IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVIII, 1996, Numero 1, Pagina 3

 

 

Se non si fa l’Europa
 
 
Il processo di unificazione europea ha vissuto dal suo inizio una serie di crisi, dalla caduta della CED, alla politica della «sedia vuota» di de Gaulle conclusa con il compromesso di Lussemburgo, alla mancata adozione del progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo su impulso di Altiero Spinelli. Ciascuna di queste crisi è stata seguita da una fase di disorientamento e di ristagno. Ma dopo ogni pausa il processo è ricominciato, proponendosi obiettivi immediati certo meno ambiziosi di quelli sui quali la crisi era nata, ma senza mai perdere di vista la direzione del cammino e il suo punto d’arrivo. E’ così che dalle ceneri della CED è nata la Comunità economica europea, dalla politica della «sedia vuota» l’accordo sul finanziamento della politica agricola comune, sulle risorse proprie della Comunità e sui poteri di bilancio del Parlamento europeo e da quella del progetto di Trattato l’Atto Unico europeo. La realtà è che gli Stati europei sono stati trasportati per quarantacinque anni da una corrente che, malgrado arresti e ritorni, è avanzata nella direzione di una sempre crescente integrazione, garantendo un solido quadro di riferimento per le aspettative dei cittadini e per le scelte delle forze politiche.
L’integrazione europea ha avuto come proprio motore il processo di mondializzazione, che abbatte ovunque, con ritmo accelerato, le barriere che ostacolano la circolazione delle informazioni, dei capitali, delle merci e delle persone. Esso sta rendendo ovunque obsoleta la dimensione nazionale dello Stato e creando anche in altre regioni del mondo raggruppamenti di Stati che si costituiscono allo scopo di creare mercati regionali di dimensione sufficiente a consentire loro di competere con successo nell’unico grande mercato mondiale.
Questa spinta ha generato e fatto progredire il processo di integrazione europea prima e più di ogni altro processo analogo manifestatosi altrove perché in Europa prima che altrove lo Stato nazionale ha completato la sua parabola storica e ha mostrato, con il fascismo e la seconda guerra mondiale, a quali tragici esiti poteva portare la sua sempre più evidente incapacità di garantire al proprio interno una convivenza civile libera e sicura e un equilibrato progresso economico e sociale.
Ma il processo di integrazione europea si è trascinato per mezzo secolo senza giungere all’unificazione federale. E ciò è accaduto perché, a parte qualche saltuario ed effimero sussulto, l’interesse alla conservazione della sovranità nazionale ha offuscato nella mente degli uomini politici europei la consapevolezza della necessità di superarla.
 
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La mondializzazione non è solo portatrice di benessere e di sviluppo. Se non è governata dalla politica, cioè dalla volontà consapevole degli uomini, formata ed espressa nel quadro di istituzioni adeguate, essa moltiplica le occasioni di conflitto, diffonde l’intolleranza, suscita ed esaspera i riflessi di difesa di «identità» collettive e di interessi consolidati che si sentono minacciati. Questa tendenza alla disgregazione non si è manifestata in Europa occidentale fin tanto che è durata la guerra fredda. Per tutta questa fase i governi dei paesi coinvolti nel processo di integrazione sono stati sollevati, grazie alla guida (in verità sempre più debole) degli Stati Uniti, attraverso la NATO, l’idea della difesa della democrazia contro il comunismo e il ruolo internazionale del dollaro, dall’onere di affrontare i nodi politici di fondo della sicurezza, della legittimità democratica e della moneta. Si trattava di problemi che, se non fossero stati in qualche modo risolti per conto degli Europei dagli Americani, avrebbero fatto riemergere i conflitti di fondo tra gli Stati del vecchio continente legati al permanere della loro sovranità, che invece sono rimasti latenti sia nel corso della guerra fredda che negli anni immediatamente successivi, quando il grande disegno di Gorbaciov aveva fatto sperare a molti che il mondo fosse avviato a ritmo accelerato verso la propria unità.
Ma dopo la fine della guerra fredda e la caduta di Gorbaciov la situazione è cambiata. Oggi l’ombrello protettivo americano non esiste più, le speranze di una unificazione del mondo ravvicinata nel tempo sono svanite e i nodi politici di fondo che erano rimasti in sospeso devono essere affrontati senza indugio. L’opportunità per farlo si presenta con le scadenze del 1996-1999 (Conferenza intergovernativa e inizio della terza fase dell’Unione economica e monetaria), in occasione delle quali i governi europei dovranno fare i conti con il problema di creare, con la moneta unica, con una struttura istituzionale democratica e federale e con una difesa comune, un nuovo quadro politico europeo alternativo a quello che l’America ha cessato di garantire. Se questa grande opportunità storica non fosse colta, il movimento di lunga durata che finora ha portato l’Europa verso forme di unità sempre più strette potrebbe cambiare definitivamente direzione. Ciò che è in gioco nei prossimi anni è quindi la continuazione del processo di unificazione europea.
 
