Anno XXXIII, 1991, Numero 3 - Pagina 240
L’ACCENTRAMENTO DELLA COMUNITA’ EUROPEA
Alla vigilia dell’entrata in vigore del mercato unico, la Comunità sta assumendo sempre più, per effetto dei regolamenti e delle direttive che armonizzano norme e standards nei più diversi settori, le caratteristiche di un mostro istituzionale che cumula in sé i vizi dell’accentramento, dell’impotenza e dell’antidemocraticità. Mentre essa si dimostra del tutto incapace di agire di fronte ai paurosi fenomeni disgregativi che si stanno manifestando nell’Europa dell’Est e che minacciano l’intero equilibrio del continente, un numero crescente di aspetti della nostra vita quotidiana viene regolato, spesso anche in modo minuzioso e invadente, da un’autorità europea di cui i cittadini conoscono solo vagamente l’esistenza, che essi non sentono come il loro governo e sulla quale non possono esercitare alcun controllo democratico. La Comunità pretende oggi di intervenire in settori che sono sottratti alla competenza federale negli stessi Stati Uniti, cioè in uno Stato che è ormai da tempo avviato sulla strada dell’accentramento. Ne consegue tra l’altro che i parlamenti nazionali vengono spossessati delle loro prerogative, e quindi della sostanza della loro legittimità, senza che parallelamente aumentino le prerogative, e quindi la legittimità, del Parlamento europeo.
Ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale, che offre facili argomenti ai nemici dell’Europa, a cominciare dal governo britannico; e che non è compresa dai più nella sua vera natura perché la crescente armonizzazione perseguita quotidianamente dalla Commissione e dal Consiglio dei Ministri, con la collaborazione del Parlamento europeo, viene identificata da molti sinceri europeisti con lo stesso processo di integrazione europea. La capacità decisionale di un’istituzione viene confusa con l’estensione delle sue competenze: due cose che invece sono diverse, anche se è ovvio che un qualsiasi meccanismo decisionale non può operare che in una sfera di competenze definita. La verità è che la capacità di prendere e di eseguire decisioni con rapidità ed efficacia – che in democrazia è strettamente legata al consenso, cioè all’esistenza di un canale diretto tra governati e governanti – può esplicare tutti i suoi benefici effetti anche nel quadro di competenze rigorosamente limitate; mentre un’ampia estensione delle competenze è perfettamente compatibile con un meccanismo decisionale lento e inefficace. In un’Unione europea democratica, in particolare, il principio federalista dell’unità nella diversità sarebbe realizzato nel modo più compiuto se le competenze dell’Unione si limitassero al governo della moneta (e in futuro della politica di sicurezza) e a quei soli aspetti degli altri settori per i quali fosse strettamente indispensabile una regolamentazione valida per l’ intero territorio dell’ Unione.
La verità è che nel processo di integrazione europea l’armonizzazione è un surrogato dell’unità politica, cioè di un vero potere democratico. Si armonizza perché non si sa, o non si vuole, unire. I governi europei, non volendo cedere la sovranità, cioè attribuire ad istituzioni sovrannazionali il potere di prendere, quando occorra, decisioni valide per tutti i cittadini della Comunità, ed essendo per converso permanentemente confrontati con problemi di dimensioni europee che richiedono risposte europee, non trovano altra via d’uscita dall’impasse che quella di rendere sempre più omogeneo il quadro legislativo nel quale operano le istituzioni nazionali. È così che, nella mente di molti sinceri europeisti, al modello della Federazione europea come Stato forte e decentrato (con « poteri limitati ma reali ») si va sostituendo quello opposto di una Comunità debole e accentrata.
Va notato che questo modello è da respingere non soltanto in quanto burocratico e inefficiente, ma anche perché semina di ostacoli il cammino dell’allargamento della Comunità ai paesi dell’Est. Perché l’impatto necessariamente traumatico dell’ingresso – ormai ineludibile e urgente – degli ex-satelliti dell’Unione Sovietica possa essere assorbito senza danni dalla Comunità è infatti necessario, da un lato, che la struttura istituzionale di quest’ultima sia forte e democratica; e, dall’altro, che non si cerchi di imporre a realtà economico-sociali destinate a rimanere per decenni profondamente diverse da quelle dei paesi dell’Europa occidentale norme e comportamenti ai quali esse non sono e non saranno per lungo tempo in grado di adeguarsi.
Certo è che oggi, nel quadro dei Dodici, non esistendo l’unità politica, il ruolo di supplenza svolto dall’armonizzazione è indispensabile. Essa contribuisce a rendere i comportamenti degli operatori economici e dei soggetti sociali sempre più interdipendenti e quindi a garantire a livello della società civile quella coesione che la politica non sa dare per la mancanza di una vera dialettica democratica nel quadro europeo. In questo modo, tra l’altro, essa rende sempre più stridente e manifesta l’insensatezza della pretesa di governare un’economia e una società sempre più strettamente unite con uno strumento istituzionale di tipo confederale, come tale strutturalmente incapace di prendere decisioni importanti. Ma il fatto è che ormai si tratta di una contraddizione che non ha più alcun bisogno di essere evidenziata: l’interdipendenza a livello della Comunità ha da lungo tempo superato il grado al quale l’unità politica diventa insieme possibile e necessaria. La decisione di realizzarla non dipende quindi più dalla creazione di certe condizioni obiettive, che sono largamente acquisite, ma soltanto dalla volontà dei governi e delle forze politiche. Ne consegue che l’estensione ulteriore ed accelerata dell’armonizzazione non avvicina l’unità politica ma, in quanto la surroga, la allontana.
Per converso, quanto più l’unità vera si allontana, tanto più cresce la necessità di estendere il campo dell’armonizzazione, per preservare, avvalorando un’idea falsa di unità, la necessaria coesione della Comunità. L’unità politica dell’Europa è destinata quindi ad essere tanto meno pluralistica quanto più viene rinviata nel tempo. Lo hanno ben capito i Länder tedeschi, che già, in questa prospettiva, avevano mosso obiezioni di fondo allo stesso progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo nel 1984, e che ora assistono con crescente preoccupazione all’ assunzione da parte della Comunità, senza il loro consenso, di prerogative di loro competenza. Il loro disagio deve essere considerato con grande attenzione perché esso può avere come conseguenza una grave perdita di consenso per l’obiettivo dell’Unione europea. Ma è possibile tenerlo sotto controllo soltanto se ci si rende conto che esso ha radici reali, e che è su queste radici che bisogna agire.
La risposta che si tende comunemente a dare a questo disagio consiste nella proposta di creare a livello europeo una sorta di Camera delle Regioni con poteri consultivi o, in prospettiva, con poteri di codecisione limitati alle deliberazioni suscettibili di incidere sulla sfera di competenza delle regioni o dei Länder.
Ma anche questa risposta non è che un riflesso del carattere confederale, cioè interstatale, della Comunità nella sua struttura attuale. Si tenta di distogliere l’attenzione dal fatto che il processo di integrazione europea sta di fatto svuotando di contenuto le autonomie regionali e locali là dove esistono e ne impedisce lo sviluppo dove non esistono, creando un organo farraginoso e corporativo che non farebbe che appesantire ulteriormente l’attuale complicato e inefficiente meccanismo decisionale della Comunità senza garantire la minima tutela alle autonomie regionali e locali.
Peraltro i federalisti si devono guardare dalla tentazione di dare una risposta a questo problema ricorrendo al nebuloso modello dell’« Europa delle regioni », cioè di una federazione che « salti » il livello nazionale, fondando le istituzioni federali direttamente sul livello regionale. Al di là della difficoltà, di per sé decisiva, di rappresentare democraticamente a livello europeo un numero elevatissimo di unità territoriali di diverse e comunque piccole dimensioni, la realizzazione di questo modello comporterebbe, proprio a seguito dell’abolizione del livello nazionale, il trasferimento di tutti i problemi di dimensione più vasta di quella regionale direttamente al livello europeo. La sua realizzazione comporterebbe quindi la crescita incontrollata delle competenze e dell’apparato burocratico di quest’ultimo. L’« Europa delle regioni » sarebbe proprio il superstato accentrato che molti paventano, perché entità territoriali di ridotte dimensioni, il cui potere sarebbe conseguentemente assai limitato, contrapposte ad un potere federale di dimensioni continentali, non potrebbero dar luogo a quel sistema di freni e contrappesi che fa di ogni ordinamento genuinamente federale il quadro istituzionale ideale per garantire la libertà e il governo della legge.
La verità è che i problemi vanno affrontati e risolti nel quadro in cui si pongono: quelli europei nel quadro europeo, quelli nazionali nel quadro nazionale, quelli regionali e locali nel quadro regionale e locale. Si tratta quindi di dare finalmente all’Europa una vera unità federale, nella quale il territorio sia articolato in vari ambiti di autogoverno democraticamente legittimati, ad ognuno dei quali la costituzione attribuisca a titolo originario il potere di affrontare i problemi che in esso si pongono.
