IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXI, 2019, Numero 1-2, Pagina 3

 

 

Dopo il voto europeo si apre la battaglia
per rifondare l’Unione europea su basi federali

 

 

Il nuovo Parlamento europeo e la nuova Commissione europea hanno di fronte a sé un grande compito e una grande responsabilità. La nuova legislatura si apre infatti con un mandato forte da parte dei cittadini, che hanno risposto alla sfida dei partiti nazionalisti e populisti scendendo in campo in difesa del progetto europeo, ma chiedendo al tempo stesso un forte cambio di passo dell’Europa. Questa legislatura, allora, non potrà permettersi di essere “business as usual”, come di fatto è successo a quella passata, nonostante le ambizioni di Juncker all’inizio del suo mandato alla presidenza della Commissione europea che parlava di avviare una “legislatura costituente”. In questi prossimi cinque anni l’Unione europea si gioca la possibilità di rilanciarsi, dando risposte alle domande dei suoi cittadini e acquisendo un nuovo status globale; oppure di autocondannarsi al declino e alla perdita dei suoi riferimenti valoriali e politici. E’ il nuovo scenario internazionale, in primis, che non lascia altro tempo all’Europa: mai come in questo momento è stato vero il monito di dover scegliere tra “federarsi o perire”, per poter difendere il proprio modello e proiettare la propria influenza nel mondo.

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Il voto per la rielezione del Parlamento europeo ha presentato novità rispetto al passato. Vale la pena ricordare i tre elementi fondamentali che sono emersi e che devono essere evidenziati.

Il primo è che i cittadini europei hanno raccolto la sfida lanciata dalle forze che denigrano e vogliono distruggere l’Europa. La crescita della partecipazione al voto con l’eccezione significativa dell’Italia ci dice, ancor prima dei risultati elettorali, che i cittadini hanno ritenuto importante far sentire la loro voce e vivere l’elezione come un momento di democrazia vera.

Il secondo è che i cosiddetti sovranisti almeno per questa volta non hanno vinto. I loro numeri sono stati contenuti quasi ovunque — anche qui con l’eccezione dell’Italia, questa volta insieme al Regno Unito —; persino in Francia, dove è stato di misura il primo partito, il Rassemblement national di Marine Le Pen ha comunque totalizzato un paio di seggi in meno rispetto al 2014. Le forze anti-europee sono dunque cresciute di una ventina di seggi in tutto, ma, indebolite anche dalla loro inevitabile frammentazione, non hanno numeri tali da poter pesantemente influire sui futuri equilibri dell’Unione.

Il terzo elemento è che alla crisi più o meno profonda nei diversi Paesi dei partiti tradizionali ha corrisposto l’ascesa di forze europeiste (quando non addirittura federaliste) di stampo liberale e ambientalista. Non solo i verdi infatti sono i vincitori morali di questa tornata elettorale, ma lo sono anche i liberali che vedono crescere di molto il loro peso politico, soprattutto laddove sono portatori di un disegno di rilancio politico dell’Europa. Questo è un segnale positivo se si crede che in Europa sia urgente approfondire l’unità economica e politica dei Paesi che sono disponibili a farlo. Sembra difficile nascondere che i due schieramenti tradizionali paghino l’immobilismo in tal senso.

Il voto ha quindi determinato una situazione nuova, che crea le condizioni per aprire una stagione politica con l’ambizione di dare seguito al mandato popolare e di portare profondi cambiamenti nella struttura dell’Unione europea. Nel nuovo quadro è diventato possibile saldare il fronte di tutte le forze pro-europee, sia di quelle nei governi che sostengono la necessità di un’Europa più forte e più unita sul piano politico (in particolare la Francia e la Spagna), sia dei partiti pro-europei presenti nel Parlamento europeo. La stessa Commissione dovrà essere impegnata su questo fronte, come ha dimostrato la complessa elezione della nuova Presidente. Ursula von der Leyen, per riuscire ad avere la maggioranza, ha presentato il suo mandato e la sua linea di governo dell’UE dopo essersi confrontata a fondo con le famiglie politiche pro-europee e schierandosi con forza per il rafforzamento delle politiche comunitarie, per una maggiore coesione dell’UE, per il sostegno ad una maggiore democrazia europea, che significa innanzitutto più forza alle istituzioni elette dai cittadini dell’Unione, ossia al Parlamento e alla Commissione stessa.