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Se questo è vero, è giunto il momento di chiedersi che cosa significherebbe in concreto l’interruzione del processo, cioè la scomparsa dell’obiettivo dell’unificazione europea dall’orizzonte delle aspettative degli uomini politici e dei cittadini. Si tratta di tentare di individuare, assumendo tutti i rischi che ogni previsione storica comporta, i grandi mutamenti politici, economici e sociali che si verificherebbero in Europa e nel mondo se questa eventualità si realizzasse. E’ evidente che non ci si può spingere fino a prevedere la rapidità dei processi e il grado di avanzamento al quale essi giungerebbero. Per ognuno di essi possono quindi essere immaginati svolgimenti ed esiti più o meno drammatici. Ma i dati della storia recente e della realtà attuale consentono di individuare con ragionevole certezza delle tendenze.
Il primo dei grandi mutamenti che sembra fondato prevedere è una svolta nella politica estera e nella politica economica esterna della Germania. Di fronte alla scomparsa della prospettiva dell’unione politica dell’Europa, la Germania sarebbe costretta a seguire la sola strada alternativa che le rimarrebbe: quella del rafforzamento della sfera di influenza tedesca nell’Europa centro-orientale, che già oggi esiste allo stato embrionale. Questa politica sarebbe facilitata dalla circostanza che il processo di riconsolidamento del potere in Russia si annuncia lungo e difficile e avrà comunque come proprio obiettivo prioritario, sul fronte della politica estera, il ripristino di qualche forma di legame con gli altri paesi dell’ex-Unione Sovietica. Certo, quella tedesca sarebbe un’egemonia debole e instabile, sia perché lo status della Germania in politica estera sarebbe destinato a rimanere ancora a lungo fragile, sia perché la stessa struttura dell’economia tedesca non sarebbe abbastanza forte da dare al marco il ruolo di una vera moneta internazionale. Ma la svolta sarebbe comunque sufficiente a mutare radicalmente la fisionomia dell’equilibrio europeo e a spezzare l’asse franco-tedesco. La Francia cercherebbe di creare un contrappeso all’egemonia tedesca rilanciando una impossibile politica di grandezza nazionale e cercando alleanze alternative, in Europa e fuori dall’Europa. La Gran Bretagna si riavvicinerebbe agli Stati Uniti e cercherebbe di trarre vantaggi dalla divaricazione tra le politiche dei due maggiori Stati del continente. I paesi minori si schiererebbero in instabili coalizioni contrapposte.
In questo contesto verrebbero meno le basi stesse di una politica estera europea. Essa è finora esistita, anche se in forma debole e contraddittoria, perché il disegno incompiuto dell’unificazione europea è stato sufficiente a garantire un minimo di coesione tra i paesi che vi sono stati coinvolti; ed ha favorito, nei rapporti internazionali, l’apertura al dialogo e l’intensificazione degli scambi con il resto del continente e con le altre regioni del mondo, dove la presenza dell’Europa non è mai stata avvertita come un fatto imperialistico o neocolonialistico. I suoi risultati sono stati l’allargamento dell’Unione, la Convenzione di Lomè, lo Spazio economico europeo, gli accordi di associazione con i paesi dell’Europa centro-orientale, con Cipro e Malta, quello di cooperazione con la Russia, l’intensificazione dei rapporti con l’America latina e con l’Estremo Oriente asiatico, l’area di libero scambio con la Turchia, gli accordi di associazione o di cooperazione con alcuni paesi del Maghreb e del Mashreq, il progetto di Barcellona di collaborazione con i paesi del Mediterraneo, il successo dei negoziati nel quadro del GATT. Ma i segnali sinistri che si sono avvertiti nel corso della tragedia jugoslava, in occasione della quale l’Unione si è dimostrata incapace di prevenire la guerra e di imporre la pace, e i suoi Stati membri si sono schierati più o meno apertamente a favore chi dell’una e chi dell’altra delle parti coinvolte nel conflitto — in tal modo aggravandolo e rendendolo irreversibile — danno la misura di quella che sarebbe la totale impotenza degli Stati europei nei confronti del resto del mondo una volta che il disegno dell’unificazione del continente avesse perduto ogni credibilità.
In particolare scomparirebbero del tutto gli attuali timidi accenni di una politica europea nel più delicato degli scacchieri internazionali: quello dei rapporti con i paesi del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo. In questa area le «medie potenze» europee farebbero ciascuna la propria politica di alleanze, esasperando le tensioni esistenti. Il difficilissimo processo di pace in corso in Israele, e tra Israele e i suoi vicini arabi, al quale uno Stato europeo federale potrebbe dare un contributo decisivo avvalendosi degli strettissimi rapporti di complementarietà esistenti tra le due aree, sarebbe definitivamente compromesso. Il fondamentalismo e il fanatismo sarebbero incoraggiati a scapito delle spinte verso la tolleranza e l’unità. Le dittature irresponsabili che già oggi proteggono e promuovono il terrorismo come strumento di aggressione attraverso la destabilizzazione sarebbero rafforzate; e svanirebbe ogni speranza di combattere il fenomeno alla radice favorendo la democratizzazione di quei regimi con una politica coerente, di fermezza e di apertura insieme, che solo una grande democrazia, fondata su una forte legittimità, potrebbe portare avanti.
Nello stesso modo sarebbe definitivamente compromessa ogni possibilità per l’Europa di fare una politica equilibrata di regolamentazione dell’immigrazione e di aiuto alla modernizzazione dei paesi africani e asiatici a basso reddito e a forte sviluppo demografico. L’Europa sarebbe costretta dalla sua debolezza a tentare di rifugiarsi nella politica della chiusura. Ma questa sarebbe condannata, a causa di quella stessa debolezza, a fallire. In questo modo l’immigrazione, che, se incoraggiata e disciplinata, potrebbe essere un efficace contrappeso al grave fenomeno dell’invecchiamento della popolazione dei paesi europei e un importantissima valvola di sfogo per i paesi di provenienza, rischierebbe di diventare — assai più di quanto non lo sia già oggi — un fenomeno caotico e incontrollato e una fonte sempre più grave di disordine e di intolleranza, che inasprirebbe i rapporti tra paesi d’origine e paesi di destinazione ed acuirebbe ulteriormente il disagio delle società europee.
 