In questo modello di Stato federale il livello nazionale ricupererebbe la sua piena legittimità e perderebbe ogni connotazione negativa non soltanto perché sarebbe privato dell’attributo della sovranità, ma anche perché avrebbe esso stesso natura federale, in quanto federazione di regioni (il che risolverebbe anche il problema della difesa degli interessi regionali – e locali – contro possibili ingerenze del potere europeo, ma in modo indiretto, per il tramite appunto del livello nazionale rappresentato nel Senato, che insieme li sosterrebbe con ben altra forza e ne assicurerebbe la mediazione in un quadro di compatibilità più vasto).
Sarebbe questa la sola realizzazione effettiva del principio di sussidiarietà, la cui esistenza è stata recentemente scoperta da molti politici europei e che ora è usato per giustificare anche i disegni meno confessabili, e in particolare quello di mantenere il potere reale nelle mani degli Stati, cioè di perpetuare nella sostanza l’attuale struttura istituzionale della Comunità. Si tratta ancora una volta di un effetto della confusione, spesso alimentata ad arte, tra estensione delle competenze e ripartizione del potere reale.
In verità il principio di sussidiarietà, in forza del quale ogni decisione di governo deve essere presa nel quadro territoriale più ristretto nel quale possono essere risolti i problemi che essa deve affrontare, ha un senso esclusivamente nell’ambito di uno Stato federale, e non deve essere usato come pretesto per impedire che uno Stato federale venga creato. Né esso deve essere addotto per difendere, nei confronti della Comunità, le prerogative di Stati nazionali che, come è il caso per la Francia o per la stessa Gran Bretagna, rifiutano da parte loro qualsiasi forma di decentramento a favore delle regioni e degli enti locali. Come, per converso, esso non deve essere preso a pretesto per giustificare rivendicazioni regionalistiche in un quadro che non tenga conto della priorità dell’obiettivo dell’unificazione politica dell’Europa: perché, fino a che il principio della coincidenza tra Stato sovrano e nazione, comunque questa venga definita, non è messo radicalmente in questione, i movimenti regionalistici sono destinati a degenerare nel separatismo e quindi a riprodurre, con accresciuta virulenza, i mali dell’accentramento in un ambito territoriale più ristretto, e in quanto tale più asfittico ed opprimente.
Il federalismo è contemporaneamente affermazione di autonomia e di solidarietà. Esso si fonda sull’indipendenza delle comunità locali e regionali – da esercitarsi da ciascuna nell’ambito della propria sfera – ma la deve garantire instaurando il regno della pace e del diritto in un quadro prima europeo e poi mondiale. Che oggi la Comunità stia marciando in questa direzione è tutt’altro che certo.
Francesco Rossolillo
Anno XXXIII, 1991, Numero 1 - Pagina 55
EUROPA E STATI UNITI LA LEZIONE DEL GOLFO
Occorre uno sforzo enorme e continuo per rendere trasparente ciò che si nasconde dietro la complessità della storia. La trasparenza è difficile perché ciò che è complesso è difficile da capire, ma in guerra tutto è più difficile e più complesso perché in tal caso più che mai il pensiero politico e sociale è irretito dall’antico demonio del nazionalismo.
E’ mistificatoria ogni interpretazione della storia e degli eventi che muove dal punto di osservazione nazionale e sono, di conseguenza, inadeguate le soluzioni proposte: un mondo visto come mosaico delle varie componenti nazionali è un’immagine che non avrà mai e in nessun caso alcun rapporto diretto con la realtà. Nulla deforma il quadro reale degli eventi più che considerare il proprio paese come il centro dell’universo e vedere tutte le cose soltanto a partire da questo falso punto fisso: si continua a leggere la storia sulla base della vecchia teoria «tolemaica» del naziocentrismo. Così si spiegano le guerre supposte vinte e le successive paci certamente perdute.
Queste valutazioni deformanti sono state prevalenti nell’analisi di un punto fondamentale delle vicende del Golfo (e perciò non hanno certamente contribuito a renderle comprensibili, né costituito una buona premessa per il futuro): il rapporto tra il ruolo svolto dagli Stati Uniti e il ruolo svolto dall’Europa, per essere più precisi dalla Comunità europea. Oltre alle varie posizioni nazionalistiche, sono emerse quelle del partito americano, del partito occidentale, del partito arabo, ma non ha trovato spazio adeguato sulla stampa quella del «partito europeo» per il semplice fatto che i vecchi, presunti interessi nazionali centrifughi hanno di fatto lacerato la fragilissima e incompleta tela istituzionale comunitaria, che per gli aspetti strategici è praticamente inesistente.
Poiché il ruolo degli USA e della Comunità è fondamentale per costruire la pace e il nuovo ordine mondiale, per rifondare l’ONU e assicurare la transizione alla democrazia ed allo sviluppo economico di quasi tre quarti dell’umanità, val la pena, ora che il clangore delle armi è cessato, di esaminare alcuni problemi che sono emersi proprio in seguito e in relazione alla guerra del Golfo: le ragioni della debolezza della risposta dell’Europa comunitaria alla emergenza del Golfo; il rapporto tra pax americana, equilibrio mondiale e struttura istituzionale e sociale degli Stati Uniti; la necessità di un governo europeo e di una sua efficace presenza nel nuovo assetto mondiale; i mezzi per colmare questo «deficit d’Europa» nel mondo.
La frammentaria iniziativa politica da parte della Comunità europea nella tragica crisi del Golfo e la sostanziale debolezza politica che sorregge le soluzioni prospettate a fronte dei problemi aperti – quelli di sempre, più i nuovi aperti dalla guerra, tra i quali il dramma dei Curdi – sono la dimostrazione più evidente del fatto che l’attuale contesto istituzionale è del tutto inadeguato: di fronte all’emergenza, la prevalenza del Consiglio europeo su ogni altra istituzione comunitaria porta soltanto alla ripresa di comportamenti ispirati esclusivamente agli interessi nazionali di breve periodo ed impedisce il manifestarsi di una politica europea unitaria; il che espone gli Europei ad accuse, minacce e ricatti e spinge i singoli paesi all’omertà reciproca ed a posizioni differenti, col risultato di un’azione collettiva del tutto irrazionale e perdente per tutti: i paesi presi singolarmente, l’Europa, gli alleati, il mondo intero.
L’ONU deve prendere decisioni di pace o di guerra e puntualmente il piano francese contrasta con quello inglese, col risultato che passa il piano americano. L’Unione Sovietica prende l’iniziativa di pace e i Ministri degli Esteri dei Dodici riuniti a Lussemburgo l’accolgono con favore; qualche ora dopo, appena arriva la posizione della Casa Bianca, Francia e Gran Bretagna si contraddicono, allineandosi con gli Stati Uniti. A Londra non par vero di poter fare il pilastro europeo di questi ultimi e così, complice la guerra, ristabilire la sua special relationship; ma essa non riesce neppure ad avere la condirezione delle operazioni militari.
Il generale De Gaulle si è rivoltato nella tomba: la force de frappe francese al comando degli Americani! Quale fatto è più emblematico, riguardo alla crisi di identità nazionale, delle dimissioni di Jean-Pierre Chevènement? L’opinione pubblica francese è cosciente del ruolo marginale degli Europei, a causa delle loro divisioni, e ritiene che il conflitto israelo-palestinese è assai più importante della sorte del Kuwait, sa che il paese avrà ben scarso peso nel riassetto post-bellico e Dumas afferma che la Francia può discutere solo con chi ha soldati nel Golfo! Ora sono lì ad aspettare il guidrigildo, ma quasi sicuramente Francia e Gran Bretagna usciranno da questa crisi peggio che nel 1956, pur non essendo più considerati colonialisti, nel senso che singolarmente perderanno del tutto la capacità di avere un’influenza residua sulle vicende dell’area.
La Weltpolitische Abstinenz della Germania, il suo isolazionismo monetario non sono soltanto i segni dell’orgoglio nazionalista, del ripiegamento sui problemi interni, perché nulla possa turbare il processo di unificazione; come non cogliere in questo distacco dalla politica mondiale anche la difficoltà del paese a superare la contraddizione tra il gigantismo economico e il nanismo politico?
Quanto all’Italia, i fatti non corrispondono alle affermazioni. Essa riconosce ufficialmente la «troppo timida integrazione politica europea», conferma l’impegno per la convocazione della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, afferma che d’ora innanzi le Nazioni Unite non potranno avere due pesi e due misure, chiede la riforma dell’ONU (in modo ambiguo: un unico seggio per la Comunità o un seggio anche per l’Italia?), ma nessuna concreta iniziativa politica viene assunta a livello europeo. Dopo il risultato del referendum a favore del mandato costituente al Parlamento europeo e dopo le vicende del Golfo, quali sono le proposte italiane per le due Conferenze intergovernative in corso sull’Unione economica e monetaria e sull’Unione politica?