A questo proposito, uno dei punti cruciali del programma della nuova Presidente, condiviso con i partiti pro-europei e stranamente poco messo in evidenza nei commenti, sarà l’appuntamento della Conferenza sul futuro dell’Europa voluta da Macron e che sembrerebbe ormai data per certa. L’impatto di questo momento di dibattito pubblico che dovrà affrontare i nodi delle debolezze attuali dell’Unione europea sarà sicuramente dirompente; difficilmente potrà non sfociare in una riforma dei Trattati, aprendo le porte ad un processo di revisione reale degli attuali assetti europei, che bloccano le ambizioni dell’Unione europea e sono la causa della sua impotenza.

Tuttavia, la discussione è ancora aperta su come dovrà essere impostata, e sicuramente le ambizioni e la conseguente impostazione con cui verrà varata saranno decisive per condizionarne l’andamento e i risultati. Nel discorso di investitura della neo-Presidente, la Conferenza è stata indicata con caratteristiche che denotano una visione ancora minimalista. Si parla infatti di una Conferenza di una durata di due anni (tempi troppo lunghi per una Conferenza operativa), che dovrebbe attribuire un ruolo paritario ai cittadini e alla società civile rispetto alle istituzioni europee (un formula che non prevede il coinvolgimento delle istituzioni nazionali e regionali/locali e che è troppo vaga nell’ottica di un dibattito sui fondamenti politici ed istituzionali dell’Unione europea); anche se poi si specifica che scopo e obiettivi della Conferenza dovranno essere ben delineati dalla Commissione stessa insieme al Parlamento europeo e al Consiglio.

Per rendere concreta la prospettiva di un rilancio dell’Europa, il primo passaggio cruciale riguarderà quindi proprio l’organizzazione della Conferenza, perché essa abbia la forma più simile possibile a quella della Convenzione prevista dai Trattati (che è quello che chiede anche il gruppo dei Socialisti & Democratici nella lettera che ha inviato alla von der Leyen prima del voto), e possa avere le ambizioni — nei fatti, anche se non nella forma (che deve appunto essere preparata attraverso questo passaggio) — di una vera costituente.

In parallelo bisogna costruire un’agenda ambiziosa per i suoi lavori, e dovrà essere proprio il Parlamento europeo a dettarla. La Commissione — e lo si è capito bene già dal discorso, per quanto bello e appassionato, della von der Leyen a Strasburgo, ma ancor di più è apparso chiaro nelle successive interviste — rimane la guardiana dei Trattati, la custode del sistema attuale, che vuole migliorare, ma che non può impegnarsi in prima persona a cambiare in modo decisivo. Spetta dunque all’Assemblea eletta dai cittadini e investita del mandato di far cambiare passo all’Europa far pesare e sfruttare la contraddizione insanabile che esiste tra l’attuale assetto europeo e le ambizioni di azione e di efficacia che la stessa neo-presidente della Commissione ha rivendicato per l’Unione europea. Nella sua agenda di politiche ambiziose il punto oscuro — non chiarito, perché è impossibile farlo — resta quello di trovare il consenso tra i governi divisi, eppure padroni della politica europea, per procedere effettivamente, oltretutto in assenza di risorse adeguate.

Il primo confronto che dovrà aprirsi all’interno della Conferenza sarà allora innanzitutto politico-culturale, tra le due visioni diverse del mondo e della politica, e quindi dell’Europa, che convivono oggi nel fronte variegato degli europeisti. Alcuni osservatori l’hanno riassunta nella formula europeismo del XXI secolo vs europeismo del XX secolo.