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Il mercato unico, allargato ai paesi dell’Est e del Sud dell’Europa, si annacquerebbe in una grande area di libero scambio dal funzionamento precario e instabile a causa della mancanza di una moneta unica e di un inquadramento istituzionale capace di imporre regole e di farle rispettare. A più lungo termine non potrebbero non rafforzarsi, a causa delle inevitabili turbolenze monetarie, le tentazioni protezionistiche che già nel recente passato si sono manifestate in reazione alla svalutazione della lira e della peseta. Se oggi è impensabile un ritorno ai mercati nazionali, non lo è affatto la prospettiva di un disordinato alternarsi di fasi di liberalizzazione e di rigurgiti protezionistici. Le politiche di svalutazione o di disinflazione competitive renderebbero impossibile qualunque programma di rilancio dell’economia europea e aggraverebbero ulteriormente il già grave problema della disoccupazione. Lo sviluppo economico dell’Europa e la modernizzazione della sua società ne sarebbero drammaticamente rallentati. Essa dovrebbe abbandonare, o marcatamente diluire, il proprio modello di organizzazione della società, fondato sulla congiunzione tra libertà di impresa e solidarietà, che è oggi il più avanzato del mondo, e rinunciare a perfezionarlo e a diffonderlo. Ne deriverebbe un aumento della distanza tra ceti ricchi e ceti poveri, la diffusione e il consolidamento di modelli di comportamento improntati al darwinismo sociale, un drammatico peggioramento globale della qualità della vita, la lacerazione profonda del tessuto della società. Nello stesso tempo, l’incapacità dei paesi europei di governare efficacemente le loro economie priverebbe queste ultime degli strumenti politici che oggi sono indispensabili per reggere una competizione a livello mondiale nella quale tendono a prevalere grandi sistemi regionali altamente integrati e sostenuti da un potere dotato di una forte capacità negoziale e di orientamento delle attività produttive. In particolare l’Europa sarebbe definitivamente lasciata indietro nella corsa al progresso tecnologico e diverrebbe totalmente tributaria dell’industria di punta americana e giapponese.
 