L’Europa ha perduto la battaglia, ma non è sconfitta. Né può suicidarsi, perché senza il suo rientro nella storia i problemi della pace, della guerra, della democrazia e dello sviluppo non avrebbero soluzione. L’Unione europea dei federalisti, con una presa di posizione, ha confutato l’argomento secondo cui la mancanza di una politica comunitaria chiara durante il periodo precedente l’intervento militare nel Golfo dimostrerebbe che l’obiettivo di istituire un’Unione europea con competenze in materia di politica estera e della sicurezza sia soltanto un’illusione. Al contrario essa ha dimostrato ancora una volta che, laddove la Comunità è dotata di istituzioni e di poteri definiti in modo chiaro, un’azione è stata intrapresa.
L’assenza di istituzioni democratiche nei settori della sicurezza, della politica estera e della difesa ha condotto l’Europa alla confusione e all’impossibilità di definire una sua posizione. Si è piegata ad una strategia imposta in un altro quadro, si è fatta trascinare senza poter controllare il percorso e rischia ora di avere il ruolo riservato all’intendenza. Ma se nelle grandi decisioni l’Europa sarà assente, i prossimi tempi saranno forieri di emergenze ancora più acute: la governabilità del mondo non migliora passando dal sistema bipolare ad uno unipolare, ma costruendo ancor più velocemente il sistema multipolare attorno all’ONU.
Dunque è necessaria l’Unione politica europea. Come arrivarci, per quale via, qual è il punto di partenza?
Gli Stati Uniti d’America non sono fatti per l’egemonia. E, lasciati soli a se stessi, trasformerebbero ogni problema internazionale in una sorte di ordalia, progressivamente distruggendo il oro stesso sistema e e conducendo il mondo nel baratro. Nell’attuale situazione mondiale, caratterizzata da una dinamica carica d instabilità, prendendo a prestito l’immagine di Ilya Prigogine si può dire che «il battito d’ali di una farfalla in qualunque parte del mondo può provocare un leggero alito, il quale, a poco a poco, diventerà un uragano che si scatenerà sulla Casa Bianca».
Con l’URSS che ha bisogno del disarmo per affermare la perestrojka, e 1’80% dell’umanità che aspetta lo sviluppo economico, ci sarà sempre qualcuno da tenere a bada e il nuovo ordine politico mondiale che appena si intravede sarebbe messo a repentaglio se la risposta degli USA fosse quella egemonica: per questa via l’edificio europeo è crollato due volte in questo secolo; per questa via crollerebbe l’edificio americano trascinando con sé il mondo intero.
Al contrario di quanto pensa Francis Fukuyama, la storia non è finita e il mondo, ancor meno gli Stati, «non si governa con i Pater noster». E gli Americani, quando separano la realtà dalla retorica, sanno bene che il potere nel nuovo ordine mondiale deve essere ripartito, e la forza sottoposta al diritto: conoscono Montesquieu, quando ammonisce che «un grande impero presuppone un’autorità dispotica» e se c’è qualcosa che è veramente incompatibile con il sistema americano, in termini strutturali, con i suoi fundamentals federalistici – istituzionali, sociali e culturali – è il dispotismo liberticida.
Nel saggio ottavo de Il Federalista, Alexander Hamilton riconosce l’influenza decisiva della politica estera su quella interna: «... E’ indispensabile una costituzione federale, cioè il superamento della sovranità assoluta degli Stati americani, ...proprio onde evitare le influenze autoritarie ed accentratrici che deriverebbero da una situazione di anarchia internazionale...». La politica di potenza, nella saggezza dei fondatori, va di pari passo con la progressiva abolizione delle libertà all’interno dello Stato tanto più accentuata quanto più esposta è la posizione dello Stato stesso: «…persino le nazioni cui sta più a cuore la libertà ricorreranno, per raggiungere sicurezza e distensione, ad istituti che potrebbero compromettere i loro diritti civili e politici. A lungo andare, pur di ottenere una certa sicurezza, esse diverranno propense a correre il rischio di divenire meno libere».
L’isolazionismo statunitense ha queste radici e ogni ritardo europeo aggrava questo dilemma americano. Gli Stati Uniti possono vivere nel disordine mondiale ancor meno degli altri paesi e quando vengono lasciati soli a difesa di principi grandi e nobili, vanno incontro a disastri come il Vietnam. Hanno bisogno del «Lusitania» o di Pearl Harbor per uscire dall’isolamento, e quando la «minaccia rossa» diviene permanente comprendono che occorre creare il pilastro europeo: i loro leaders, come John F. Kennedy, quando hanno la grande visione della storia, sanno che la vera sfida con l’Europa è l’equal partnership.
Del resto il riferimento ultimo delle sentenze della Corte Suprema è il Bill of Rights che sta per la difesa della libertà dei cittadini nei confronti della costituzione, che si preoccupa invece soprattutto di far funzionare lo Stato. E’ possibile che una democrazia il cui leader deve essere eletto ogni quattro anni e si ritira dopo al massimo otto anni, possa concepire un progetto egemonico? Certamente Zio Sam non va alla guerra per niente, ma la componente ideale, da Woodrow Wilson a George Bush, è prevalente. Da sponde opposte, William Fulbright ed Henry Kissinger concordano sul fatto che la sicurezza nasce da larghe intese e da un solido equilibrio strategico, che la dominazione non è compatibile coi valori americani, che oggi in particolare gli Stati Uniti non hanno neppure le risorse per tentarla e che comunque il fatto centrale è che l’egemonia
americana non potrebbe durare.
Come l’Empire Settlement Act del 1922 non fermò l’indebolimento strategico ed economico britannico, né la Conferenza imperiale del 1926 con la creazione del Commonwealth, così l’eventuale ipertrofia imperiale americana si scontrerebbe con i rendimenti già da tanto tempo decrescenti delle obbligazioni militari che gli Stati Uniti hanno nel mondo. D’altra parte, se la risposta alla contraddizione fondamentale tra l’interdipendenza globale e la realizzazione della libertà e della democrazia nel mondo da un lato e la presenza di centottanta Stati nazionali dall’altro fosse di tipo imperiale-egemonico, l’egoismo nazionale americano aprirebbe la strada alla fine dell’umanità.
Per rendersene conto basta riflettere, per restare all’era moderna, su Equilibrio o egemonia di Ludwig Dehio o su The Rise and Fall of the Great Powers di Paul Kennedy: ogni aspirazione egemonica all’interno del sistema degli Stati, da Carlo V a Hitler, è fallita. Occorre perciò superare l’anarchia internazionale per eliminare la ridice fondamentale delle tendenze all’autoritarismo ed al totalitarismo, altrimenti la continua tensione tra tentativi egemonici di un polo e reazione degli altri per ristabilire l’equilibrio condurrebbe al collasso nucleare mondiale.
Le sovra-estensioni, militare e monetaria, incontrano gli stessi limiti: il blood sharing, che diventa nel primo caso negativo, e il paradosso di Triffin nel secondo. Ognuno dei grandi poli mondiali attuali – USA, URSS, Cina, Giappone, Europa – e potenziali – India, paesi arabi, paesi sudamericani, Africa – deve fare i conti con i vecchi dilemmi dell’ascesa e del declino, con l’instabile ritmo della crescita produttiva e dell’innovazione tecnologica, con i mutamenti della scena internazionale, con la spirale dei costi e l’alterazione permanente di ogni equilibrio e nessuno di essi regge o reggerà alla divaricazione tra sistemi militarmente sovraesposti, le cui economie sono destinate a logorarsi (Stati Uniti e Unione Sovietica) e dinamismo economico che premia chi non è strategicamente egemone (Germania e Giappone).
L’ONU è senz’altro una istituzione imperfetta, ma il cammino verso il governo mondiale è una necessità. Ad esso si arriva «alla Popper», attraverso tentativi ed errori, solo però se si lascia la porta aperta al futuro e se l’Europa è capace di giocare il suo ruolo di battistrada e modello per le altre aree.
La pace nel Medio Oriente non può essere gestita solo da Bush, perché essa ha implicazioni che vanno al di là del ruolo americano in questo caso specifico e che riguardano i rapporti tra Occidente e Islam e tra Nord e Sud, la distensione, il futuro di Israele e l’unità del mondo arabo, la trasformazione in senso democratico dell’ONU. Gli Stati Uniti devono provare che non è vero che non è stata una guerra dell’ONU, e quindi che anche la pace deve essere dell’ONU. Le proposte Bush-Baker per il Medio Oriente hanno un senso se sono affiancate ed unificate con un «Piano di pace europeo per il Medio Oriente», per togliere ad esse il sospetto che si tratti di problemi di petrolio, di egemonia americana.