L’europeismo del XXI secolo ha una visione molto più politica, e punta a superare la prospettiva europea del XX secolo che si è costruita dopo Maastricht e dopo la riunificazione tedesca, durante la prima fase della globalizzazione; anni in cui si è voluto credere che la stabilità internazionale fosse acquisita indefinitamente grazie a quella che si riteneva la vittoria del modello liberal-democratico che garantiva l’apertura dei mercati e la nuova divisione internazionale del lavoro. In questo quadro l’Unione europea, in larga parte sotto la guida della Germania, ma con un ruolo cruciale anche del Regno Unito, si è concepita come il modello di mercato integrato da proporre al mondo; e ha teorizzato che la politica (nel senso di capacità di decidere e di agire) restasse confinata all’interno dello Stato nazionale, per accompagnare il gioco delle forze della libera competizione economica e commerciale sui mercati globali, pur in un quadro di cooperazione tra partner a livello europeo. Il suo ruolo doveva essere innanzitutto rivolto a sviluppare la competitività del sistema nazionale e un solido welfare nel proprio Paese. Era (è) escluso da questa prospettiva tutto ciò che riguarda la politica intesa come potenza, ossia capacità di proiettarsi sulla scena internazionale con una propria visione geostrategica globale per plasmare il quadro, e non semplicemente per ricavarsi alcuni spazi di manovra in un sistema governato da altri. Oggi, in un mondo in cui tutti ammettono che l’Europa deve diventare capace di prendere in mano il proprio destino, in cui arretrano le democrazie e l’apertura dei mercati è messa sotto pressione dalla politica di potenza; e in cui le nostre società stanno subendo i guasti di un modello che non ha investito sufficientemente la politica del ruolo di guida e controllo — e quindi anche di compensazione — dei nuovi processi che comportano sia la perdita dell’egemonia da parte dell’Occidente, sia profondi mutamenti sociali indotti dalla rivoluzione tecnologica, l’europeismo del XXI secolo rivendica un’Europa che diventi un’istituzione sovrana capace di fare politica, di decidere e di agire. In questa visione — che si esprime sovente in forme ancora confuse, e che spesso fatica ad individuare gli strumenti necessari per realizzare le proprie ambizioni europee — il punto cardine è che l’Europa è il solo livello di governo col quale gli europei possono recuperare il controllo dei processi storici, politici e tecnologici in atto; e col quale quindi torna possibile rilanciare in termini positivi e forti al tempo stesso i temi del ruolo della politica, dello Stato, e quello dell’identità. Anche quest’ultima questione (l’identità) è infatti indispensabile per recuperare la coesione sociale: il vuoto che l’abbandono di questo riferimento da parte della politica democratica ha lasciato nelle nostre comunità — già disorientate dai mutamenti profondi e a volte penalizzanti in corso — è riempito oggi in termini negativi dai nazionalisti. Solo a livello europeo si può recuperare un senso profondo di appartenenza alla propria comunità e di identità collettiva collegandolo non a paure e chiusure, ma alla capacità da parte della politica democratica di difendere insieme i valori universali e gli interessi dei cittadini, riuscendo a governare i processi in atto senza sacrificare, ma anzi rafforzando, la democrazia e la libertà di ognuno.

Di fatto, “la visione del XXI secolo” condivide gli stessi fondamenti della concezione federalista, e solo diventando pienamente consapevole che è necessario che l’Europa si dia un assetto federale (e battendosi per questo obiettivo) potrà raggiungere i propri scopi. La Conferenza, per essere utile e avere successo, dovrà quindi essere il quadro in cui far emergere le proposte per portare l’Unione europea a diventare federale, nel rispetto delle diverse sensibilità nazionali, ma nella consapevolezza che senza sciogliere questo nodo l’Unione è ferma ad una linea di azione troppo debole nel quadro attuale.

