaminiamo la situazione mondiale: non c’è più il Patto atlantico dei nostalgici dell’europeismo perché l’America non spinge più l’Europa ad unirsi! Ed allora noi cosa dobbiamo fare? Restare «atlantici» anche quando l’America non spinge più l’Europa ad unirsi? Ma che senso ha? Ricordatevi che quando Scelba ha sbagliato la valutazione politica in Italia, cioè non ha capito che veniva fuori un nuovo schieramento di forze e si è battuto ostinatamente per il vecchio schieramento, è stato un suicidio politico. Chi sbaglia la previsione politica strategica arriva al suicidio politico.
Allo stesso modo credo si debba avviare il discorso anche sulla situazione politica interna: l’abbiamo fatto, il dibattito è stato ampio, quindi non mi ripeto. Vorrei dire però che non mi sono convinto della fondatezza delle obiezioni che sono state qui presentate. Forse la formulazione che abbiamo usato nel testo può aver dato luogo a qualche equivoco: direi però che questi equivoci potrebbero rientrare attraverso una lettura attenta del testo, nel quale non si dice affatto che l’M.F.E. proponga, almeno nel quadro normale in cui l’idea viene recepita, la costituzione di un governo a sei (dal P.C.I. al P.L.I.): la frase testuale in cui emerge l’idea di un governo a sei dice: «…ciò comporta, di fronte ad una possibile situazione di emergenza, il superamento dello spirito di parte, che potrebbe condurre a governi Facta, e la ripresa dello spirito dell’unità antifascista delle forze democratiche e popolari, per rendere possibile, in caso di necessità, un governo di tutti i partiti costituzionali dal P.L.I. al P.C.I.».
Quindi questo è il contesto nel quale va affermata la nostra proposta e il suo scopo è semplicemente quello di dire: «visto che siamo in situazione di pericolo, bisogna impedire che quando il pericolo arriva la gente non sia preparata a fronteggiarlo, e per fronteggiarlo questo (governo di unità popolare) è ciò che ci vuole». È molto comodo oggi criticare i comunisti, però, chi ha 50 anni come me e ha sofferto e combattuto contro il fascismo sa benissimo che senza i comunisti non avrebbe fatto la repubblica italiana. Quando avvengono situazioni di questo genere ognuno fa le sue scommesse: i comunisti hanno fatto una scommessa: andiamo con i democratici e li freghiamo e i democratici hanno fatto un’altra scommessa: andiamo con i comunisti e li freghiamo; dopo tutto, dato che noi non siamo vicini alla Russia, la scommessa l’hanno vinta i democratici e persa i comunisti in questi termini.
A ciò va aggiunta ovviamente l’analisi del «completamento» europeo; del resto se si tenta di tradurre in formule d’azione queste situazioni nuove in cui politica mondiale, europea e interna vanno congiungendosi, si vede chiaro che si tratta di un’emergenza molto più ampia di quanto si pensa normalmente: si tratta dell’emergenza del C.L.N. italiano, a scala europea, perché sta per nascere o per non nascere l’Europa e tutte le forze politiche e le idee politiche riceveranno senso e direzione a secondo del modo in cui risolveranno questa situazione.
A me pare che in sostanza ci si debba avviare verso un’idea di questo genere, esponendola con più prudenza, riflettendoci ancora, ma tenendo fermo questo contesto, che non è certo quello della proposta di un governo a sei, come molti hanno creduto, bensì quello: «siamo in una situazione in cui un tale governo di unità popolare può divenire necessario».
Comunque se si approfondirà questo testo, si vedrà che siamo in una situazione in cui una alternativa di questo genere sarà necessaria anche dal punto di vista rigorosamente europeo, perché se noi riusciamo a fare la battaglia dell’Europa, se l’Europa riesce a fare la battaglia della sua vita — e la battaglia della sua vita è quella per la Costituzione — questo è il classico momento di emergenza, il classico momento costituzionale, il classico momento di unità popolare: non ci si illuda di fare uno Stato senza unità popolare. Quindi, a me pare che questo governo deve essere presentato con queste caratteristiche: 1) può venire una situazione di emergenza; 2) l’emergenza può essere affrontata solo facendo ricorso all’unità popolare; 3) bisogna non arrivarci così ciechi da escludere aprioristicamente quello che è uno degli apporti fondamentali dell’unità popolare (il partito comunista).
Tenete presente che la risposta moderata, vile, alla crisi europea, è quella confederale di Pompidou. Qual è nei confronti di Pompidou, nei confronti della confederazione, la nostra risposta? Dobbiamo affrontare questa situazione di emergenza in termini europei, giovandoci del fatto che i sindacati, il movimento operaio devono avere un ruolo nella costituzione dell’Europa: i cittadini e il popolo lo devono avere; Vogliamo questo o non lo vogliamo? Ci rassegnamo alla confederazione di Pompidou, che non dico esclude i socialisti, i sindacati, dico esclude i cittadini?!
La confederazione di Pompidou è il grande fascismo europeo al potere senza che noi sappiamo che è fascismo! I partiti lo sanno? Come facciamo a svegliarli? Io vorrei che fosse persino sbagliata questa proposta, ma almeno gettiamo un grosso, enorme sasso nello stagno, perché qui dormono tutti! La confederazione di Pompidou è fascismo! Tenete conto che quando il fascismo è arrivato già una volta in Europa, è arrivato in Italia con forme violente, in altri paesi con forme moderate. Majocchi aveva ragione di dire che la crisi è mondiale, però proprio nei termini dell’anello debole della catena: ad una crisi mondiale la Francia risponde con il presidenzialismo e l’Italia risponde come può… col fascismo, perché appunto è l’anello debole della catena dove soluzioni di conservazione stagnanti sono impossibili nel quadro democratico.