Con questa premessa dalla crisi può uscire un’ONU più forte e più democratica, cioè gli Stati Uniti possono vincere la guerra; diversamente tra non molto essi perderebbero la pace. Non vi può essere nessun nuovo ordine mondiale con un imperatore al vertice e la piramide dei vassalli e valvassori fino ai servi della gleba. E’ finita l’era dei giganti solitari. Democrazia politica e liberalismo economico sono punti di riferimento universali, ma rimarranno tali e si realizzeranno in tutto il mondo solo se non saranno considerati vuote parole.
A tal fine occorre impedire che gli Stati Uniti siano costretti ad assumersi la responsabilità di conservare l’equilibrio precario esistente. Occorre che l’Europa assuma la responsabilità storica di collaborare con loro per la nascita di un equilibrio nuovo, pacifico, democratico e progressivo, e per la riforma delle Nazioni Unite.
Schuman, il 9 maggio 1950, proponendo la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, aveva capito che la «messa in comune» dei due beni strategici di Francia e Germania avrebbe assicurato immediatamente la prima tappa verso la Federazione europea. Monnet, ispiratore di tutto, aveva capito anche che non si può agire su linee generali partendo da concetti vaghi e pretese in cui il sapore nazionalistico prevale; occorre concentrarsi su un punto strategico che determina tutto il resto.
Qual è oggi il punto strategico che rilancerebbe il processo di unificazione europea e contemporaneamente il rafforzamento dell’ONU?
E’ sempre più chiaro che il collegamento tra Unione economica e monetaria e Unione politica è solido e stretto, come dimostra l’avanzamento dei lavori delle due conferenze intergovernative. Il Parlamento europeo ha approvato in dicembre la risoluzione Colombo per l’Unione europea, che pone le basi di un progetto di Costituzione. Le proposte franco-tedesche per una politica europea di sicurezza apportano ulteriori contributi validi, Jacques Delors ha fatto a Londra proposte sull’impegno dei Dodici per la difesa e la politica estera comune. Il mandato costituente al Parlamento europeo e la codecisione Parlamento-Consiglio sono sul tavolo delle forze politiche. L’idea di costruire l’Europa partendo solo dal business o comunque aspettando che il processo funzionalistico dia tutti i suoi frutti va sempre più ridimensionandosi anche per i tempi lunghi che sembra comportare.
Eppure tutto sembra fermo. Cosa manca? Manca la visione dell’assetto finale. Il braccio di ferro Bonn-Parigi sull’Europa delle monete sottintende ben altro. I Francesi pensano che nella sua immensa maggioranza la popolazione tedesca oggi è priva delle ambizioni delle generazioni precedenti (la scelta di impegnarsi nel Golfo solo sul piano finanziario è caratteristica al riguardo). Ma questa «mancanza d’animo», come dice Günther Grass, non può durare per sempre: la potenza economica genera appetiti. In fondo è legittima la richiesta della Germania di diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU: «No taxation without representation».
Ma quando Mitterrand parla, lo fa per ribadire che il nuovo mondo continueranno a forgiarlo i vincitori della seconda guerra mondiale! Così la miopia francese ignora l’Europa e produce l’arroccamento attorno alla force de frappe; di conseguenza la Germania aspetta tutti al varco del Deutsche Mark.
In realtà la nuova intesa storica europea sta nel suicidio monetario del marco contro il suicidio del seggio francese permanente all’ONU, entrambi a favore dell’Unione europea. Se Francia e Germania rinunciano oggi ad offendersi reciprocamente usando il marco e il seggio all’ONU, come hanno fatto quarant’anni fa rinunciando ad usare il carbone e l’acciaio in termini strategici, quella visione politica diviene chiara e la potenza economica dell’una e l’arsenale militare dell’altra, privi del loro prestigio malefico, si trasformano in garanzia di pace.
E si può scommettere fin da ora che anche la Gran Bretagna, dietro le nebbie della Manica, prima o poi si accorgerà che il clima è cambiato. Tutto si rimetterebbe in moto nella giusta direzione con l’Unione europea come prima tappa verso una nuova organizzazione del mondo.
Questa intesa cambia il funzionamento di tutto il sistema politico mondiale, avvia di fatto la rifondazione dell’ONU, crea un equilibrio al quale altri sono costretti a prendere parte – Giappone, mondo arabo, paesiACP, India – più aperto, più democratico, capace di far partecipare nuovi popoli al governo del mondo e quindi più adatto alla soluzione dei nuovi problemi che la crisi del sistema politico ed economico mondiale pone. E rafforza presso gli Americani l’importanza dell’Europa.
Emanuele Itta
Anni XXXII, 1990, Numero 3 - Pagina 240
LA COOPERAZIONE CEE-MAGHREB
Rapporti privilegiati fra la CEE e i paesi del Maghreb esistono dalla fondazione stessa della Comunità. La storia stessa dimostra come il dialogo (o lo scontro) fra le due rive del Mediterraneo sia ineluttabile. Questi rapporti sembrano giunti ormai ad una svolta, anche sulla spinta della crisi del Golfo.
I dati fondamentali per comprendere, in prima approssimazione, la scelta in discussione e le conseguenze che da essa possono derivare possono essere schematizzati in pochi punti.
1) La formazione di un mercato interno europeo rischia di indebolire ulteriormente le economie del Nord-Africa, se queste non si legheranno più strettamente ad esso, facendo un salto di qualità.
2) Il debito dei paesi mediterranei costituisce un’ipoteca sempre più pesante per il loro sviluppo. Un piano di cooperazione organico fra Europa e Maghreb, economico-finanziario, è una condizione indispensabile per far decollare l’economia di questi paesi.
3) La collaborazione fra Est e Ovest ha modificato radicalmente gli equilibri mondiali rendendo drammaticamente urgente la necessità di creare federazioni regionali come alternativa alle crisi nazionalistiche, quali la crisi mediorientale. La crescente cooperazione fra i paesi del Maghreb può costituire in questa prospettiva un elemento di stabilizzazione di importanza strategica per tutto il Mediterraneo; è interesse generale che questo processo si consolidi.
4) Lo squilibrio crescente fra il boom demografico del Nord-Africa e l’invecchiamento dell’Europa rendono ancora più urgente l’esigenza di garantire un riequilibrio economico fra le due aree come sola alternativa di lungo periodo a flussi migratori destabilizzanti.
La rivoluzione in atto nei rapporti internazionali e la formazione di un mercato interno europeo unico sono strettamente collegati. E’ il successo dell’Europa che ha fatto definitivamente tramontare Yalta e crollare il muro di Berlino. E’ inevitabile che questa onda raggiunga il Nord-Africa,aprendo nuove prospettive.
La crescita dell’Europa ha reso sempre più debole il vecchio ordine bipolare; quest’ultimo non è ancora scomparso, ma è confinato essenzialmente al settore militare ed è efficace solo nei casi in cui il fattore militare stesso prevale. Il nuovo ordine mondiale emergente non può essere che multipolare. Ma il multipolarismo può essere cooperativo o anarchico. Sarà cooperativo solo se i paesi si integreranno in federazioni regionali, sulla base delle loro affinità storiche. In caso contrario, il mondo resterà diviso in piccoli Stati, spinti al nazionalismo e all’aggressione dall’esasperazione dei loro problemi, che in un quadro nazionale non possono trovare soluzioni. Questa è l’alternativa fondamentale di fronte a cui si trovano tutti gli Stati; essa spiega la crisi mediorientale, e può contribuire a comprendere quali scenari alternativi siano aperti ai paesi del Maghreb.
Per orientare il mondo verso il multipolarismo cooperativo non è sufficiente sviluppare la capacità dell’ONU di far rispettare il diritto internazionale. Per raggiungere questo fine, è indispensabile raggruppare a livello regionale gli Stati, attivando processi di cooperazione con la creazione graduale di poteri federali.
Di fronte a questa situazione, l’Europa è chiamata a svolgere un ruolo di importanza crescente. Non solo dando l’esempio di come sia possibile unificare popoli divisi da mille diversità; ma anche dando un concreto appoggio agli sforzi di cooperazione regionale, a cominciare dalle aree più prossime all’Europa stessa.
In questo quadro si collocano i rapporti CEE-Maghreb e si comprende l’importanza della posta in gioco, che va al di là dei problemi locali, pur rilevanti in quanto tali. In questo quadro altresì si colloca il problema di individuare le misure concrete che l’Europa può adottare per sostenere lo sviluppo del Maghreb e, più in generale, lo sviluppo e l’integrazione dei paesi mediterranei.
A questo fine valgono due precedenti. Nell’immediato dopoguerra, per sostenere lo sviluppo dell’Europa e la sua integrazione, gli Stati Uniti vararono il Piano Marshall, ponendo come condizione che gli aiuti fossero gestiti unitariamente da una sola istituzione e con una sola strategia europea comune.
Il secondo precedente è costituito dalla creazione della Banca dell’Est, decisa dalla Comunità per sostenere la ristrutturazione delle economie orientali verso il mercato e lo sviluppo democratico. La Banca dell’Est consentirà di razionalizzare gli aiuti dei paesi della Comunità, contribuendo a superare i limiti degli accordi bilaterali fra i singoli paesi, al tempo stesso facendo partecipare alla gestione della Banca stessa tutti i paesi coinvolti, finanziatori e finanziati.