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In gioco sarà anche lo stesso futuro della democrazia negli Stati europei. Il Cancelliere Kohl, se si ricandiderà alle elezioni al Bundestag del 1998, lo farà per l’ultima volta. Egli è oggi il più autorevole rappresentante di una generazione politica che affonda le radici della propria fede democratica e del proprio impegno europeo nell’esperienza diretta della tragedia della seconda guerra mondiale. Questa generazione, nelle cui fila peraltro si sta facendo strada la corruzione, è incalzata da uomini nuovi, dalla memoria storica corta e senza capacità di visione. Se il disegno europeo scomparisse dall’orizzonte, il disorientamento politico e morale che ne deriverebbe opererebbe una forte selezione a favore di costoro, che diverrebbero ovunque la nuova classe di governo. Essi non saprebbero offrire ai cittadini alcuna prospettiva d’avvenire, ma soltanto demagogia e bassi calcoli di potere. Ciò significa che le basi del consenso democratico — che non viene accordato in cambio di piccoli privilegi, ma si fonda sulla capacità di una classe politica di mantenere viva la speranza degli uomini nel futuro — sarebbero irrimediabilmente minate. Né esse potrebbero essere ricostruite offrendo ai cittadini, in luogo di un grande disegno, la prospettiva borghese di una convivenza prospera e sicura, al riparo dalle turbolenze della politica mondiale. Ciò è possibile in piccoli Stati come la Svizzera, che vivono di una vita parassitaria all’ombra degli Stati maggiori. Ma l’Europa nel suo complesso non può sottrarsi alle bufere della storia. Essa può soltanto decidere se creare, con l’unità, un potere politico abbastanza forte da imbrigliarne la violenza e da controllare le energie che da esse si sprigionano, per promuovere il bene comune dell’umanità, o lasciarsene travolgere perpetuando la propria divisione. In questo secondo caso il destino degli Europei sarebbe quello di essere governati da regimi autoritari. Non si tratterebbe probabilmente di regimi fascisti in senso stretto, perché gli eventi della storia non accadono invano, ma di regimi basati sulla manipolazione dell’opinione attraverso il controllo dei mass media, che vivrebbero della morte della politica e si farebbero carico dell’eutanasia della cultura europea.
Con la democrazia sarebbe in gioco il fondamento stesso della legittimità dello Stato. Dissoltasi la prospettiva di una cittadinanza democratica sempre più ampia, al di sopra dell’appartenenza nazionale, il potere cercherebbe di ancorarsi, per garantire la propria sopravvivenza, all’idea di nazione. Ma esso si scontrerebbe con il fatto che il processo di mondializzazione ha privato irreversibilmente l’idea di nazione della capacità di servire da collante alla società e da fondamento alla lealtà dei cittadini nei confronti dello Stato. Ne verrebbero incoraggiate le tendenze secessionistiche e le pulsioni tribali che già oggi sono attive nelle più deboli tra le democrazie europee. L’autoritarismo dei poteri nazionali non fermerebbe il processo del loro disfacimento. L’Europa si avvierebbe verso la propria balcanizzazione.
 