Quindi le indicazioni sono due: 1) preparare l’idea di un governo di emergenza e 2) far capire che ci vuole un governo di emergenza per affrontare la crisi europea. E qui non mi ripeto, perché Cavalli ha detto molto bene che questo governo di emergenza non può essere che europeo. D’altronde sentite: ragioniamo sì sulla coscienza umana; ma ragioniamo anche sulle cose. Quando c’è stata la Resistenza, tutti, compreso i badogliani, hanno fatto l’antifascismo. Hanno fatto l’antifascismo ceti sociali che oggi votano M.S.I., perché la situazione li forzava a fare dell’antifascismo.
Il terzo punto è questo: oggi abbiamo in Italia la crisi del governo, la crisi dell’autorità ed abbiamo in Europa la crisi europea. Il vertice si sa già che, dopo tante speranze, è una montagna che partorisce un topolino, quello che verrà fuori, senza che neanche Pompidou se ne renda conto, è la confederazione europea — questa cosa che è vile e quindi esce come una sconfitta, come una viltà. Bene, ma io vi chiedo, questo è capitato per caso o perché c’è stato uno schieramento di forze? Noi siamo sempre stati istituzionalisti, ma non siamo istituzionalisti perché crediamo che le istituzioni cascano dal cielo o vengono da sole, ma perché riteniamo che qualunque scelta politica è il frutto di un certo tipo di impegno e di un certo schieramento di forze.
Ora se abbiamo la crisi del centro-sinistra e se abbiamo la crisi della Comunità (la quale è un’organizzazione in transizione e in quanto tale deve evolversi continuamente per vivere e finché lo ha fatto, ha potuto far pensare al mondo che l’Europa stava avviandosi verso la federazione), quali sono i motivi? Ma per le forze che stanno dietro al centro-sinistra, per le forze che stanno dietro alla Comunità! La Comunità non riesce a schierare con sé i cittadini! C’è da stupirsi che entri in crisi? C’è da stupirsi che ceda il passo alla confederazione o ceda il passo al capitale americano? C’è da stupirsi che non riesca a presentare le istanze dei lavoratori? Ma quando mai è stato possibile fare una politica democratica, senza gli elettori?
Al punto a cui è arrivata l’avventura europea non può progredire senza gli elettori. È quindi fatale che abbiamo la crisi della Comunità e la risposta confederale. Cioè, è in causa un certo schieramento di forze, e chiedere le elezioni europee, chiedere le espressioni federali, è chiedere un altro schieramento di forze: quello precisamente capace di far avanzare l’alternativa federalistica. Lo stesso vale per l’Italia: se c’è crisi del centro-sinistra è perché certe forze che disponevano di certe possibilità storiche, le hanno esaurite e non ne hanno altre. Quindi non possiamo ragionare che in questi termini: constatiamo che ci sono stati dei fallimenti, constatiamo che l’Europa è in ribasso, che tutti questi grossi rilanci europei, appoggiati alle formule attuali, non funzionano. A sua volta l’Italia, appoggiata al centro-sinistra, è retrocessa invece di avanzare: che si dica tutto quello che si vuole però mi si spieghi perché ancorata al centro-sinistra l’Italia è retrocessa invece di avanzare.
Quindi bisogna pensare a nuovi schieramenti di forze, bisogna pensare a nuove soluzioni; se non si ha il coraggio di far questo, si mette veramente la testa sotto il cuscino: i vecchi schieramenti di forze europee ed italiane ci hanno dato quello che potevano: possiamo considerarli persino positivi, perché lo schieramento di forze europee ci ha portato alla soglia della lotta tra la confederazione e la federazione, lo schieramento del centro-sinistra ha tenuto attive in Italia tutte le forze sociali, ivi compresa una certa evoluzione del P.C.I. Quindi se noi abbiamo il coraggio di andare avanti possiamo considerare questo passato come un’eredità positiva, ma il guaio è proprio questo, il passato serve se ci serve a fare passi nuovi nel futuro, quando certe imprese sono finite… bisogna saper riconoscere le cose finite. Ora se ci sono due cose finite sono: la Comunità nella vecchia formula e l’Italia che abbiamo avuto negli ultimi dieci anni.
Queste sono le mie impressioni generali, tuttavia oggi mi pare che il dibattito non sia maturo. Nonostante il documento che vi ho mandato fosse breve, credo che sia servito per evitare una relazione completamente sul «nuovo». Però non è stato sufficiente evidentemente per fare avanzare un dibattito approfondito; quindi la mia proposta è che la Commissione italiana si riunisca molto presto di nuovo per prendere una decisione.
Però io vorrei dire una cosa molto chiara: io personalmente sarò magari anche un esaltato, ma sono legato moltissimo all’idea di che cosa era Gobetti e che cosa sono stati i partiti prima che venisse il fascismo: io condivido parola per parola tutto quello che ha detto Cavalli: «quando vedremo che il pericolo sarà grave, non sarà più possibile controbatterlo». Nella presente situazione italiana, io non voglio fare il pre-fascista: quindi io sono molto legato all’approfondimento delle prospettive che, con tutte le attenuazioni tattiche che risulteranno necessarie, permettano al M.F.E. di non subire una situazione pre-fascista. In una situazione come questa, io non mi sento di avere una responsabilità dirigente, se non è una responsabilità di forte, deciso ed assoluto impegno antifascista.