Questi precedenti suggeriscono l’opportunità di creare una Banca europea del Mediterraneo. Essa costituirebbe uno strumento strategico per l’impegno europeo a favore dello sviluppo dell’area mediterranea e in particolare per il finanziamento dell’integrazione fra i paesi del Maghreb fra di essi, da un lato, e, dall’altro lato, fra i paesi del Maghreb e la CEE. La Banca europea del Mediterraneo concretizzerebbe, nell’ambito della regione più importante per l’Europa, l’alternativa europea alla crisi e il contributo dell’Europa alla costruzione di un nuovo ordine economico, più evolutivo.
Le motivazioni profonde che sorreggono questo progetto hanno già spinto la BEI a sviluppare la propria attività in questa direzione. Va detto peraltro che una Banca europea del Mediterraneo fruirebbe di potenzialità maggiori, potendo coinvolgere, fin dal momento della sua istituzione, su un piano paritario, le risorse tecniche e finanziarie sia dell’Europa sia dei paesi mediterranei.
La Comunità del Maghreb è destinata a svilupparsi gradualmente, con un approccio funzionalista. Il primo passo in questa direzione è probabile avvenga nel settore dell’energia; non a caso, anche il processo di integrazione europea fece il primo balzo avanti nel settore energetico, con la creazione della CECA. Un’iniziativa congiunta nel settore dell’energia pone al Maghreb problemi di ordine finanziario anche per quanto riguarda i rapporti con l’Europa; anche da questo punto di vista emerge l’importanza del ruolo che potrà essere svolto dalla Banca europea del Mediterraneo.
L’operatività della Banca europea del Mediterraneo richiede di essere sorretta da altre iniziative, che garantiscano la disponibilità dei beni e dei servizi finanziabili dalla Banca stessa. Emerge in questa prospettiva il ruolo importante che i paesi mediterranei membri della CEE possono svolgere, ponendo a disposizione di una politica europea per il Mediterraneo le proprie capacità e il proprio know-how, a propria volta traendo concrete occasioni di crescita in primo luogo per le loro regioni che si affacciano sul Mediterraneo stesso. Si tratta anche di evitare che queste regioni siano collocate in posizione marginale da una linea di sviluppo orizzontale est-ovest, cercando invece di occupare una posizione di cerniera fra nord e sud, attivando una triangolazione fra le tre aree. Ed esiste un altro motivo fondamentale che rende importante per le regioni meridionali dell’Europa stimolare una simile evoluzione. Il rafforzamento della politica europea per il Mediterraneo è in grado di rafforzare, all’interno dell’Europa, la politica regionale a favore delle aree meno sviluppate. Si tratta, in questa prospettiva, di unificare gli strumenti d’intervento per la politica regionale e per la politica mediterranea, cumulando le risorse comunitarie e nazionali, le esperienze delle maggiori imprese e degli organismi pubblici.
In questa prospettiva esiste complementarietà piena fra gli interessi del Maghreb, del Mediterraneo, delle aree meno sviluppate dell’Europa, dell’Europa nel suo insieme. Al di fuori di questa prospettiva, aumentano i rischi di conflitti economici e quindi di un processo di disgregazione.
Dario Velo
Anno XXXII, 1990, Numero 2 - Pagina 173
IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE
Il principio di autodeterminazione, sia quando si tenta di definirlo sia quando si tenta di attuarlo, presenta delle ambiguità. Le ragioni sono numerose: può essere riferito a più soggetti (individui o popoli); applicato all’azione politica, può diventare strumento sia di progresso che di conservazione; ha assunto e assume spesso una connotazione emotiva difficilmente controllabile da valutazioni razionali; i valori che evoca (libertà, giustizia, pace) spesso sono stati e sono negati proprio in nome di quel principio.
Nonostante queste difficoltà e queste contraddizioni, l’autodeterminazione, e in particolare l’autodeterminazione delle nazioni, è stato un principio molto vitale a partire dalla rivoluzione francese e ancora oggi costituisce una parola d’ordine che suscita sentimenti ed emozioni e produce rivolgimenti. Di fronte alla scelta fra accettazione o rifiuto del principio di autodeterminazione, la stragrande maggioranza delle persone si pronuncia a suo favore. Ed è significativo il fatto che anche chi si contrappone, per ragioni di potere, ai tentativi di realizzarlo, non nega il principio in quanto tale. Un chiaro esempio di ciò è la posizione di Gorbaciov nei confronti dei paesi baltici e delle altre repubbliche sovietiche che mirano alla separazione da Mosca: mentre nega nei fatti, afferma a parole il diritto di secessione in nome di quel principio.
Ma è oggi possibile, coerente, giusto, progressista accettare tout court il concetto di autodeterminazione delle nazioni?
Per rispondere a questa domanda bisogna riflettere sul fatto che chiunque si pone il problema di realizzare valori e ideali per trasformare il mondo deve saper pensare la propria azione nell’ambito del processo storico; deve nello stesso tempo interpretare il passato e analizzare il presente con lo sguardo rivolto al futuro; deve saper rispondere alla domanda: dove va il mondo?
Le vicende storiche del secolo scorso ci mostrano un nesso inscindibile fra autodeterminazione e lotte per l’indipendenza nazionale, fra autodeterminazione e nazionalismo. E nell’Ottocento, dato il grado di sviluppo del modo di produzione, il nazionalismo ha avuto certamente un ruolo progressista laddove è servito a far avanzare i necessari processi di unificazione.
Oggi questo nesso non è più accettabile. L’interdipendenza mondiale e la necessità di creare condizioni di sicurezza globale ci pongono di fronte alla necessità di rivedere la categoria dell’autodeterminazione. Se essa provoca disgregazione (mentre il processo storico ci indica il cammino verso l’unificazione), se in nome di essa continua a perpetuarsi un modello ormai superato dell’organizzazione della società (lo Stato nazionale sovrano), allora quel principio è obiettivamente un fattore di regresso o di conservazione. Se invece si riesce a sottrarsi alla trappola del nazionalismo, se, come ha scritto Emery Reves, si riesce a «capire che ‘l’autodeterminazione delle nazioni’ è oggi l’insormontabile ostacolo alla ‘autodeterminazione del popolo’», questo concetto ci spingerà a cercare nuove forme di convivenza le quali permettano veramente che ognuno diventi padrone del proprio destino.
Le considerazioni di Reves su questo problema – esposte in un capitolo, che qui pubblichiamo parzialmente, del suo famoso libro Anatomia della pace, scritto nel 1945 (Bologna, Il Mulino, 1990) – mostrano come siano nocivi l’atteggiamento e l’azione di chi interpreta una realtà nuova con categorie superate, di chi, usando il linguaggio di Reves, è ancorato a concezioni politiche e sociali «tolemaiche», naziocentriche, in un mondo «copernicano».
***
«L’autodeterminazione è un anacronismo. Essa afferma il sacro diritto di ogni nazione ad agire a suo piacere dentro le sue frontiere, non importa se in modo mostruoso o dannoso verso il resto del mondo. Essa afferma che ogni aggregato di popoli ha il sacro diritto di scindersi in unità sempre minori, ognuna sovrana nel proprio angolo. Essa ammette che l’estensione dell’influenza economica o politica mediante unità sempre più grandi lungo linee centralizzate interdipendenti è, in sé stessa, ingiusta.
Per il fatto che questo ideale una volta è andato bene – in un mondo più vasto, più semplice, meno solidale – esso ha una enorme attrazione emotiva. Esso può venire usato e viene usato da molti politici, scrittori, agitatori, in slogans che fanno appello alla ‘fine dell’imperialismo’" alla ‘abolizione del sistema coloniale’, alla ‘indipendenza’ per questo o quel gruppo razziale o territoriale.
Il presente caos mondiale non ci è caduto addosso perché questa o quella nazione non aveva ancora raggiunto una completa indipendenza politica. Non sarà minimamente mitigato con la creazione di un maggior numero di unità sovrane o con lo smembramento di aggregati interdipendenti come l’impero britannico che hanno mostrato una capacità di progresso economico e politico. Al contrario, il morbo che ora devasta il nostro globo si intensificherebbe, poiché esso è in gran parte il diretto risultato del mito della totale indipendenza politica in un mondo di totale interdipendenza economica e sociale.
Se il mondo deve divenire un soggiorno sopportabile per viverci, se vogliamo ottenere la cessazione delle guerre, dobbiamo dimenticare il nostro attaccamento sentimentale all’ideale settecentesco del nazionalismo assoluto. Nelle condizioni attuali esso può produrre solo povertà, paura, guerra e schiavitù.