Il punto dirimente prioritario da affrontare dovrà pertanto essere quello della rifondazione dell’Unione europea su due diversi livelli di integrazione, fondati sulla diversa volontà degli Stati membri di partecipare ad un’unione politica sovranazionale che emergerà dal dibattito. Si tratta di un passaggio indispensabile per poter definire le riforme istituzionali e politiche necessarie per rafforzare il livello europeo in modo che sia in grado di agire in modo efficace e democratico. Senza questo chiarimento, il dibattito rimane prigioniero delle paure e delle ambiguità che rendono al momento così complesso e confuso il confronto. Si tratta semplicemente di stabilire che la riforma dell'Unione non dovrà seguire la regola dell’unanimità e che finché un paese non è disposto ad aderire all’Unione 2.0, esso rimarrà legato alle regole dell’Unione 1.0. Nessun rischio pertanto di indebolire il quadro o la coesione dell’Unione europea, ma solo la possibilità di ancorarla, attraverso l’unione più stretta tra gli Stati pronti a muoversi in tal senso, ad un centro di gravità politico di natura federale che la rafforzi e la stabilizzi; un nucleo aperto a tutti i paesi che intendono parteciparvi, oggi o in futuro, che lascia al tempo stesso invariato l’acquis per gli Stati che vogliono fermarsi all’attuale quadro comunitario.

Liberato il campo dal fatto che si devono discutere separatamente le riforme che si ritiene debbano trovare il consenso di tutti i 28 Stati membri da quelle che devono rispondere alle ambizioni politiche di un’Europa sovrana, diventano chiare quali sono in questo secondo ambito le priorità per rafforzare la democrazia europea e la capacità di azione del nucleo più integrato dell’Unione europea, che porterà a livello europeo il governo di alcune nuove competenze politiche. Da un lato quindi dovranno essere condivise a 28 le riforme del Mercato, dell’attuale bilancio dell’Unione, e anche la creazione di liste transnazionali e la parlamentarizzazione della procedura di nomina della Commissione europea, attraverso il rafforzamento del sistema degli Spitzenkandidaten e dando più potere al Presidente della Commissione nella scelta dei suoi membri. Nel quadro più ristretto, invece, si dovranno trasferire poteri politici e creare strumenti nuovi: innanzitutto si dovrà stabilire la piena codecisione tra il Parlamento europeo e il Consiglio (nella composizione adeguata che si valuterà come definire) in tutte le materie di competenza del livello sovranazionale e l’attribuzione alla Commissione europea di pieni poteri esecutivi. Per consentire alla Commissione europea di attuare le sue politiche, saranno inoltre essenziali: un bilancio federale, finanziato da autentiche risorse fiscali europee, deciso e controllato a livello europeo dal Parlamento e dal Consiglio (sempre nella composizione ad hoc che si dovrà definire sula base dei membri del livello più integrato); lo sviluppo di un’Unione europea di difesa; la definizione di una tabella di marcia per la trasformazione dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e di sicurezza politica in un ministro europeo degli affari esteri, abolendo i ministri nazionali degli affari esteri.

Il problema apparentemente intricato di regolare il rapporto tra i due diversi livelli dell’Unione sarà in realtà risolvibile sulla base della volontà politica di rispettare l’integrità delle prerogative di ciascun livello, e grazie alla lunga esperienza creativa maturata nell’ambito dell’Unione europea attraverso lo sviluppo del suo modello e del suo sistema giuridico.

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Con l’avvio della Conferenza, gli europei hanno dunque davanti a sé un’occasione straordinaria per fare il passaggio politico capace di traghettare la nostra Unione verso un futuro molto più stabile e ricco di prospettive, determinante anche per i futuri assetti internazionali. Per molti aspetti sembra l’ultima chance offerta al nostro continente in questa fase storica: i cittadini europei a fine maggio hanno dimostrato di volerlo questo passaggio, e si meritano pertanto dei parlamentari, e un’Europa, all’altezza delle loro aspettative.

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