[1] Si riporta qui di seguito il testo cui si riferisce Albertini, inviato prima della riunione a tutti i membri della C.I.:
«Le elezioni hanno riconfermato che in Italia la democrazia, grazie alla maturità del movimento operaio, alla volontà dei ceti borghesi di restare nell’ambito della costituzione e all’antifascismo della cultura militante, è largamente maggioritaria. Ma il sistema politico italiano impedisce di tradurre la volontà popolare in una efficace azione di governo, di legislazione e di alternativa con la formazione di chiare maggioranze e di chiare opposizioni.
I partiti si trovano pertanto di fronte alle stesse difficoltà del passato, e stanno riproducendo la situazione che ha portato allo scioglimento anticipato delle Camere e alla ricomparsa del pericolo fascista. Se non sarà superata, questa situazione produrrà conseguenze politiche, economiche e sociali sempre più gravi.
È una costante lezione della storia che il fascismo non ha bisogno di ottenere una maggioranza elettorale per conquistare il potere. È una costante lezione della storia che il fascismo deve essere fermato prima che dia luogo ad una vera alternativa di potere, che troverebbe la democrazia troppo debole per difendersi.
Per evitare di ricadere nel prefascismo bisogna pertanto essere pronti a sventare la minaccia prima che sia troppo tardi. Ciò comporta, di fronte ad una possibile situazione di emergenza, il superamento dello spirito di parte, che potrebbe condurre a governi Facta, e la ripresa dello spirito dell’unità antifascista delle forze democratiche e popolari, per rendere possibile, in caso di necessità, un governo di tutti i partiti costituzionali dal P.L.I. al P.C.I.
Questa prospettiva può sembrare assurda nel quadro italiano. Ma l’Italia non è isolata. La legislatura appena iniziata coincide con la fine del periodo transitorio del Mercato comune, e con la prima fase della costruzione dell’unione monetaria, economica e politica dell’Europa occidentale. Questo compito ha carattere costituzionale e può essere affrontato solo con l’orientamento costituzionale dell’unità popolare. Esso comporta l’intervento diretto del popolo europeo con il mezzo dell’elezione europea. Esso comporta pertanto, con lo schieramento europeo dei partiti, il superamento dei limiti storici più gravi della sinistra e della destra italiane, limiti che alimentano il pericolo fascista ma dipendono ormai solo dalla anacronistica sopravvivenza del quadro italiano esclusivo di lotta politica nel contesto storico dello sviluppo di una economia europea e di una società europea.
Il primo passo per affrontare questo compito in Italia sta nell’approvazione del progetto di legge di iniziativa popolare allo scopo di dare inizio alla mobilitazione europea del popolo. Questo intervento del popolo costituirebbe il primo successo concreto nella direzione della democrazia europea. Per questa ragione esso costituirebbe anche il primo passo effettivo per una svolta nell’equilibrio mondiale, nell’equilibrio europeo e nell’equilibrio italiano».
[2] Qui Albertini si riferisce alla nota «Sul tempo della ratifica della C.E.D.», dell’1-3-1954: «…il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti o scomparire…»; e ancora «…siamo sicuri che fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forze sufficienti ad impedire l’unione, facendo cadere gli uni nell’orbita nord-americana e gli altri in quella russa?».

 

 

 

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