La verità è che la passione per l’indipendenza nazionale è il residuo di un passato morto. Questa passione ha distrutto la libertà di parecchie nazioni. In nessun periodo della storia si è vista l’organizzazione di tanti Stati indipendenti come in quello che ha seguito la guerra del 1919. Nello spazio di due decenni il nazionalismo ha divorato i suoi figli – tutte quelle nuove nazioni vennero conquistate e rese schiave, insieme ad un mucchio di vecchie nazioni. Fu, speriamo, l’ultima disperata espressione di un ideale reso antiquato da nuove condizioni, l’ultimo catastrofico tentativo di costringere il mondo entro un modello politico che aveva perduto il suo significato.
Senza alcun dubbio, l’indipendenza è un ideale politico profondamente radicato in ogni gruppo di uomini, sia esso famiglia, religione, associazione o nazione.
Se sulla Terra vi fosse soltanto una nazione, l’indipendenza del suo popolo potrebbe benissimo essere conseguita mediante il suo diritto all’autodeterminazione, mediante il suo diritto a scegliersi la forma di governo e l’ordinamento sociale ed economico più desiderabile, mediante il suo diritto alla sovranità assoluta.
Una tale assoluta autodeterminazione nazionale potrebbe ancora garantire l’indipendenza se in tutto il mondo vi fossero solo due o tre nazioni autosufficienti, separate l’una dall’altra da ampi spazi, prive di stretti contatti politici, economici o culturali l’una con l’altra.
Ma una volta che vi sono parecchie nazioni i cui territori si trovano a stretto contatto, che hanno vasti vincoli culturali e religiosi e sistemi economici interdipendenti, che sono in rapporto permanente mediante lo scambio di beni, servizi e persone, allora l’ideale dell’autodeterminazione – di ogni nazione con il diritto assoluto di scegliere la forma di governo, i sistemi economici e sociali che desidera, ognuna con il diritto a un’assoluta sovranità nazionale – diviene un problema totalmente diverso.
La condotta di ogni unità nazionale avente diritto di autodeterminazione non riguarda più esclusivamente gli abitanti di quella unità, ma interessa ugualmente gli abitanti delle altre unità. Ciò che lo Stato sovrano di una nazione che esercita il diritto di autodeterminazione può considerare interesse e benessere generale del proprio popolo, può essere dannoso agli interessi e al benessere di altre nazioni. Qualsiasi contromisura possano prendere le altre nazioni sovrane che hanno diritto di autodeterminazione per difendere gli interessi dei loro rispettivi cittadini, essa interessa ugualmente i popoli di tutte le altre unità nazionali sovrane.
Questo mutuo gioco di azioni e reazioni tra i vari Stati sovrani distrugge completamente lo scopo per il quale furono creati gli Stati nazionali sovrani, se quello scopo era di salvaguardare la libertà, l’indipendenza e l’autodeterminazione dei loro popoli.
Essi non sono più sovrani nelle loro decisioni e nel corso delle loro azioni. In grandissima misura sono obbligati ad agire come fanno da circostanze esistenti in altre unità sovrane, e sono incapaci di proteggere e garantire l’indipendenza dei loro popoli.
Si possono citare innumerevoli esempi per provare che, pur mantenendo la finzione dell’indipendenza e della sovranità, nessuno Stato nazionale dei tempi presenti è indipendente e sovrano nelle sue decisioni. Invece, ognuno subisce le decisioni e le azioni degli altri Stati nazionali.
Gli Stati Uniti d’America, così riluttanti a cedere una qualunque particella della loro sovranità nazionale, che rifiutano categoricamente di concedere a una qualsiasi organizzazione mondiale il diritto di interferire col privilegio sovrano che il Congresso ha di decidere in merito alla guerra e alla pace, furono costretti nel 1941 a entrare in guerra per una decisione presa esclusivamente dal Consiglio Imperiale di Guerra di Tokyo. Insistere nell’affermare che la dichiarazione di guerra del Congresso susseguente all’attacco di Pearl Harbour fu un ‘atto sovrano’ è la più ingenua delle sottigliezze.
Né l’entrata dell’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale fu decisa dalle autorità sovrane dell’URSS. La guerra fu imposta all’Unione Sovietica dalla decisione sovrana presa a Berlino.
L’incapacità della sovranità nazionale a esprimere autodeterminazione e indipendenza è ugualmente evidente nel campo economico, in cui ogni nuovo metodo di produzione, ogni nuovo sistema di tariffe doganali, ogni nuova misura monetaria obbligano gli altri Stati nazionali a prendere contromisure che sarebbe puerile considerare come atti sovrani da parte della settantina di Stati nazionali sovrani che godono di autodeterminazione.
Il problema, lungi dall’essere nuovo ed insolubile, è vecchio come la vita stessa.
Le famiglie sono interamente libere di fare molteplici cose che desiderano. Possono cucinare quello che loro piace. Possono arredare la loro casa a loro piacere. Possono educare i figli come credono conveniente. Ma in un paese cristiano nessuno può sposare tre donne contemporaneamente, nessuno che viva in una casa ad appartamenti può dare fuoco al suo alloggio, tenere come cagnolino un coccodrillo o nascondere un assassino nel suo appartamento. Se una persona fa queste o simili cose, viene arrestata e punita.
E’ un uomo libero o non lo è?
Evidentemente, è assolutamente libero di fare qualsiasi cosa desideri per tutto quello che riguarda soltanto lui stesso e la sua famiglia. Ma non è libero di ledere la libertà e la sicurezza degli altri. La sua libertà di azione non è assoluta. E’ limitata dalla legge. Alcune cose può farle solo secondo regole stabilite, altre sono proibite del tutto.
I problemi creati dall’ideale dell’autodeterminazione delle nazioni sono esattamente gli stessi problemi creati dalla libertà degli individui o delle famiglie. Ogni nazione può e dovrebbe rimanere interamente libera di decidere a suo piacimento negli affari d’indole locale o culturale, o in quelle materie i cui effetti sono puramente locali e interni e non toccano la libertà di altri. Ma l’autodeterminazione di una nazione in materia militare, nel campo degli affari economici ed esteri, dove il contegno di ciascuna nazione si riflette immediatamente e direttamente sulla libertà e la sicurezza di tutte le altre, crea una situazione in cui l’autodeterminazione è neutralizzata e distrutta.
Non c’è nulla che vada male nell’ideale dell’autodeterminazione.
Ma c’è qualcosa, e molto, che in verità va male nell’ideale della ‘autodeterminazione delle nazioni’.
Quest’ultimo concetto significa che la popolazione di questo piccolo mondo deve essere divisa in ottanta o cento unità artificiali, fondate su criteri arbitrari e irrazionali come quelli di razza, nazionalità, precedenti storici, ecc. Questo concetto vorrebbe persuaderci che l’ideale democratico dell’autodeterminazione può essere garantito e salvaguardato assicurando agli uomini il diritto di autodeterminazione all’interno dei loro gruppi nazionali, senza dare espressione collettiva di autodeterminazione all’aggregato dei gruppi.
Un tale sistema può garantire l’autodeterminazione del popolo soltanto fin quando la sua unità nazionale può vivere una vita isolata. Poiché le nazioni oggi sono in contatto e la loro vita economica e politica si interseca strettamente, la loro indipendenza ha bisogno di forme più alte di espressione, di istituti più forti per difendersi. In una interpretazione assoluta, le parecchie unità nazionali che posseggono la facoltà di autodeterminazione finiscono per cancellare l’una l’autodeterminazione dell’altra.
A che servì la ‘autodeterminazione della Lituania’ quando la Polonia, autodeterminandosi, occupò Vilna? E a che servì la ‘autodeterminazione polacca’ quando la Germania, autodeterminandosi, distrusse la Polonia? Incontestabilmente, l’autodeterminazione delle nazioni non garantisce ad un popolo la libertà e l’indipendenza, poiché esso non ha il potere di impedire gli effetti delle azioni commesse da altre nazioni che si autodeterminano. Se noi consideriamo la libertà e l’autodeterminazione dei popoli come un nostro ideale, dobbiamo fare quanto è possibile per evitare che si ripetano gli errori del 1919 e capire che la ‘autodeterminazione delle nazioni’ è oggi l’insormontabile ostacolo alla ‘autodeterminazione del popolo’».
Nicoletta Mosconi
Anno XXXII, 1990, Numero 2 - Pagina 166
VERSO UN GOVERNO SOVRANNAZIONALE DELL’EMERGENZA ECOLOGICA*
L’emergenza del problema ecologico è ormai percepita soprattutto nei suoi aspetti mondiali e globali e rappresenta, insieme al pericolo dell’olocausto nucleare, la sfida che l’umanità deve affrontare per sopravvivere. Ma la risposta a questa sfida si è finora affidata a strumenti inadeguati: in campo internazionale alla leva tradizionale della politica estera; in campo nazionale alle politiche di protezione e conservazione del patrimonio naturale. Questi strumenti hanno contribuito a creare le condizioni minime per una maggiore fiducia reciproca fra gli Stati nel campo dei provvedimenti ecologici, ma hanno lasciato invariati i termini dell’emergenza ecologica su scala globale. A questo proposito si può osservare che, per quanto riguarda i limiti della politica estera, è contraddittorio riconoscere la crescente interdipendenza del mondo senza cercare di creare le condizioni affinché il problema ecologico diventi un aspetto di una politica interna comune mondiale; per quanto riguarda invece le politiche di conservazione e protezione ambientali, occorre prendere atto del fatto che la natura in quanto tale, cioè nel suo aspetto spontaneo, selvaggio ed incontaminato, non esiste più in nessuna parte del mondo. Quello che esiste invece è un ecosistema mondiale umanizzato e in larghissima parte urbanizzato, per governare il quale è necessario avere una efficace politica globale del territorio articolata ai diversi livelli.