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Mitterrand, nel suo discorso-testamento al Parlamento europeo, e Kohl, in ripetute occasioni, hanno posto il problema dell’unità politica dell’Europa come un problema di pace e di guerra. La drammaticità del loro ammonimento non è stata capita. Del resto la prospettiva della guerra in Europa, dopo cinquant’anni di pace, sembra inverosimile. Ma essa deve essere riconsiderata nel contesto — del tutto realistico — di un mondo nel quale la guerra è comunque una realtà ricorrente e di un’Europa che abbia smarrito la strada dell’unità e non sia più orientata da una solida alleanza con gli Stati Uniti nel quadro di un equilibrio mondiale rigido ma stabile. In questo contesto i conflitti esterni all’Europa — soprattutto quelli che si svolgeranno ai suoi confini — coinvolgerebbero inevitabilmente i maggiori Stati europei, e questi si schiererebbero su fronti opposti, a seconda delle esigenze della loro ragion di Stato, come già è accaduto nella ex-Jugoslavia. Certo, in una prima fase, la guerra verosimilmente risparmierebbe il suolo europeo, se è vero che essa si combatte sempre nelle regioni più deboli e instabili del pianeta, dove vi è un vuoto di potere. Ma un’Europa divisa in un mondo anarchico sarebbe destinata a diventare essa stessa una regione debole e instabile, nella quale i poteri nazionali sarebbero delegittimati e frantumati. In questa situazione i conflitti nati fuori dall’Europa si propagherebbero facilmente all’Europa, ed altri potrebbero nascere all’interno dell’Europa stessa. Il più grande dei benefici di cui gli Europei hanno goduto per mezzo secolo grazie al processo di integrazione — la pace — andrebbe anch’esso perduto.
Ma il legame tra l’unificazione europea e il problema della pace e della guerra non si manifesterebbe soltanto nel quadro europeo. La Comunità europea è servita da modello a numerosi altri esperimenti di integrazione economica regionale — nell’America del Nord, in America latina, nel Sud-est asiatico — anche se si tratta di esperimenti di gran lunga meno avanzati di quello europeo. Il loro esito sarà largamente dipendente da quello di quest’ultimo. Se l’Europa saprà dare l’esempio del successo del passaggio dall’integrazione economica all’unità politica e mostrarne le conseguenze in termini di sviluppo economico e di consolidamento della democrazia, anche i paesi dell’Asia e delle Americhe che sono coinvolti in processi di integrazione economica seguiranno la stessa strada e si uniranno in grandi federazioni continentali. E l’Europa, che già oggi dimostra una chiara vocazione — assai più forte di quella degli Stati Uniti e del Giappone — all’apertura commerciale e alla collaborazione politica, economica e culturale con gli altri grandi poli mondiali di sviluppo, sarà al centro di una rete sempre più stretta di scambi e di rapporti economici e politici intercontinentali. Essa guiderebbe cosi il mondo verso la realizzazione del federalismo allo stesso modo in cui, a partire dalla rivoluzione francese, ha diffuso in tutto il pianeta la formula dello Stato nazionale.
Ma se il tentativo europeo fallisse, le conseguenze del suo fallimento nelle altre regioni del mondo sarebbero assai gravi. L’Europa è la sola area del mondo nella quale l’idea dell’unificazione federale è entrata, anche se in forme non interamente consapevoli, nelle aspettative dei cittadini, ha generato una cultura e ha dato luogo ad una elaborata struttura istituzionale. E’ difficilmente pensabile che lo stesso cammino possa essere percorso altrove, se non dopo molti decenni, se venisse a mancare l’Europa come punto di riferimento. E’ anzi probabile che, a termine, le altre aggregazioni oggi esistenti si sfalderebbero sotto il peso di quelle stesse contraddizioni interne e di quelle stesse pressioni internazionali che subisce oggi l’Europa. Il processo della formazione di un vero e proprio sistema mondiale degli Stati si arresterebbe. Gli Stati Uniti rimarrebbero la sola potenza mondiale, incapace, da sola, di dare ordine ad un pianeta in preda all’anarchia.
Da questi sviluppi dipenderà il futuro dell’ONU. Se sarà sostenuta dalla collaborazione di un ristretto numero di grandi federazioni regionali di Stati, democratiche e consapevoli delle proprie responsabilità mondiali, l’ONU potrà svolgere un’azione efficace di peace-keeping e di peace-enforcing, affrontare con successo le grandi sfide ecologiche planetarie, avviarsi verso la propria democratizzazione e, a più lungo termine, acquisire il monopolio della detenzione delle armi nucleari e dello sviluppo della tecnologia necessaria per garantirne la sicurezza, assumendo cosi la funzione di un vero e proprio governo mondiale. Mentre sarà condannata all’impotenza e lascerà il mondo in preda al disordine se rimarrà il paravento della sola debole leadership americana.
Se i governi europei sapranno imporre in Europa le ragioni del federalismo contro quelle del nazionalismo, le spinte all’unità prevarranno su quelle alla disgregazione anche a livello mondiale, dando concretezza e visibilità alla prospettiva dell’instaurazione della pace perpetua. Se essi non avranno questa capacità, sul mondo scenderà la minaccia di una nuova lunga e oscura fase di disordini e di guerre.
 
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Una volta prospettate le conseguenze più probabili di una possibile interruzione del processo di unificazione europea, ci si deve chiedere quali sarebbero le circostanze il cui verificarsi consentirebbe di stabilire se l’occasione storica che oggi si presenta all’Europa sarà stata colta o sarà stata definitivamente perduta. In realtà individuare fin da oggi lo specifico evento che segnerebbe il punto di irreversibilità della crisi appare impossibile. L’Europa dovrà affrontare nei prossimi anni i problemi della moneta, della riforma delle istituzioni, del rifinanziamento del bilancio comunitario, dell’allargamento e della difesa. Questi problemi tenderanno a confluire in un unico grande negoziato permanente, nel corso del quale si alterneranno le priorità e si modificheranno, almeno in parte, gli schieramenti. Vi saranno momenti gravi di tensione e di stallo. Ma nessuna sconfitta su di un singolo obiettivo comporterà di per sé stessa la fine del processo, anche se la data del primo gennaio 1999 prevista per l’inizio della terza fase dell’Unione economica e monetaria sarà comunque cruciale. Una crisi grave potrebbe indurre i governi più profondamente coinvolti nel processo a prendere sempre più chiaramente coscienza della natura degli interessi in gioco, favorire la formazione e il consolidamento di fronti contrapposti e rafforzare progressivamente la loro volontà europea.
L’esito dell’intera vicenda dipenderà comunque dal fatto che i governi che oggi si rendono conto della necessità della moneta europea e di una maggiore efficacia e democraticità delle istituzioni dell’ Unione sappiano andare fino in fondo, traendo da questa consapevolezza la conseguenza che quegli obiettivi possono essere raggiunti soltanto con la creazione di un quadro statuale di natura federale. E dipenderà inoltre dal fatto che — qualora, come oggi sembra sicuro, si rivelasse impossibile ottenere dai governi che attualmente sono contrari ad ogni significativa cessione di sovranità il consenso per un progetto federale — gli altri mostrino la lucidità e la determinazione necessarie per andare avanti da soli. Questa evoluzione richiederà tempo. Ma verrà il momento nel quale sarà chiaro a tutti se la sfida sarà stata vinta o sarà stata perduta. Soltanto nei primi anni del terzo millennio sarà verosimilmente possibile stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, se il processo di unificazione europea dovrà essere considerato come fallito o sarà destinato a continuare.
 