Nel momento in cui lo scontro ideologico e militare fra democrazia e comunismo sta lasciando il campo ad una nuova fase di distensione fra USA e URSS, appare sempre più chiaro che il vero ostacolo da superare sulla strada della costruzione di un mondo sicuro, giusto e democratico è il nazionalismo in tutte le sue manifestazioni. Se per esempio la Comunità europea non riuscirà a superare questo ostacolo trasformandosi in una vera Unione, non potrà dotarsi di una efficace politica ecologica. Lo stesso si può dire per quanto riguarda l’Est europeo e l’URSS e, a maggior ragione, per il mondo intero, in cui l’esistenza di oltre centocinquanta Stati che pretendono di difendere un’anacronistica sovranità è incompatibile con la necessità di avviare una politica di sviluppo globale ecologicamente sostenibile.
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In un rapporto redatto da alcuni esperti tedeschi per conto della Commissione europea sono state analizzate le probabili conseguenze per l’ambiente in seguito alla realizzazione del mercato unico europeo nel ‘92. Gli autori del rapporto si domandano se «sia il caso di sostenere un ulteriore incremento del tasso di sviluppo con la costituzione del mercato unico», e osservano come «in una serie di casi specifici i confini tutt’oggi esistenti sono determinanti per il rispetto di norme legislative all’interno dei paesi membri, soprattutto quando si considerano i controlli effettuati per evitare il traffico di rifiuti pericolosi, per la salvaguardia di certi prodotti, per far rispettare delle norme fiscali tese a favorire una maggiore sensibilizzazione ecologica nel comportamento dei cittadini». Il rapporto sottolinea poi come, per effetto della liberalizzazione, la creazione del mercato unico indurrebbe un aumento della circolazione dei mezzi di trasporto su strada e della produzione di energia elettrica tali da far aumentare sensibilmente – entro il 2010 – l’emissione di sostanze inquinanti per l’atmosfera. Dopo aver messo in guardia contro questi pericoli il rapporto delinea lo scenario politico-economico che potrebbe invece trasformare il mercato unico in una occasione di riconversione ambientale europea. Per quanto riguarda le condizioni politiche gli estensori del rapporto giudicano che, «se le decisioni in ambito di politica ambientale venissero delegate ai singoli Stati membri, potrebbe verificarsi una situazione in cui in alcuni paesi verrebbero osservate norme molto rigide per la protezione dell’ambiente e della qualità della vita, mentre in altri ciò non avrebbe luogo, con le immaginabili conseguenze che un fatto simile comporterebbe. In caso contrario potrebbe essere creato un ambito decisionale che elabori una griglia operativa cui i paesi membri devono attenersi, tenendo in considerazione le esigenze e le obiettive condizioni delle realtà locali». E infine, «è improbabile che i danni ambientali aumentino nella stessa misura in cui aumenterà la crescita economica: ciò dipenderà dal modo in cui verranno condotte le attività economiche che verranno sostenute con la costituzione del mercato unico, con riferimento agli effetti che questa unione monetaria avrà sull’ambiente e alla diffusione sul territorio di tali effetti» (i corsivi sono miei).
Il responso di questi esperti sull’impatto ambientale della creazione del mercato unico non è meno cauto e guardingo del responso che a suo tempo altri esperti diedero a proposito degli effetti negativi che avrebbero prodotto sul livello di vita degli Europei la creazione della Comunità e del Sistema monetario europeo. Ma se non ci si lascia ingannare dalla confusione, che non è solo terminologica, fra mercato unico e unione economica e monetaria, bisogna dire che il rapporto non fa che ribadire quali sono i costi ecologici del mantenimento di dodici politiche nazionali in un mercato non sottoposto ad un efficace controllo democratico e legislativo.
In effetti, e l’esperienza lo dimostra, nelle vere unioni di Stati le cose procedono diversamente. Fu proprio per colmare un vuoto legislativo in materia ambientale e in una situazione di crescente inquinamento ed anarchia legislativa da parte di Stati membri e metropoli che gli USA intrapresero circa trent’anni orsono la strada della regolamentazione su scala federale delle norme antinquinamento. Nonostante negli Stati Uniti il problema ecologico oggi sia ben lungi dall’essere stato risolto, e nonostante i tentativi di reintrodurre politiche di laissez faire in materia ecologica, la pianificazione federale statunitense ha fatto sì che allo sviluppo economico non corrispondesse un peggioramento generalizzato della situazione ecologica. I risultati sono significativi. Rispetto a vent’anni fa negli Stati Uniti vive il 25% in più di popolazione – lo stesso aumento percentuale è previsto per la popolazione mondiale nei prossimi venti, trent’anni –, il PNL è aumentato di cinque volte, circolano più automobili e sono mediamente aumentati i consumi. Nello stesso periodo i maggiori fattori di inquinamento atmosferico hanno subito drastiche riduzioni. Grazie quindi alle leggi federali approvate dal Congresso USA a partire dalla metà degli anni Sessanta le diverse politiche ambientali locali e statali, già avviate da alcune città alla fine del secolo scorso, sono state inquadrate in un ambito federale. Ed è significativo il fatto che il Presidente dell’EPA (Environment Protection Agency, istituita nel 1970 a seguito dell’adozione del Clean Air Act) abbia lo scorso anno dichiarato che i risultati sarebbero stati migliori se ci fosse stato nel frattempo un miglior coordinamento fra i diversi livelli di governo – città, Stati e Unione – e se la cooperazione internazionale per far fronte alle emergenze ecologiche delle piogge acide, dell’effetto serra e dell’inquinamento dei mari fosse avanzata più rapidamente.
Il caso americano e quello europeo mostrano come la battaglia per far fronte all’emergenza ecologica può essere combattuta con successo solo facendo procedere in sintonia lo sviluppo economico e tecnologico con il rafforzamento di politiche federali attraverso unioni di Stati. La controprova di questa affermazione la si può constatare osservando come lo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali e l’aumento dei costi ecologici vada di pari passo con il sottosviluppo e con l’esasperazione dell’accentramento burocratico all’interno, accompagnato dall’isolamento nei confronti del resto del mondo. In un mondo sempre più interdipendente, queste situazioni sono destinate a ripercuotersi prima o poi a livello mondiale, come insegna la posizione assunta da alcuni paesi invia di sviluppo – tra cui Cina, India, Arabia Saudita e la stessa Unione Sovietica –, i quali hanno in diverse occasioni dichiarato di non poter sostenere da soli i costi di una riconversione ecologica delle loro produzioni. Ancora una volta questo dimostra come il contesto per spezzare il circolo vizioso che lega il sottosviluppo alla crisi ecologica non è nazionale, ma mondiale.
Il caso dell’URSS è emblematico. Considerando solo l’aspetto ecologico, e tralasciando quindi i risvolti economici e politico-militari, del periodo della stagnazione, cioè del ventennio 1965-85, è indubbio che gli incalcolabili danni ambientali prodottisi in URSS, di cui l’incidente di Chernobyl costituisce ancora oggi il più drammatico esempio anche per gli effetti che ha prodotto nel resto del mondo, sono in larga parte spiegabili con il fallimento del progetto – in parte per scelta del sistema sovietico, in parte imposto dalla situazione internazionale – di perseguire lo sviluppo e il benessere del popolo sovietico indipendentemente dal grado di sviluppo scientifico-tecnologico e dal grado di interdipendenza raggiunti nel resto del mondo. Il caso dell’URSS dimostra tra l’altro l’importanza del fattore tempo nel dotarsi delle giuste istituzioni politiche per affrontare la sfida ecologica. E’ infatti soprattutto nel corso dei soli ultimi vent’anni che l’URSS ha accumulato ritardi decisivi. I prossimi venti, trent’anni sono considerati altrettanto cruciali per fare le giuste scelte a livello mondiale in campo ecologico.