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Ogni previsione storica deve essere accompagnata dalla coscienza della sua intrinseca incertezza. Per questo non può essere escluso che lo «scenario» qui delineato si riveli sbagliato e che un eventuale fallimento dei progetti le cui sorti si decideranno nei prossimi anni non comporti la fine del processo di unificazione europea. Può essere che il futuro dimostri che l’interdipendenza acquisita in cinquant’anni di integrazione, pur se non consolidata da istituzioni federali, sarà stata tanto forte da sopravvivere al mutamento del contesto internazionale. In questo caso la prospettiva dell’unificazione politica dell’Europa rimarrà sul campo ancora per un tempo indefinito, consentendole di superare altre gravi crisi, di tener vive le speranze dei cittadini, di orientare le scelte degli uomini politici e di preservare la pace, la prosperità e la democrazia, anche se in un contesto di accresciute difficoltà. Può essere. Ma ciò significherebbe che il processo di integrazione europea è ormai irreversibile, cioè che l’unificazione politica dell’Europa, per quanto riguarda i suoi aspetti essenziali, è già fatta, anche se nessuno lo sa.
E’ questa un’ipotesi che un osservatore distaccato potrebbe arrischiare. Ma non chi è impegnato nel processo come attore e, in quanto tale, è costretto a viverlo come contingente. Per questo i federalisti, di fronte ai segnali inquietanti che si moltiplicano sulla scena europea, hanno il dovere di attirare l’attenzione degli uomini politici e dell’opinione pubblica sulla gravità dei pericoli che ci minacciano. Solo in questo modo è possibile aiutare la classe politica a prendere coscienza delle proprie responsabilità e i cittadini più consapevoli a formarsi un giudizio non distorto dallo specchio deformante della politica nazionale.
 
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Chi vuole essere attore del processo storico e perseguire l’intento di migliorare le condizioni della convivenza umana deve credere che la ragione sia destinata, a lungo termine, a prevalere. Si tratta del resto di un atteggiamento che, se ha il suo fondamento nella necessità di dare un senso al proprio impegno civile radicandolo in un’idea del processo storico che abbia nella ragione il suo motore ultimo, è anche confortato dall’osservazione della storia reale che, pur nella sua tumultuosa tragicità, ha prodotto nei millenni l’allargamento del quadro della convivenza pacifica e democratica tra gli uomini dalla città-Stato greca alla federazione continentale americana. Ma la ragione è destinata a prevalere soltanto a lungo andare. Ciò significa che una possibile crisi storica del processo di unificazione europea non comporterebbe che esso, e, al di là di esso, quello dell’unificazione mondiale, sia destinato a non ricominciare mai più in futuro. Significa però che una lunga fase di eclissi della ragione potrebbe spingere l’Europa ai margini della storia e impoverire gravemente la vita materiale e spirituale di una o più generazioni. Non basta, per esorcizzare questo pericolo, ricorrere all’idea dell’inarrestabile avanzata del processo di aumento dell’interdipendenza tra i comportamenti degli uomini. Non si dimentichi che la stessa spinta all’aumento dell’interdipendenza che è stata all’origine del processo di unificazione europea aveva provocato, nella fase precedente, il fascismo e due conflitti mondiali, e che lo stesso inizio del processo di unificazione europea non sarebbe stato possibile senza l’orrore provocato negli uomini dall’esperienza dell’oppressione e della guerra. Ciò che nel dopoguerra ha — anche se solo in parte — risvegliato la ragione è stata la tragica constatazione dei terribili effetti del suo torpore. Ma con il passaggio dei decenni la memoria di quegli eventi si sta affievolendo. Ed oggi, per ridare forza alla ragione, bisogna, pur mantenendo fermo il riferimento al passato, volgere la propria attenzione al futuro e tentare di rendere pensabili gli orrori che potrebbero verificarsi tra non molti anni se i governanti europei non fossero all’altezza delle loro responsabilità storiche e non mostrassero la lucidità e il coraggio necessari per dare inizio, unendo l’Europa, alla fase federalista della storia mondiale.
 
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