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L’accesso e lo sfruttamento delle risorse naturali e del territorio sono sempre stati strategici per garantire la sicurezza degli Stati. Ma mentre in passato questi potevano spingersi sino alla guerra condotta in loro nome, nell’era nucleare non possono ricorrere in modo credibile a questa minaccia a meno di non trascinare il mondo intero in un conflitto mondiale che segnerebbe la fine dell’umanità. Lo prova il fatto che su questioni strategiche come lo sfruttamento dei fondi degli oceani, lo sfruttamento dell’Antartide e quello dello spazio – che solo alcuni decenni fa avrebbero giustificato, nella logica della ragion di Stato, il ricorso alla guerra –, si è preferito percorrere la strada della diplomazia internazionale e degli accordi in seno all’ONU. Questo significa che: a) la ragion di Stato, pur non rinunciando a perseguire i suoi obiettivi nazionali, è però costretta a perseguirli con mezzi più politici e meno violenti rispetto al passato; b) a livello mondiale agisce già un sistema di relazioni internazionali, una sorta di governo internazionale, che però non è democratico ed è condizionato ancora in larga parte dai rapporti fra le superpotenze; c) l’ONU, nonostante la sua inadeguatezza, costituisce il quadro istituzionale mondiale al quale tutti i popoli, a differenza di quanto accadde per la Società delle Nazioni fra le due guerre, fanno riferimento.
L’interdipendenza a livello mondiale sta dunque orientando verso nuovi obiettivi la ragion di Stato degli Stati nazionali. Se fino a pochi decenni fa l’obiettivo principale della ragion di Stato era quello di massimizzare la potenza di ogni singolo Stato al fine di assicurare in primo luogo la sicurezza nazionale, oggi l’interesse prioritario degli Stati è diventato quello di favorire la cooperazione internazionale e l’instaurazione delle condizioni minime che garantiscano la sicurezza reciproca. L’interesse comune dell’umanità alla sopravvivenza incomincia a condizionare l’esercizio della ragion di Stato. E’ in nome di questo interesse che gli Stati europei, perduta la sovranità assoluta dopo la seconda guerra mondiale, si sono incamminati sulla strada della messa in comune delle risorse strategiche negli anni Cinquanta – carbone e acciaio –, ed è sempre per questo che le due superpotenze, USA e URSS, constatata l’impossibilità di uscire vincitori dal confronto, hanno avviato la nuova fase di distensione nei rapporti internazionali.
E’ quindi alla luce di questo mutamento che è necessario inquadrare anche il problema ecologico.
La cooperazione internazionale – trattati, accordi, convenzioni – è il modo in cui si manifesta oggi il governo internazionale del mondo e il modo in cui gli Stati cercano di affrontare le emergenze della sicurezza militare ed ecologica senza rinunciare alla sovranità. Ma se l’impossibilità della guerra nucleare è all’origine della nuova fiducia che viene riposta nella prospettiva di poter governare il mondo con gli strumenti della diplomazia e della legge internazionale, allo stesso modo è facile constatare i limiti di questo governo del mondo. A questo proposito basta brevemente considerare i tre ambiti internazionali in cui si tenta di affrontare il problema ecologico.
L’ambito europeo. L’accordo franco-tedesco per la messa in comune del carbone e dell’acciaio, che portò alla creazione della CECA nel 1951, non avrebbe avuto il significato storico che tuttora gli viene riconosciuto nel mondo se, da un lato, non fosse stato inquadrato fin dall’inizio in un progetto di unificazione politica ed economica del continente e se, dall’altro, non fosse stata avviata una battaglia, tuttora in corso, per la creazione di istituzioni democratiche sovrannazionali europee. Al di fuori di questo contesto l’accordo franco-tedesco si sarebbe risolto in un ennesimo fallimento. Dal 1979, dopo la prima elezione diretta del Parlamento europeo, i problemi della gestione degli aspetti continentali dell’emergenza ecologica sono finalmente inquadrabili nell’ambito di una legislazione e di Agenzie federali europee sotto il controllo del Parlamento europeo.
La battaglia ecologista nei paesi della Comunità può dunque essere condotta ad un livello più avanzato che in altre parti del mondo, ma ciò a condizione che: a) il Parlamento europeo, un organo democraticamente eletto a livello continentale, e non i governi, abbia l’ultima parola per quanto riguarda la Costituzione dell’Unione europea e quindi per quanto riguarda la legislazione dell’Unione anche in campo ecologico; b) venga sconfitta, con l’avvio immediato dell’unione economica e monetaria, la prospettiva di diluire la Comunità in un’area di libero scambio nell’ambito della quale l’esasperazione della concorrenza porterebbe inevitabilmente ad un aggravamento della situazione ecologica su scala continentale e, di conseguenza, su scala mondiale.
L’ambito pan-europeo. Gli accordi di Helsinki costituiscono dal 1975 il quadro di cooperazione internazionale anche in materia ambientale, ed hanno prodotto nel 1979 una prima forma di collaborazione fra i 35 paesi firmatari dell’Accordo: la Convenzione sulla limitazione delle emissioni considerate responsabili delle piogge acide. Nel 1985, con l’opposizione di Polonia, Gran Bretagna e Stati Uniti, la Commissione creata in seno alla Convenzione proponeva l’obiettivo della riduzione del 30% delle suddette emissioni entro il 1993. Si tratta evidentemente delle prime forme di collaborazione intergovernativa avviate prima del disgelo fra USA e URSS. Questo esempio mostra come gli accordi di Helsinki possano davvero diventare il quadro istituzionale di una politica ecologica della Casa comune europea, creando per esempio una Agenzia paneuropea per l’ambiente e l’energia sull’esempio di quanto è stato fatto con la Comunità del carbone e dell’acciaio negli anni Cinquanta. Questa Agenzia dovrebbe però trasformarsi in una Agenzia federale sottoposta al controllo di un’assemblea parlamentare pan-europea.
L’ambito mondiale. «La Comunità europea era una sogno di pochi federalisti cinquant’anni fa. L’Autorità internazionale dei mari prevista dalla Legge del mare adottata nel 1982 da 119 Stati, era un’utopia solo vent’anni fa. Qualcosa si sta muovendo». Questo commento, del 1983, di Elisabeth Mann Borgese, rispecchia bene la situazione attuale a livello mondiale per quanto riguarda il governo dell’ambiente. In effetti qualcosa si sta muovendo, ma troppo lentamente. La Convenzione sulla Legge del mare non solo non è ancora entrata in vigore, ma proprio in questi mesi è nuovamente in discussione all’ONU per definire ruolo, competenze e potere di sanzione dell’Autorità, del tribunale speciale, del segretariato. La Convenzione sulla Legge del mare è qualcosa di più dei soliti trattati e può avere nell’immediato futuro una funzione strategica per promuovere un’accelerazione nella riforma dell’ONU. Non solo perché essa afferma il principio della necessità di salvaguardare una parte del «patrimonio comune del genere umano» con un’Autorità mondiale, che costituirebbe un embrionale governo sovrannazionale con poteri di sanzione e di gestione di risorse proprie, ma anche perché la sua sfera di competenza, per il fatto che è impossibile non considerare le relazioni esistenti fra risorse marine, terrestri ed atmosferiche, «rischia» già, secondo molti governi, fra cui anche gli USA, di operare un importante trasferimento di sovranità dal livello nazionale a quello sovrannazionale.
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Questi esempi confermano come il governo del mondo fondato sulla cooperazione internazionale possa essere sì utile per instaurare un clima di maggiore fiducia fra gli Stati, ma anche come esso sia insufficiente per affrontare efficacemente i problemi mondiali. A questo proposito bisogna però osservare come, quanto più la cooperazione internazionale lascia irrisolti i problemi globali, tanto più si apre la possibilità di avviare un’azione politica per: a) rivendicare la necessità di trasferire al livello sovrannazionale parte della sovranità nazionale; b) chiedere che siano delle istituzioni controllate democraticamente, e non i governi, a decidere; c) chiedere di riformare l’ONU.
Mentre la cooperazione internazionale è destinata ad essere alimentata dall’azione dei governi e dal semplice estendersi dell’interdipendenza, non esiste ancora un forte movimento politico capace di agire a favore della creazione di un governo sovrannazionale mondiale, ma esiste solo una moltitudine di organizzazioni federaliste, pacifiste ed ecologiste non governative che cercano di darsi una strategia mondiale in ordine sparso. Il rafforzamento organizzativo di un simile movimento deve rappresentare il primo obiettivo da perseguire se si vogliono promuovere delle iniziative che favoriscano la transizione dalla cooperazione internazionale al governo sovrannazionale del mondo. Il primo contributo dei federalisti europei per avviare un dibattito su questi temi consiste proprio nel rilanciare a livello mondiale: a) l’obiettivo indicato già nel 1941 nel Manifesto di Ventotene e per il quale cominciarono a battersi i federalisti guidati da Spinelli durante la seconda guerra mondiale, e cioè l’obiettivo della creazione di un «solido stato internazionale», vale a dire di una Federazione mondiale; b) la strategia politica federalista che ha portato la Comunità europea alle soglie della federazione.
Franco Spoltore
* Relazione presentata al Convegno «Ecologia come problema globale», tenutosi a Pavia il 28-29 aprile 1990.
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